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Dentro l’emergenza sanitaria: le altre patologie non sono in quarantena

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Appunti di inchiesta sull’industria della sanità a partire da un’intervista di Antonio Alia a un medico rianimatore di un ospedale lombardo

Questa intervista a un medico rianimatore di un ospedale pubblico di una importante città lombarda ci suggerisce alcuni spunti di riflessione e qualche elemento di inchiesta politica. La prima evidenza è la forte differenziazione del sistema sanitario sia in termini di finanziamento che di condizioni di lavoro. Esistono cioè, anche all'interno di uno stesso distretto, strutture sanitarie e al loro interno reparti e settori clinici più finanziati di altri. L’intervista suggerisce l'idea che l'allocazione delle risorse seguirebbe una razionalità di tipo aziendale. Dipende cioè dal potenziale di valorizzazione che caratterizza la singola struttura  o settore clinico. Nonostante i processi di aziendalizzazione la sanità pubblica sembrerebbe però garantire una maggiore autonomia all'attività medica, preferibile ai compromessi etici e politici che comporterebbe il lavoro nel privato. Questo è un punto su cui vale la pena aprire una riflessione politica seppure in termini ipotetici: se l'investimento massiccio sulla sanità, che probabilmente seguirà la crisi da coronavirus, sarà accompagnato da un'ulteriore industrializzazione del settore la tutela dell'autonomia professionale potrebbe rivelarsi un potenziale elemento di conflitto. La crisi da coronavirus, come ha raccontato la stampa mainstream, ha ulteriormente stressato un sistema impreparato ad affrontare un'emergenza del genere e già fortemente deficitario per via della mancanza di macchinari, di personale e di strutture e con condizioni di lavoro particolarmente dure, sebbene differenziate lungo la gerarchia ospedaliera. A dimostrazione della situazione di stress del sistema sanitario sia sufficiente riportare il dato della sospensione dei  trattamenti ospedalieri “non covid” e non urgenti. Nonostante l'emergenza abbia reso evidente la necessità di nuova forza-lavoro, il sistema ha reagito replicando le sue logiche. Per fare solo un esempio le nuove assunzioni per fronteggiare il contagio sono state effettuate con contratti precari. Un altro aspetto da rilevare è l'esasperazione dello sfruttamento e delle condizioni di lavoro nelle sanità provocata dalla crisi. Tuttavia a giudicare da questa intervista, sembrerebbe che almeno in una fase iniziale l'emergenza e la retorica patriottica sia riuscita ad attenuare i conflitti dentro le strutture sanitarie. Permangono però questioni, anche “semplicemente” sindacali e che già oggi fanno capolino sulla stampa, che potrebbero in un futuro prossimo trasformarsi in istanze rivendicative capaci di canalizzare il diffuso malcontento per le condizioni di lavoro, soprattutto delle figure lavorative che stanno più in basso nella gerarchia ospedaliera (infermieri, medici tirocinanti). L'intervista ci offre pure una fotografia sommaria della divisione del lavoro all'interno di un reparto. All'apice della piramide troviamo i primari, figure sempre più manageriali che si occupano di reperire le risorse e di curare i rapporti “politici” oppure quelli con i “clienti” del servizio. A seguire c'è l'équipe medica che organizza di fatto il funzionamento del reparto. In fondo troviamo le infermiere a cui sono demandate le mansioni solo apparentemente più dequalificate. Un altro elemento che emerge molto chiaramente è l'importanza che il lavoro “informale” di ricerca e innovazione,  svolto al di fuori dell'orario lavorativo e con l'ausilio di macchinari telematici, ricopre nella ricerca e sviluppo di trattamenti adeguati. Anche in questo caso lo smart-working comporta un allungamento della giornata lavorativa, un'estensione del lavoro gratuito ed è in grado di ampliare lo spazio di produzione dell'innovazione. Confermata ormai anche dalla stampa mainstream, l'intervista ribadisce l'idea che l'organico medico e sanitario sia stato escluso dallo screening del tampone per evitare che le eventuali quarantene provocassero una penuria di  personale. L'ultimo spunto di riflessione degno di nota è la constatazione che nel corso della pandemia molte patologie si sarebbero drasticamente ridotte. L'ipotesi dell'intervistata è che all'origine di questo fenomeno ci sia l'interruzione di molta produzione in seguito al lockdown. Pur non trovandoci di fronte a una sospensione sistemica, possiamo dedurre però che i costi sociali di una specifica normalità capitalista sono molto alti.

Che tipo di professione medica eserciti e in quale struttura?

Sono un rianimatore e lavoro all'ospedale di *******in rianimazione non universitaria. Lo specifico perché essendoci a ******* due rianimazioni, di solito quella non universitaria ha meno mezzi e sponsor ma comunque è una rianimazione già preesistente e ben strutturata. Devo fare dei turni anche nella periferia, a ***********, che fa parte della stessa azienda ma è un ospedale periferico dove non esisteva una rianimazione fino a due settimane fa. Prima, lavoravamo nei reparti, si ventilavano i pazienti in maniera non invasiva poi invece abbiamo dovuto aprire la terapia intensiva anche lì.

Perché c’è questa differenza tra rianimazione universitaria e non? A cosa è dovuta?

Perché il reparto universitario ha più sponsor, agganci, anche politici, più specializzandi, personale che lavora per quel reparto e presenza di professori. Può dunque fare anche più pubblicazioni e di conseguenza ricevere più fondi mentre quella non universitaria fa più fatica a ottenerli.

In questi anni quali reparti hanno ricevuto più finanziamenti, quali meno e perché?

Dipende da come è un reparto, quanto è all’avanguardia, quanto pubblica (ricerche, ndr), che operazioni fa. Per esempio le chirurgie ricevono tanti soldi quando fanno certi tipi di interventi (cardiochirurgia, neurochirurgia, chirurgia vascolare) perché sono costosissimi anche i materiali da usare. Noi dell’anestesia e della rianimazione costiamo tanto già come reparto, come degenza normale quindi si fa fatica a comprare un ecografo da diecimila euro mentre una protesi vascolare in chirurgia da settantamila euro magari riescono a ottenerla.

Perché succede questo?

Non lo so, credo che sia per una questione politica oppure pressione da parte delle aziende che producono le protesi per provarle e testarle.

Come mai hai scelto di lavorare nella sanità pubblica?

Io ho scelto proprio di lavorare nella sanità pubblica. Prima di lavorare per un privato dovrei trovarmi con l’acqua alla gola. Nonostante la politica sia anche dentro l’ospedale pubblico e sia molto forte come si capisce già dalla differenza tra rianimazione universitaria e non, nell’ambiente privato questo è espresso all’ennesima potenza e quindi si è costretti a lavorare con una serie di compromessi che vanno oltre la professione. Nel pubblico questa situazione in parte esiste ma si è comunque più liberi di esprimersi come meglio si crede.

Come funziona normalmente il tuo reparto? Quali pazienti trattate? Chi vi accede? Come è cambiata la giornata lavorativa dopo l’emergenza?

La giornata tipo prima dell’emergenza vedeva il rianimatore nel suo reparto, in cui vi sono pazienti molto gravi, quasi tutti intubati. I rianimatori possono essere chiamati negli altri reparti per le situazioni al limite (arresto cardiaco, assenza di respirazione, convulsioni ecc.). Con l’emergenza è successo che i malati in rianimazione presentano tutti lo stesso problema quindi per un verso è più facile, essendo i protocolli gli stessi, ma chiaramente le persone hanno anche patologie diverse, con gravità diverse e rispondono diversamente alle terapie. Il carico di lavoro è aumentato tantissimo, se prima nella mia rianimazione avevamo 10 letti adesso ne abbiamo 24. Anche il fattore logistico ha portato delle complicazioni: per esempio abbiamo trasformato la sala riunioni. Quando bisogna aggiungere dei letti nuovi bisogna trovare degli ambienti che siano idonei a ventilare il paziente quindi devono esserci delle prese dell’ossigeno e non è semplice crearle. Ciò comporta un lavoro immane da parte dei tecnici per creare le condizioni per avere i nuovi posti. 

I malati sono tantissimi, sono aumentati in maniera spropositata rispetto a prima e le condizioni in cui lavoriamo sono più pesanti. Inoltre in tutto l’ospedale fuori dalle terapie intensive ci sono gli stessi malati un pochino meno gravi che stanno aspettando il posto in terapia intensiva; sono fuori dai reparti di rianimazione, vengono ventilati con delle maschere e vengono seguiti da medici che non sono rianimatori e che si sono trovati dall’oggi al domani a ventilare i pazienti, cosa che non avevano mai fatto prima. Noi rianimatori ci diamo compiti diversi a seconda dei giorni, facciamo i giri nei reparti per vedere come stanno i malati e scegliamo, tra quelli che hanno bisogno di terapia intensiva, quali prendere in base alla disponibilità dei posti.

Il criterio che utilizzate per selezionare quale è? C’è un protocollo?

No, non ci sono protocolli, vengono scelti i pazienti che hanno più possibilità di farcela. Intraprendere la terapia intensiva, soprattutto con questa patologia, è un percorso lungo e difficile e chi ne esce non ne esce sempre bene. Magari guarisce dal Covid, dalla polmonite, ma potrebbero verificarsi successivamente delle ripercussioni serie e gravi e non tutti possono farcela. Soprattutto sulla base delle patologie che hanno e l’età si decide chi portare in rianimazione e chi no.

Questo è un criterio che vale anche in situazioni di normalità oppure è una novità per te?

Vale sempre, in questa situazione molto di più.

Come si svolge la tua giornata di lavoro tra gli ospedali di ******* e l’ospedale di ***********?

Io faccio periodi a *********** e periodi a *******, quindi non cambio tutti i giorni. A *********** è un po’ diverso perché prima non c’era la terapia intensiva quindi quello che noi facevamo era ventilare e seguire i pazienti ventilati al di fuori della rianimazione. Quando un paziente doveva essere intubato si cercava un posto in terapia intensiva da qualche parte in Lombardia laddove non ci fossero stati posti nell'ospedale di *******. Adesso abbiamo creato questi nuovi 4 posti in terapia intensiva a *********** ma è una bella sfida. Creare dal nulla una terapia intensiva, senza il personale, senza rianimatori, senza infermieri che sappiano gestire i malati in rianimazione è molto difficile. Anche tutto il materiale che occorre non c’era e tuttora mancano ancora tante cose. Oltre a questo non c’è un responsabile perché il primario di anestesia di *********** ha sempre e solo fatto anestesia quindi non ha idea delle dinamiche e della complessità della terapia intensiva, anche per quanto riguarda il contatto coi parenti. Adesso lì siamo due rianimatori giovani e poi tutti anestesisti che non hanno questa esperienza, per cui diciamo che non si lavora al meglio ma soprattutto per il rapporto con i parenti e la valutazione dei malati.

Quindi c’è un problema non solo di macchinari e di logistica ma anche di formazione del personale?

Sì, assolutamente sì.

Questo problema lo state affrontando?

Sì, però è difficile, impariamo tra di noi. A ***********si sente l’assenza di un responsabile che tenga le fila di tutto. Noi, facendo i turni, non riusciamo a seguire i pazienti tutti i giorni in tutti i passaggi e quindi neanche a parlare coi parenti con la stessa linea di pensiero; un giorno ci parlo io, il giorno dopo un altro, chiaramente avendo formazioni diverse quello che viene detto è diverso e quindi molti parenti si sentono persi.

Il lavoro finisce nel reparto oppure svolgi una parte di lavoro anche a casa?

Si lavora anche da casa. Si tratta soprattutto di videoconferenze di approfondimento su questa malattia, io le seguo in diretta quando posso oppure dopo. Fondamentalmente si parla, ci si confronta e ognuno porta la propria esperienza dai vari centri della Lombardia. Per esempio ieri c’è stato un incontro in lingua inglese di 8 ore con vari professionisti organizzato dall’Editeam, che è una società scientifica. È sicuramente un modo per crescere e per imparare. Poi c’è tutta la letteratura che ci passiamo tra colleghi e ne discutiamo e poi di fatto siamo sempre attaccati al cellulare.

Qual è l’obiettivo di queste ricerche e scambi di informazioni?

Salvare più persone possibile, non tanto trovare una cura. Come trattare i malati, trattarli al meglio, chi trattare e chi no, chi può farcela e chi no, quali sono i pazienti che vanno meglio e quali peggio, cercare di capire se i farmaci che noi utilizziamo hanno effetto oppure no, quando intubarli e quando è meglio fermarci, i tempi di risposta degli organismi in questa malattia, perché non li conoscevamo, e capire come si comporta questa patologia nelle diverse persone.

Da quando è scoppiata l’emergenza sono stati adottati dei protocolli? Che tipo di indicazioni hai ricevuto dalla direzione, se ne hai ricevute?

No, nessuno. Non esistono protocolli né indicazioni. Noi abbiamo continuato a fare il nostro lavoro, ci siamo riorganizzati per conto nostro. La decisione di andare da un ospedale all’altro in periferia l’abbiamo presa tra colleghi. Ci autodeterminiamo di fatto, abbiamo il primario ma lui si occupa di fare le riunioni, della riorganizzazione del reparto, di prendere contatti per ricevere più ventilatori mentre l’organizzazione clinica avviene tra di noi.

Rispetto al contenimento del contagio, è stato fatto qualcosa? L’equipaggiamento lo ritieni adeguato?

All’interno dell’ospedale noi siamo protetti, nel senso che abbiamo i camici e le maschere adeguate, nelle terapie intensive da noi è gestito bene. Ovvio che il pericolo del contagio c’è perché quando ti spogli puoi contaminarti. Abbiamo cercato di creare percorsi per abbassare il rischio al minimo. Mentre invece nei reparti fuori, dove ci sono molti più pazienti che sono ventilati senza il tubo e solo con le maschere, il problema del contagio è più alto. Le restrizioni lì sono meno rigorose anche se potenzialmente il rischio è maggiore perché gira molta più gente. In rianimazione stiamo tante ore vestiti [con gli indumenti protettivi,ndr] ed è faticoso però più sicuro paradossalmente rispetto agli altri reparti.

A fronte dell’emergenza e dell’aumento del carico di lavoro l’organico è cambiato?

Sì, all’inizio no ma da circa una settimana sono stati assunti, con un contratto ridicolo non so se a chiamata o co.co.co ma sicuramente non con un contratto a tempo determinato vero e proprio, gli specializzandi del quarto o quinto anno. Chiaramente non hanno le competenze per trattare questi pazienti quindi devono essere comunque affiancati.  Si tratta di un tamponamento in una situazione drastica.

Rispetto agli infermieri?

Anche quello è un grosso problema perché sono stati chiamati infermieri da ogni dove, però purtroppo questo è ancor più grave perché, ad esempio, mi son trovata a lavorare con infermieri in rianimazione a *********** che agiscono in modo non opportuno e questo è pericoloso soprattutto in terapia intensiva dove bisogna sempre stare all’occhio e controllare che tutto venga fatto bene. Quindi non riusciamo a lavorare in tranquillità.

Come è cambiata la organizzazione dell’ospedale con questa emergenza?

È cambiata completamente, molti reparti come chirurgia, ortopedia, non lavorano più perché comunque tutti gli interventi sono stati procrastinati e vengono riempiti di persone che hanno questo problema e vengono ventilati. Quello che viene garantito dall’ospedale sono le emergenze. Un ospedale come quello di *********** può chiudere e dedicarlo tutto solo ai casi di Covid, per cui tutte le emergenze, salvo quelle di morte immediata per cui serve la sala operatoria, vengono mandate a *******. A ******* di conseguenza tutta quest’altra parte continua a funzionare.

Si sono saturati o mantengono un livello normale?

Sembra siano diminuiti i malati, tolti ovviamente quelli con Covid. 

Secondo te perché?

Non lo so questo, non riusciamo a spiegarlo. Forse perché si lavora di meno, c’è meno inquinamento, le persone stanno più a casa e hanno un ritmo di vita diverso. È l’unica spiegazione che posso dare perché mentre è logico che stando a casa e fermandosi il lavoro ci siano meno incidenti sul lavoro o in generale politraumi, sono diminuiti anche gli infarti le emorragie cerebrali ecc.

È possibile che la gente non si faccia ricoverare per paura di contrarre il contagio?

Non credo perché per esempio se si ha un dolore toracico, un principio di infarto, se non si va in ospedale si muore. Sarebbero aumentate le morti a casa e avremmo saputo che persone sono morte perché non trattate.

Secondo te dopo questa emergenza come cambierà l’organizzazione dell’ospedale? Se ne parla?

No, perché siamo troppo presi da altro.

Neanche ai piani alti?

Non credo. Secondo me non cambierà molto. Ritornerà come prima, passata questa fase di emergenza, piano piano, si rientrerà alle modalità precedenti perché non è che questo problema si è instaurato per colpa della sanità, è una emergenza a cui l’ospedale ha risposto bene. Per quanto i media abbiano da ridire, stiamo lavorando bene e in una condizione veramente di guerra, se si pensa a tutti i decessi avvenuti in pronto soccorso. Ormai non stiamo più garantendo le cure migliori a nessuno e questo è triste però stiamo cercando di fare il possibile per il maggior numero di persone possibile. Nel momento in cui questa emergenza svanirà si ritornerà agli standard di prima e alle condizioni lavorative di prima.

Le ferie sono state sospese?

Ovviamente questo periodo siamo tutti richiamati al lavoro.

C’è qualcuno che si lamenta?

Qualcuno sì, ma sono casi eccezionali. In generale ho visto tutti molto miti, con voglia di risolvere questa situazione, di lavorare, di impegnarsi; poi, chi più chi meno, però questa cosa mi ha spinto positivamente. Questa unione nel voler venirne fuori, di voler migliorare le cose e dare una mano è molto forte da parte di tutti. Gli infermieri sono molto stanchi chiaramente.

C’è una differenza di distribuzione del carico di lavoro tra le diverse figure del reparto dell’ospedale?

Ognuno ha il suo. Gli infermieri dicono che il carico di lavoro per loro è più alto perché sono loro che sono sul malato fisicamente e noi magari meno, però il carico decisionale nostro su una malattia nuova loro non lo percepiscono. Per l’infermiere il carico di lavoro sarà sempre percepito come maggiore di quello del rianimatore. Non esistono indennità, ferie, bonus o cose di questo tipo e questo è brutto per noi sanitari in generale e particolarmente per gli infermieri che hanno uno stipendio più basso.

La tua retribuzione non è cambiata?

No, assolutamente e lavoriamo in condizioni pessime, ormai non possiamo più neanche mangiare, non abbiamo una cucina pulita, i vassoi non ci sono più, non ci sono più spazi liberi per riposare o respirare aria pulita a causa dell’affollamento e della conversione di questi spazi in posti letto.

Quali sono le carenze maggiori del tuo reparto e della sanità pubblica?

Forse, rispetto alla sanità privata, avere meno soldi e meno possibilità immediata di avere qualcosa in più, come strumenti o presidi. La questione degli spazi è sicuramente diversa. Se un ospedale privato ha dieci posti e li ha saturati non accoglie più invece l’ospedale pubblico deve cercare di far fronte all’emergenza in maniera tassativa.

Tu ti senti esposta al rischio? Ti sembra giusto? Rispetto al rischio cosa vorresti che si facesse?

Allora, io mi sento esposta però, essendo donna e giovane, il rischio per me è molto più basso. Di conseguenza temo meno per la mia salute rispetto ad altri colleghi. Sono in isolamento a casa e cerco di non far ammalare nessun altro. Hanno dato disponibilità di alloggi gratuiti e vicino all’ospedale, per i dipendenti ospedalieri che vogliono isolarsi ma non hanno la possibilità. Sicuramente vorrei un riconoscimento economico per questa situazione.

Tu il tampone l’hai potuto fare? Come sono stati gestiti i tamponi?

I tamponi vengono fatti solo ai sintomatici e se i sintomi si protraggono per giorni o se si ha avuto un contatto non protetto con qualcuno positivo. A quel punto viene fatto il tampone e se risulta positivo si deve restare a casa. Il problema è che non li fanno più con tanta facilità come all’inizio perché se risultassimo positivi non potremmo lavorare e non ci sarebbe più personale sanitario a disposizione.

A Crotone, 300 tra medici e infermieri dell’ASP si sono messi in malattia in massa, le motivazioni si conoscono, immagino evitare di entrare in contatto con il virus. Che ne pensi?

È una vigliaccata, ma me lo aspettavo. Anche qui c’è stato qualche episodio ma è veramente qualche eccezione su centinaia di dipendenti. Di questo sono molto contenta perché comunque i lombardi si sono dimostrati tutti disponibili ad aiutare, hanno continuato a lavorare con le adeguate tutele. Credo che questo ci faccia onore.

Pensi che qualcuno dopo l’emergenza avanzerà delle richieste di indennità, di ferie o di più personale?

Noi l’abbiamo sempre detto, spero che a livello amministrativo nella nostra azienda si prenda atto della necessità di assumere più personale, siamo sempre contati. A volte mi chiedo, se qualcuno va in maternità? I turni verrebbero coperti dagli altri che dovrebbero fare più ore di conseguenza.