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La differenza marxiana

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Introduzione al volume Marx e il conflitto di Gennaro Imbriano (collana Input di DeriveApprodi, maggio 2020)

Più di duecento anni dopo la nascita di Marx, il suo pensiero ha conosciuto un destino beffardo. Se nel Novecento interpretazioni e ricerche sul suo conto sono fiorite copiose, la rovinosa caduta del «socialismo reale» ha finito per trascinare con sé anche il Moro di Treviri, sul quale l’anatema dei vincitori si è scagliato vendicativo. Dapprima osannato e ovunque citato, Marx è stato poi dileggiato, spesso proprio da chi ne aveva fatto in precedenza il proprio mentore – non perdendo l’occasione di accodarsi ai suoi nemici quando la sconfitta del movimento operaio e delle repubbliche democratiche che in suo nome avevano eretto il socialismo di Stato era conclamata –, poi lentamente dimenticato e quindi consegnato agli archivi di un mondo ormai trascorso. 

Se non che è accaduto che dagli abissi e dalle tenebre alle quali era stato consegnato Marx è risorto negli anni della recente crisi, quando il neoliberismo trionfante ha mostrato, dopo gli inizi ruggenti della globalizzazione che divorava l’intero globo (oramai privo di limiti, barriere e contropoteri effettivi all’egemonia del capitale), la natura predatoria, violenta e irrazionale dell’accumulazione capitalistica. La caduta del blocco dei Paesi che attorno all’URSS avevano tentato di costruire un’alternativa di sistema, in effetti, non consegnava all’umanità ciò che i cantori del nuovo ordine avevano promesso: al posto della libertà si facevano largo nuove forme di sfruttamento; la povertà e la condizione di subalternità di larghe fette della popolazione mondiale si radicavano sempre più massicciamente; nuove guerre insanguinavano il Medio Oriente, infiammando intere regioni del globo e alimentando il fenomeno del terrorismo; infine, la crisi finanziaria (ed economica) investiva direttamente il centro dell’Occidente capitalistico, mostrando chiaramente la sua fragilità, rendendo ancora più violenti i meccanismi di subordinazione dei lavoratori e gettando anche vasti settori del ceto medio in condizioni di sempre più inquietante pauperizzazione. 

È parso insomma che di fronte alla crisi del sistema capitalistico occorresse rispolverare proprio il suo più radicale critico, che con occhio accorto aveva diagnosticato ampiamente i processi di autodistruzione cui il capitale è destinato nello sviluppo della propria valorizzazione e che aveva offerto chiavi di lettura e strumenti interpretativi decisivi per la comprensione delle sue dinamiche (e delle sue crisi). Ma il destino di questa riscoperta è, come dicevamo, beffardo. Se resta vero che il pensiero di Marx ha vissuto una rinascita, testimoniata dagli studi e anche dai riconoscimenti più o meno formali che ha raccolto nel mondo accademico e non; se è altrettanto indiscutibile che questa rinascita ha portato con sé un quasi unanime giudizio lusinghiero sul valore interpretativo della critica marxiana, da più parti valutata come irrinunciabile per capire anche il mondo odierno; resta tuttavia che questa riscoperta è stata spesso accompagnata da semplificazioni, addomesticamenti, esibizioni del pensiero di Marx che scientemente hanno tentato in tutti i modi di tacitarne la complessità. Si sono succedute interpretazioni che hanno voluto leggere Marx di volta in volta come strumento, autore eclettico e asistematico, «classico» depotenziato e privato della sua carica disturbante, inquietante, imbarazzante. In una parola, è stato riscoperto molto volentieri il Marx analista del modo di produzione capitalistico, quasi mai il Marx «politico», ovvero l’autore che si pone di fronte al capitale per provare a sollecitarne l’abbattimento. 

Questo Marx pacificato, depotenziato e privato del suo «pensiero della rivoluzione», è stato mostrato come tale proprio da quanti hanno preteso riscoprirlo. Mettendo in evidenza ogni volta questo o quel «merito» dell’analisi marxiana, questa o quella intuizione, essi hanno finito per occultare il senso complessivo di un’impresa teorica, che resta animata dalla vocazione alla trasformazione radicale dell’esistente, ovvero all’abolizione del sistema della proprietà capitalistica. Così l’obiettivo di questo libro è quello di provare a contribuire a «salvare» Marx, se è lecito usare un’espressione un po’ enfatica e forse altrettanto pretenziosa, da quel senso comune che ne fa uno di tanti autori da inserire nel calderone del rinascente pensiero critico alla moda. 

Significativa ci pare, da questo punto di vista, proprio la relazione tra Marx e la critica. Siamo convinti che per restituire Marx all’orizzonte che compete al suo pensiero sia necessario riconsegnarlo alla sua radicalità e alla sua politicità. Da questo punto di vista, ci pare necessario anzitutto sgombrare il campo da sovrapposizioni ed eclettiche «fusioni», cioè sottolineare la specifica configurazione rivoluzionaria del pensiero di Marx, e la sua incompatibilità strutturale con quelle forme di pensiero «critico» – dalla filosofia della differenza al post-strutturalismo, dal filantropismo umanista alle teorie della decrescita, dalle rinnovate forme di mutualismo alle teorie sulla democrazia radicale – che hanno inteso o intavolare con la prospettiva marxiana connessioni di qualche natura, con la sola conseguenza di annacquarne la dirompenza e tacitarne gli esiti esplosivi, oppure addirittura porsi come le espressioni più avanzate dell’opposizione al dominio capitalistico. 

Lo scopo di questo libro, dunque, non è soltanto quello di fare emergere la politicità del pensiero marxiano (operazione che ci pare sacrosanta, anche se non scontata, contro le riscoperte «neutrali» del Marx classico del pensiero), ma anche di descriverne l’autonomia e di individuare la sua cifra peculiare, per intendere a pieno la sua diversità dalle – vorremmo dire: la sua inconciliabilità con le – prospettive sedicenti critiche che si impongono nello scenario odierno, le quali spesso non sono altro che riattualizzazioni o riprese di quelle concezioni teoriche (di ordine filosofico, sociale e politico) che Marx a suo tempo bollò come superate. Si è tentato dunque di tracciare alcune linee fondamentali che connotano la specificità del pensiero di Marx, ricavandola «per differenza», per «sottrazione», dal pensiero «critico» del suo tempo, e dichiarandola inconciliabile con l’orizzonte culturale, con il senso comune, con la visione del mondo che da esso – e dalle sue più svariate riprese odierne – deriva. 

La comprensione di ogni pensiero radicale, capace di produrre novità e di affacciarsi sul corso della storia con tutto il potere della sua dirompenza – cosa che fu, ne siamo convinti, il pensiero di Marx –, necessita della scoperta, e della messa in evidenza – della messa in rilievo – della sua insopprimibile differenza. Spesso il pensiero di Marx è stato letto a partire da cesure[1]. La cesura con la filosofia; la cesura con l’umanismo; la cesura con Hegel; la cesura con Feuerbach, che segna invece un ritorno a Hegel. Tutto ciò è senz’altro rilevante, e ha consegnato alla riflessione su Marx pagine ineludibili. Ma ciò che qui si vuol provare a mettere in evidenza è altro: e cioè il fatto che il suo pensiero opera una costante e sempre rinnovata rottura con le teorie del suo tempo che venivano percepite (talvolta perché così si rappresentavano) come critiche. Ci appare significativo il fatto che la prospettiva del mondo intellettuale della sinistra democratica e socialista del suo tempo sia stato il modello negativo da cui Marx partì per elaborare la propria posizione, il sistema di nozioni e concezioni da superare, pena la possibilità stessa di pensare (e agire) criticamente. 

E questa frenetica negazione non fu – questo ci sembra decisivo – il vezzo di un giovane radicale, che nella polemica sferzante della sua penna intendeva rovesciare una disfida culturale o esistenziale. Il fatto è che agli occhi di Marx l’incompatibilità definitiva e totale con il sistema capitalistico, la sua messa in crisi, implicava necessariamente anche la critica delle forme della sua riproduzione materiale e immateriale; dunque anche l’inconciliabilità con quelle forme e quelle attitudini della cultura (della filosofia, in particolare) e della politica (il riformismo e l’utopismo socialista) che, con buona pace dei propri esponenti, non facevano altro che riproporre la legittimazione di quel sistema che pretendevano di combattere. 

Proprio il tema della critica diventa, in questo scenario, centrale, e ineludibile, lo snodo decisivo che ci aiuta a scoprire la differenza marxiana. Essa è, in ultima analisi, l’esercizio della rottura – una rottura simbolica e materiale – che pone una sfida radicale all’esistente, al dato, al positivo. Se è davvero tale, la critica non può intrattenere con esso alcuna mediazione ricompositiva, mirando piuttosto alla sua distruzione o – come nelle forme con le quali Marx impara a familiarizzare – alla sua Aufhebung, al suo superamento. È questo elemento a determinare la qualità della critica, e a sanzionare la sua effettività: quali che siano le intenzioni, critico è il pensiero che riesce a essere davvero radicale, cioè che riesce, per usare una felice espressione di Marx, a «cogliere le cose alla loro radice»[2]. Non è, dunque, l’autoproclamata criticità di una teoria a essere garanzia della sua potenza, né tantomeno può una pura rappresentazione di alterità assicurarne il valore; si tratta, piuttosto, della capacità di cogliere l’essenza dei processi e di svelare il meccanismo che ne fonda la riproduzione, e di non concentrarsi invece su fattori esogeni, o secondari, o derivati. 

Cogliere le cose alla radice: scegliere il punto sul quale esercitare la riflessione del pensiero. Intesa dal punto di vista di una pura prospettiva terminologica, in effetti, la critica è precisamente, anzitutto, una scelta. La scelta di separare, dividere, sciogliere un problema per individuarne i punti nodali, i momenti fondativi, e ricomporre la sua complessità nell’esercizio della sua comprensione. È per questo che il rapporto della critica con la crisi non è casuale: solo una critica così concepita conduce alla rottura, alla crisi, la quale a sua volta la genera e con la quale è in rapporto tanto armonioso quanto ineludibile[3]. Proprio come la teoria lo è con la prassi. 

In buona sostanza Marx pretese, per sé e per il suo pensiero, la patente della critica, poiché mirava alla trasformazione dell’esistente. Ma in cosa, allora, esso è davvero diverso da quello (altrettanto critico, almeno nella sua autorappresentazione) dal quale pretende di separarsi, e del quale pretende di denunciare l’incapacità di cogliere alla radice l’essenziale? Potremmo forse rispondere con una formula che si tratterà di spiegare nel corso di questo testo: Marx imputa al pensiero critico (o presunto tale) del suo tempo, al dunque, l’incapacità di produrre, rispetto all’esistente che si pretende di criticare, un conflitto decisivo con le strutture che presiedono alla sua riproduzione. Ciò che questo pensiero sedicente critico non riesce a comprendere è che le contraddizioni che innervano il mondo moderno non possono essere ricomposte e armonizzate sul piano discorsivo, che nessuna soluzione è possibile restando nell’alveo dell’organizzazione sociale data e che nessuna dialettica della coscienza può effettivamente trasformare (modificandole) le condizioni che hanno generato la sua alienazione. 

Non si tratta però, agli occhi di Marx, di una mancanza morale, o soltanto prognostica. Alla base di questa attitudine è infatti, a suo giudizio, un difetto analitico: l’incapacità di cogliere che il mondo storico è di per sé segnato e pervaso dal conflitto materiale per la riproduzione della specie, con le conseguenti costellazioni che derivano dalla divisione sociale del lavoro e dalla gerarchizzazione dei rapporti sociali. Inoltre, che la stessa società moderna è il prodotto storico della sedimentazione di conflitti, e nello specifico della contraddizione per eccellenza che innerva la riproduzione del genere umano: la lotta tra le classi, quella che gli uomini che lavorano intraprendono contro quelli che detengono i mezzi di produzione per liberarsi dalla loro condizione di subalternità, e quella che questi ultimi conducono per conservare (a scapito dei primi) la loro primazia. 

Se, dunque, il conflitto – talora latente, talora silente, ma sempre operante nella storia degli uomini – è il motore delle trasformazioni, solo ponendosi all’altezza della sua cruda materialità è possibile «fare la storia», produrre cioè modificazioni reali dell’esistente. Non si tratta, allora, di edulcorare le contraddizioni nel teatro dello spirito, né di annacquarle nelle forme della mediazione politica, ma di interpretarle, strutturarle e incanalarle nelle forme di un conflitto organizzato. Si misura qui, dunque, lo specifico della critica marxiana, che si differenzia da quella che egli bolla come «critica critica»[4], la quale rappresenta per Marx tutto ciò che il suo pensiero non è e non deve essere, tutto ciò che si tratta di rifuggire, che si presenta come il momento originario sul quale edificarsi, sempre, per differenza assoluta, quel modello negativo dal quale essere sempre pronti a separarsi, pena il rifluire nell’alveo dell’accettazione del positivo. 

La nostra insistenza sulla «differenza» marxiana, naturalmente, non pretende di obliterare la complessità storica della formazione di Marx, la persistenza delle fonti, gli elementi di continuità che lo legano alla filosofia hegeliana e, in generale, alla tradizione precedente[5]. Non ci poniamo l’obiettivo – che sarebbe davvero impossibile raggiungere nello spazio che dedichiamo a Marx con questo piccolo libro – di tracciare una ricostruzione esaustiva del suo pensiero, una discussione dello sviluppo delle sue fasi e delle sue evoluzioni interne. Non siamo neanche in grado, in questa sede, di offrire una soddisfacente rappresentazione della complessità del tessuto teorico della visione di Marx, che come noto investe la concezione materialistica della storia da un lato e la critica dell’economia politica dall’altro, i due elementi costitutivi, le gambe sulle quali tutto l’apparato teorico marxiano muove[6]. E non intendiamo tantomeno discutere la filosofia della storia di Marx e i suoi presupposti[7]. Si tratterà, piuttosto, di prendere in considerazione alcuni snodi ritenuti particolarmente significativi e importanti – senza la pretesa che essi siano esaustivi – e di seguirli nella loro impostazione teorica e nel loro sviluppo per provare a delineare gli elementi fondamenti che connotano la specificità del pensiero di Marx. 

Partiremo, in questo viaggio, dalla critica marxiana della politica, che sarà filtrata dalla polemica che il giovane Marx muove contro l’analisi di Bruno Bauer sulla questione ebraica[8]. Per un verso Marx dà forma e contenuto al tema hegeliano della scissione del mondo moderno, ricondotta alla separazione delle sfere della vita pubblica – la società civile e lo Stato – che connota lo spirito del tempo. Proprio il rilievo che soltanto in ragione dell’affermazione della statualità si dia, nel suo seno, la società borghese dei liberi proprietari, conduce Marx a sanzionare l’irrilevanza del politico, la sua dimensione evanescente, vuota, secondaria. Siamo alla genesi della concezione materialistica della storia – siamo, se vogliamo, nell’attimo incandescente in cui scocca la scintilla destinata a infiammare tutto il successivo pensiero di Marx –, ovvero all’idea che la società civile sia il luogo che determina le dinamiche del mondo storico, e che lo Stato non faccia altro che riprodurne (celandole e cristallizzandole) le contraddizioni. 

L’attribuzione alla società civile del ruolo di fonte e incubatrice di ogni ulteriore sedimentazione istituzionale delle forme di vita diventa in effetti, da quel momento, il tratto distintivo della prospettiva storica marxiana, che lo condurrà a separarsi definitivamente da Bauer, il cui limite – un limite, si badi, che depotenzia in nuce tutta la presunta carica critica del suo pensiero, e che questi condivide con buona parte della tradizione politica moderna – è quello di avere obliterato questa priorità e di avere, conseguentemente, scelto la dimensione politica come lo spazio deputato a costruire l’universalità. È chiaro che qui la critica marxiana si separa definitivamente e senza possibilità di riconciliazione con ogni prospettiva che si ponga nel solco dell’autonomia del politico: la quale non è altro, dal punto di vista di Marx (come peraltro ribadì il suo più significativo esponente novecentesco), che mera teologia politica, trasferimento sul piano storico della gerarchizzazione dottrinaria tra cielo e terra[9]. 

Se larga parte del pensiero critico post-marxista ha recuperato questa istanza teologico-politica, ciò che la lettura del testo marxiano sulla questione ebraica ci restituisce in maniera indubitabile è l’inconciliabilità tra tale prospettiva e quella di Marx. Da questo punto di vista l’insistenza marxiana sulla centralità della società civile ha conseguenze notevoli, che solo in apparenza possono apparire ricomponibili nel quadro di una differente sensibilità culturale: in gioco è il fatto che ogni prospettiva politicistica, giuridico-centrica o culturalista viene da Marx inesorabilmente liquidata come inconsistente e, nel migliore dei casi, limitata. Il pensiero che parte da queste dimensioni per attingere l’universalità è, agli occhi di Marx, incapace di stare, suo malgrado, dentro lo spazio della critica. 

Il superamento della prospettiva politico-centrica come momento costitutivo dell’autoconsapevolezza marxiana (come momento genetico della sua prospettiva storico-materialistica), però, implica un movimento teorico complementare a questo e, in certo senso, logicamente precedente. Se commette l’errore di invertire, teologicamente, i rapporti tra il cielo della politica e la terra della società civile, quantomeno Bauer pensa nel segno della dinamica storica. Almeno concepisce, embrionalmente, il rapporto tra critica e crisi, tra teoria e prassi. Ma la filosofia? Essa è, dal punto di vista di Marx, attardata a uno stadio ancora precedente, poiché ingabbiata nel giogo di una teoresi fine a se stessa e autocentrata, che pretende di spiegare la propria genesi da sé e dunque di risolvere al proprio interno ogni scissione. È il tema dell’Introduzione del 1844, ma è il tema, ancor più significativamente, dell’Ideologia tedesca e delle Tesi su Feuerbach[10]. 

Agli occhi di Marx il difetto di Feuerbach, dal quale occorre emanciparsi, è quello di concepire la teoria nel suo isolamento dalla prassi, poiché il pensiero – apparentemente ricondotto da Feuerbach alla sensibilità – è l’alfa e l’omega di tutto, l’unica cosa davvero degna dell’essere umano, e di contro l’essere sociale è frainteso come mero e immodificabile dato oggettivo. Intellettualisticamente, Feuerbach non vede la realtà sociale – il suo rimosso di borghese emancipato dal lavoro – e disprezza con ciò l’uomo che lavora. Alla base di questo cortocircuito è il fatto che Feuerbach non vede che la realtà è il frutto della capacità degli esseri umani di oggettivarsi, di produrre, di creare il mondo nel quale essi vivono e si riproducono. Nella prospettiva di Feuerbach è condensato tutto il limite e tutta l’inconsistenza della «critica critica»: essa è un costrutto irrilevante perché non spiega né l’origine del mondo né quella del pensiero pensante, misticamente elevato a principio di sé. Una filosofia della conservazione, che non vede la storia, che non vede la trasformazione perché non vede le forme concrete dell’oggettivazione umana. Che non vede il lavoro perché lo disprezza, considerando davvero degno dell’umano solo il pensare. Che, infine e conseguentemente, immagina di poter risolvere – intellettualisticamente – le contraddizioni a partire dai moti dell’autocoscienza, non vedendo che le scissioni degli uomini alienati non si possono risolvere con dosi iniettate di buona coscienza, ma soltanto con la risoluzione delle contraddizioni sociali che le fondano. 

Ecco che Marx, tra critica della filosofia e critica della politica, giunge al punto archimedeo della sua posizione: la scoperta del concetto di produzione, ovvero il raggiungimento della consapevolezza che l’essere diviene (principio cardine della dialettica, ereditato proprio da quel pensatore, Hegel, che la «critica critica» pretendeva di avere liquidato), e la sua concretizzazione, cioè la scoperta che produttivo non è il pensiero, né tantomeno lo sono la cultura, il diritto, la morale o lo Stato. Produttivo è, anzitutto, l’uomo che lavora, energia primordiale dal quale ogni cosa deriva. È chiaro che già qui vi è abbastanza per individuare, per differenza, tutte le attitudini del pensiero cosiddetto critico (largamente imperanti anche oggi, spesso proprio in chi alla tradizione marxiana si richiama) che Marx liquida inesorabilmente. 

La scoperta del concetto di produzione non resta senza ulteriori conseguenze sul piano della teoria politica, della critica economica e della teoria dell’organizzazione, che sono altrettanti momenti in cui il paradigma marxiano si definisce. Quanto al primo punto, l’indagine che viene compiendo sul funzionamento della formazione sociale capitalistica conduce Marx a individuare il suo cuore nella proprietà privata dei mezzi di produzione. Di conseguenza, è nella loro socializzazione che Marx individua la pars construens della sua proposta politica. Ne deriveranno polemiche violentissime contro tutte le prospettive socialiste egemoni del tempo, che Marx liquida ogni volta come reazionarie, utopiste o conservatrici[11]. Ma la polemica che più di ogni altra appare significativa da questo punto di vista è senz’altro quella contro Pierre-Joseph Proudhon e l’apparente radicalità della sua proposta. Alle spalle della quale vi è, per Marx, niente altro che l’implicita accettazione del sistema capitalistico, la sua funzionale riproduzione e addirittura una estensione (oltre che una legittimazione) della proprietà, mascherata da inconsistenti mediazioni mutualistiche e santificata come unica forma possibile – anche se ipoteticamente estesa a ciascun individuo – dell’organizzazione sociale moderna. Con ciò, Proudhon non mette in discussione l’esistenza della proprietà, e dunque non esige la fine dello sfruttamento[12]. 

Non è un caso che queste critiche – che pongono al loro centro la scoperta della specifica configurazione della proprietà nella società capitalistica – si edifichino precisamente avendo al centro il concetto di sfruttamento, che Marx elabora a partire dalla sua critica dell’economia politica. Questa disciplina condivide con la filosofia e con la scienza politica l’insuperabile limite del naturalismo, cioè dell’accettazione del dato positivo. Così la proprietà è assunta a fatto naturale, la dimensione dello scambio – apparentemente il cuore stesso della vita economica, in verità sfera secondaria e dipendente dalle logiche della produzione, che la concezione materialistica della storia ha individuato come costituenti – assunta come il luogo nel quale si generano la ricchezza sociale e il valore delle merci. Ne consegue un occultamento delle dinamiche dello sfruttamento e la loro cristallizzazione. Ma la proprietà non è, come le ingenue (o complici) ricostruzioni dell’economia politica suggeriscono, qualcosa di naturale: essa è un dato storico, prodotto determinato dei conflitti sociali di cui è la risultante[13]. 

Lungo questa direttrice, Marx riapre – non avendola, in verità, mai chiusa – la sua riflessione sulla politica, che giunge a concepire una specifica concezione della rivoluzione. Questa non è da intendersi come il gesto eclatante – e al dunque aleatorio – della rottura teatrale, che essa sia materialmente posta in violente eruzioni momentanee o depositata in un frasario iperbolicamente minaccioso. E non è neanche, all’opposto, l’esclusiva ricerca di punti di appoggio irrilevanti ai fini della trasformazione effettiva della realtà: non si trova dunque nel formalismo democratico, nello sviluppo progressivo dei diritti politici, nell’inglobamento di fette di popolazione nei meccanismi della rappresentanza borghese. Rivoluzionario è quel pensiero che si colloca all’altezza dei risultati della critica dell’economia politica – che individua cioè nel superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione la leva decisiva della trasformazione – e rivoluzionaria è la prassi che struttura il caotico conflitto che abita il mondo storico nelle forme dell’organizzazione finalizzata all’esproprio e alla collettivizzazione (coatta, dittatoriale) dei mezzi di produzione. Solo mediante essa la politica potrà raggiungere il suo vero fine: l’emancipazione umana, la libertà dei singoli di realizzare se stessi[14]. 

Rilevante in questo posizionamento non è lo scontro – esiziale – tra attitudini massimaliste e riformiste: la radicalità della rivoluzione non sta, come detto, nella virulenza della sua eruzione, né nella breve durata della sua esplosione, ma nella capacità della transizione – sulla necessità della lunga durata della quale Marx diventerà via via sempre più consapevole – di mordere i gangli vitali del processo storico. Emblematica è, da questo punto di vista, l’insistenza di Marx sulla battaglia per la riduzione della giornata lavorativa (per la liberazione del tempo di lavoro) e per il salario: la lunga via della trasformazione è costellata anche di transizioni lente e di posizionamenti graduali, inesorabilmente condizionati dai rapporti di forza[15]. 

Tutto ciò implica, in parte, un ripensamento – o, se si preferisce, una precisazione – dei compiti della politica: se è vero che è illusorio pensare la prassi politica nella sua separatezza dalla materialità della dimensione sociale, è altrettanto vero che la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente implica sempre una connessione tra sfera politica e sfera sociale anche nel senso inverso: altrettanto inconcludente del politicismo è il corporativismo sindacale, momento necessario ma non sufficiente delle forme organizzative dei soggetti rivoluzionari. Il pensiero marxiano della rivoluzione, così, si colloca lungo la scia di una precisa teoria del conflitto (la lotta, non la pace è la condizione normale dello sviluppo storico) e di una rinnovata critica della politica, intesa adesso come forma dell’organizzazione della lotta operaia[16]. 

Che il pensiero della rivoluzione di Marx e i tentativi storicamente determinati di praticarlo siano andati spesso a vuoto, e abbiano prodotto più di una tragedia e più di un fallimento, non significa che sia impedito, oggi, continuare a pensare in questa direzione. Ciò che, in ultima analisi, questo pensiero ci consegna ancora, è la possibilità di non arrendersi all’idea che le uniche prospettive alle quali il pensiero critico debba consegnarsi oggi siano quelle che tutto mettono in discussione fuorché l’essenziale: l’odierna organizzazione dei meccanismi della produzione. Solo nella loro trasformazione e in quella dei rapporti di proprietà, non in altri luoghi che le odierne e svariate forme della «critica critica» pretendono di consegnarci (confondendoci), si trovano le possibilità ultime dell’emancipazione degli uomini di tutto il mondo. 

 

[1] L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1970. 

[2] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione [1844], in K. Marx – F. Engels, Opere complete, 50 voll., Editori Riuniti/La Città del Sole, Roma/Napoli 1972 segg. [da ora: MEOC], vol. III, pp. 190-204, qui p. 197. 

[3] R. Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, ombre corte, Verona 2012. 

[4] K. Marx, La sacra famiglia. Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci [1844], in MEOC, vol. IV, pp. 3-234. 

[5] Cfr. in proposito A. Burgio, Strutture e catastrofi. Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti, 2000. 

[6] Per una prima introduzione si veda S. Petrucciani, a cura di, Il pensiero di Karl Marx: filosofia, politica, economia, Carocci, Roma 2018. 

[7] In proposito A. Burgio, Il sogno di una cosa. Per Marx, DeriveApprodi, Roma 2018; C. Galli, Marx eretico, il Mulino, Bologna 2018; É. Balibar, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 1994. 

[8] K. Marx, Sulla questione ebraica [1844], in MEOC, vol. III, pp. 158-189. 

[9] Si vedano, di C. Schmitt, sia Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità [1922] sia Il concetto di «politico». Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, entrambi in Id., Le categorie del «politico», il Mulino, Bologna 1972, pp. 26-86 e 89-208. 

[10] K. Marx, Tesi su Feuerbach [1845] e K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti [1845- 46], in MEOC, vol. V, pp. 3-5 e 7-564. 

[11] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista [1848], in MEOC, vol. VI, pp. 483-518. 

[12] K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» di Proudhon [1847], ivi, pp. 105-225. 

[13] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in MEOC, vol. III, pp. 249-376; Id., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo: Il processo di produzione del capitale, in MEOC, vol. XXXI/1, pp. 787-839. 

[14] K. Marx, Critica del programma di Gotha [1875], Edizioni in Lingue Estere, Mosca 1947. 

[15] K. Marx, Salario, prezzo e profitto [1865], in MEOC, vol. XX, pp. 99-150. 

[16] K. Marx, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai [1864], in MEOC, vol. XX, pp. 5-13.