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Quando la “feccia di Porta Pia” si solleva

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di COMMONWARE

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Cosa significa sollevarsi? Nessuno pensava che il 19 ottobre avrebbe dato una riposta, porre la domanda era già un obiettivo ambizioso. Da questo punto di vista, la manifestazione di Roma ha raggiunto un primo importante risultato, certamente parziale ma per nulla semplice e scontato. Di fronte agli evidenti processi di frammentazione agiti dalla crisi, il problema era ed è trovare le vie per invertire la rotta. Si è tentato di farlo partendo dalla potenzialità di generalizzazione che alcune lotte hanno: quelle della casa o dei lavoratori della logistica, e ovviamente i movimenti che fin qui sono stati definiti territoriali – dal No Tav al No Muos – e a cui chiaramente questo marchio va ora stretto.

Ricomposizione è una parola pesante, da maneggiare con cautela, perché è sempre dietro l’angolo il rischio di confonderla con una semplice sommatoria di conflitti e reti, peggio ancora di sigle. Vi era anche il timore che il 19 ottobre – nella difficoltà attraversata dai movimenti, quelli che esistono e quelli che non esistono – non andasse molto al di là di quel generoso e intenso sforzo militante che l’ha resa possibile. Le cose sono andate in modo diverso, e questa è già un’indicazione di metodo: senza l’assunzione di azzardi e scommesse non si costruiscono salti o passaggi in avanti. Le cose sono andate in modo diverso innanzitutto per i numeri: conta poco qui puntualizzare se fossero 70.000 o 100.000, una volta fissato un simile ordine di grandezza si può affermare che erano sicuramente il doppio se non il triplo di quella che era stimata come una “buona partecipazione”. Non va dimenticato che questa partecipazione era – letteralmente e fuori di retorica – autorganizzata, cioè per scelta costruita senza l’appoggio delle strutture istituzionali, per necessità senza il pur tentato accordo con Trenitalia, che ha di fatto limitato il diritto a manifestare, ancor più in una crisi che priva sempre più larghe fette di popolazione della possibilità di spendere 50 o 100 euro per spostarsi. Inoltre, a fronte di un dispositivo mediatico che ha modulato la tattica del silenzio e la strategia della criminalizzazione, quei numeri significano che la paura è stata sconfitta. Ovvero, forse, la paura è talmente connatura alla crescente violenza quotidiana della crisi e dell’impoverimento, da aver perso qualsiasi effetto come spauracchio occasionale. In un modo o nell’altro, i vantaggi della normalità sono venuti meno.

In secondo luogo, vanno fatte alcune considerazioni sulla composizione del corteo. Qui probabilmente (più ancora che per i numeri e per il suo carattere esplicitamente autorganizzato) va misurata la distanza, che oseremmo definire irriducibile, con i tentativi di costruire nuovi aggregati di rappresentanza della sinistra. I soggetti che si sono riconosciuti nello spazio del 19 ottobre – con diverse gradazioni migranti, precari di prima e di seconda generazione, ceto medio declassato – non si limitano a parlare della crisi: la vivono, la subiscono e sono stufi di pagarla, indipendentemente da Berlusconi e dalle alternanze di governo. Sono indifferenti alla costituzione non fosse altro perché dal patto sociale che la garantiva non hanno mai avuto alcun beneficio, e a questo punto neppure nessun ricordo o racconto. Chi si ostina a parlare di modelli che ricalcano quello delle “due società” non aveva capito nulla all’origine di questo processo, figurarsi ora. Questa è la società del lavoro cognitivo e mobile nella crisi. Perciò la multiforme radicalità che in certe situazioni esprime va letta in termini materialistici e non ideologici: ha cioè a che fare con le condizioni sociali e i comportamenti soggettivi (definiti impolitici da chi confonde la politica con la rappresentanza), prima ancora che con le pratiche scelte dalle componenti organizzate. Del resto, il piano simbolico che ha caratterizzato molte pratiche di movimento a partire dalla fine degli anni Novanta si è esaurito, proprio perché la precarietà di vita non ha più nulla di simbolico.

Questi soggetti, in terzo luogo, incarnano temi che – pur embrionalmente e in modo ancora incompleto – possiamo chiamare di “programma”. La casa, con occupazioni che si stanno diffondendo senza precedenti; anche la sua grossa espressione romana, dove indubbiamente esiste una radicata tradizione, presenta elementi e caratteristiche nuove, a partire dal protagonismo dei migranti. Il reddito, sempre più incarnato in pratiche concrete e diventato senso comune non solo dei movimenti, ma di questa composizione nella crisi (solo i sindacati e la sinistra continuano a non rendersene conto o quasi). Il “diritto alla città” inizia a prendere forma nelle lotte sull’appropriazione dello spazio urbano (anche i movimenti “territoriali” agiscono pienamente in questa dimensione). Il protagonismo dei migranti, poi, non è più riducibile alle questioni della cittadinanza e dei diritti: sono interamente figure delle lotte sul lavoro, per l’abitazione e la riappropriazione di fette di reddito. Limitarsi ai “colori” della manifestazione fa parte di una fuorviante retorica multiculturale, mentre insistere sul loro carattere “separato” o di irricomponibile eterogeneità rispetto alla composizione di classe nel suo complesso rischia di trascurare gli elementi di comunanza oggettivi e soggettivi.

Last but not least, il 19 ottobre non è stata una data solo italiana: a Lisbona un’imponente manifestazione ha bloccato il porto, a Madrid una partecipata assembla ha riempito Puerta del Sol, e poi iniziative soprattutto sulla casa in altre città europee. Che la lotta contro l’austerity e l’azione politica in generale non possano che essere transnazionali, è ormai un dato di fatto da tempo acquisito. Come metterlo in pratica, resta un nodo da sciogliere. Partire dalle lotte nello spazio mediterraneo, sembra essere qualcosa di più di una suggestione: è un’ipotesi da percorrere per strappare il discorso sull’Europa all’ideologia o alla ripetizione di formule inattuali. Certamente, il 19 ottobre ci conferma che ha ragione Christian Marazzi a sostenere che in una situazione storicamente differenziata dobbiamo riconoscere e agitare gli elementi comuni, a partire dalle condizioni di vita.

É sufficiente il 19 ottobre? Ovviamente no. Da un lato, perché non ci si può accontentare di una manifestazione “autunnale”, in quello schema di stagioni calde e fredde che ci portiamo dietro dai cicli di lotte operaie. La capacità da parte dei soggetti sociali protagonisti a Roma di determinare una propria temporalità deve andare oltre il 19, se questo vuole essere non solamente un evento bensì un processo. Dall’altro, nelle settimane di preparazione della manifestazione ci sono state varie iniziative diffuse e non solo militanti, che hanno almeno in parte prefigurato ciò che si è poi espresso per le strade di Roma. Sono piccoli ma rilevanti segnali, da interpretare e coltivare.

Qualche tempo fa, ponendo il problema della mancanza di un equivalente di “occupy” in Italia (con l’eccezione della Val di Susa), parlammo di “tappi” che ne impedivano l’emergenza. Dire che questi tappi adesso sono finalmente saltati sarebbe frettoloso. Ci sembra però che alcuni di essi – per esempio quelli di governance dentro e fuori dal movimento – stiano cedendo. Forse è anche di questo che si sono accorti quei giornali reazionari che, all’indomani del 19, hanno parlato – un po’ livorosi e un po’ impauriti – della “feccia di Porta Pia”. Come Sarkozy nel 2005 quando definì “racaille” i banlieusarde, ciò che cercano di esorcizzare è una semplice verità: la “feccia di Porta Pia” è oggi la condizione comune di quella diversificata composizione del lavoro vivo contemporaneo, precarizzato e impoverito, che ha assediato i ministeri romani. É proprio questa che, ben oltre il 19, può o forse dovremmo dire ha già iniziato a sollevarsi.

 

Vogliamo l’immediata libertà per le compagne e i compagni arrestati il #19o: non potete fermare il vento...