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Il razzismo dell'accoglienza e lo stato di emergenza

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Intervista di Antonio Alia a una operatrice del circuito Sprar

Spesso il circuito Sprar  viene identificato come la faccia positiva del sistema d'accoglienza. Questa intervista ci consente però di vedere come anche quella che a sinistra viene generalmente indicata come la buona accoglienza riproduca l'inferiorizzazione e la razzializzazione dei e delle migranti. La crisi sanitaria ha esasperato questo aspetto del sistema e reso palese la sua organicità al più ampio governo delle migrazioni. Come si evince dall'intervista, il mandato che le Istituzioni committenti hanno indicato agli operatori e alle operatrici del settore in seguito all'esplosione della crisi epidemica è quello di sorvegliare la popolazione migrante che hanno in carico. Pratica evidentemente discriminatoria che lascia intravedere il radicato razzismo istituzionale degli apparati di Stato e che ci ricorda come l'applicazione dello Stato di emergenza sia differenziato lungo linee di genere, classe e razza. Va sottolineato che inferiorizzazione e razzializzazione non sono fenomeni esclusivi del settore dell'accoglienza ma riguardano complessivamente quella che abbiamo chiamato industria del sociale. L'altro elemento interessante di questa intervista è la definizione di servizio essenziale. Come spiega bene l'operatrice solo pochissimi aspetti del suo lavoro possono essere considerati davvero essenziali e quindi non possono essere interrotti dal lockdown, molti altri invece sono superflui. Si può dunque pensare che i servizi di accoglienza siano stati inseriti tra quelli essenziali esclusivamente per consentire all'Istituzione di sorvegliare la popolazione migrante. Di nuovo l'inferiorizzazione dell' “utente” migrante è contemporaneamente causa e conseguenza del suo controllo. Un altro aspetto rilevante dell'intervista che presentiamo sono le forme latenti di rifiuto che si sono attivate in questa contingenza e che riguardano proprio la funzione di controllo che l'Istituzione vorrebbe attribuire agli operatori e alle operatrici e che devono scontrarsi con un sistema di deresponsabilizzazione politica che complica l'individuazione della controparte. Rifiuti che da un lato esprimono una sorta di negazione rispetto ai tratti più problematici del proprio ruolo e dall'altro invece una maggiore identificazione con gli aspetti ritenuti positivi.

Che tipo di professione eserciti?

Sul mio contratto direi che alla voce mansione c'è scritto operatore dell'accoglienza. Questa dicitura però è molto ambigua. Si parla da molto tempo di che cosa sia questa professione. Ad una domanda così risponderei in questo modo. Le persone con cui lavoro sono incasellate in target ben precisi, ovvero si tratta di richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale. Io mi sento una specie di mediatrice tra le prospettive delle persone e il contesto sociale d'accoglienza. Più nel dettaglio lavoro per il progetto Siproimi del comune di ******* e sono contrattualizzata da un'associazione che è una dei vari enti gestori a cui è stato appaltato il servizio.

Mi puoi spiegare meglio quali sono secondo te gli elementi problematici della mansione che ti viene richiesto di svolgere?

Faccio questo lavoro da 4 anni. Ho notato che il nostro committente – qui dobbiamo fare attenzione: io lavoro per un'associazione che ha le sue idee e il suo modo di organizzarsi e poi c'è un committente che nel nostro caso è l'Asp del comune di ******* -  ci richiede un ruolo che oscilla in base al momento storico che stiamo vivendo. Ci spostiamo dall'intervento socio-educativo ad una funzione di sorveglianza. In questa oscillazione ovviamente ci sono degli scontri tra l'etica del lavoratore e le richieste di sorveglianza fatte dall'istituzione.

Perché hai scelto questo lavoro?

Per quanto mi riguarda non è stata una scelta di vocazione. Come tutti ho dovuto fare i conti con la realtà e mi sono ritrovata a fare questo lavoro. All'inizio doveva essere un rapporto di lavoro occasionale, e poi invece il rapporto di lavoro si è trasformato finché non sono stata contrattualizzata a tempo indeterminato. Anche se non l'ho veramente scelto, ci sono rimasta perché ci sono degli aspetti di questo lavoro che mi hanno molto soddisfatta e che fondamentalmente si rifanno al rapporto con le persone. Nel mio lavoro sostanzialmente instauro dei rapporti con delle persone.

Come funziona normalmente la tua giornata di lavoro?

Normalmente non ho una giornata di lavoro uguale all'altra, a parte alcuni appuntamenti fissi che sono per esempio le riunioni di équipe durante la settimana. Poi nella quotidianità le cose da fare sono molto varie, perché lavorando con le persone le esigenze sono molto diverse. In linea generale il nostro mandato è quello di prendere in carico le persone e supportarle in un percorso volto all'autonomia su vari aspetti della vita sociale, lavorativa, affettiva, di affermazione di sé. E anche accompagnarli in un percorso legale tortuoso e snervante. Una parte del mio lavoro quindi si svolge nel mio ufficio, un'altra invece si svolge all'esterno tra uffici dell'amministrazione pubblica, ospedali, servizi vari, e nei piccoli appartamenti che ospitano le persone.

Da chi è composto l'organico della tua équipe? Con chi collabori normalmente?

L'organico è composto da 5 operatori, una coordinatrice ed una responsabile legale. Forse nella mia condizione lavorativa devo specificare che lavorando per una organizzazione piccola normalmente ho contatti con tutti i livelli di questa gerarchia. Per esempio se lavorassi in una grande cooperativa probabilmente con la responsabile legale non ci avrei a che fare così come con la coordinatrice. Un punto importante dell'organizzazione per cui lavoro è che nonostante ci sia un'impostazione verticistica e gerarchica delle mansioni, a livello di équipe si cerca di avere un'organizzazione che tende all'orizzontalità, e questo è un casino perché stare dentro un'organizzazione gerarchica con metodi orizzontali è interessante ma complicato.  Poi c'è tutta una parte di lavoro esterna e quindi in base ai progetti individuali collaboro con il terzo settore e altre istituzioni. 

Secondo te quali sono le maggiori carenze nel tuo lavoro?

Alla base c'è un grande equivoco e una grande ingiustizia. Perché le persone che sono accolte nel progetto Siproimi non dovrebbero essere nella posizione in cui sono. Sono infatti nella condizione di chiedere una protezione perché questo è l'unico modo in Italia per essere legalmente presenti sul territorio. Fatta questa premessa, i problemi del progetto per cui lavoro sono numerosi e vengono a cascata. Mancano molte cose. I progetti di accoglienza sono principalmente pensati dall'alto come luoghi in cui far stare tutta una serie di persone che non vogliamo da un'altra parte. E da qui ne deriva che è un progetto pensato da sempre in emergenza con pochi soldi con poche risorse. L'obiettivo pensato dal Ministero dell'Interno è quello di avere queste persone sistemate e collocate, in modo che non possano in qualche modo disturbare e quindi c'è uno scollamento tra il programma e i progetti delle persone. E noi dobbiamo ricorrere alla nostra immaginazione per risolvere questo problema. Per esempio da una parte ti chiedono di formulare un progetto individuale per la persona in sinergia con i servizi del territorio, però poi spesso il servizio del territorio non è in grado di collaborare. Spesso il mio ruolo è stato quello di dare fastidio alla questura, all'anagrafe, al cup perché quell'obiettivo, che può essere molto semplice come l'ottenimento di un documento, per loro diventa molto complicato da raggiungere.
Quindi le mancanze sono più esterne che interne?

Le mancanze esterne sono quelle più evidenti. Un'altra cosa un po' particolare di questo lavoro è che io mi sento molto presa dalla situazione contingente ed è difficile prendersi dei momenti in cui metti in prospettiva, contestualizzi il tuo operato. Essendo presa continuamente dalla relazione, si lavora in modalità emergenziale sempre, sei istintivamente portata al fare e ci sono pochi momenti di analisi critica e autocritica, individuale e collettiva: questa direi che è la mancanza più forte dentro la mia organizzazione. Manca cioè un momento di analisi sull'operato che poi può servire per elaborare delle buone pratiche. Questo per quanto riguarda la mia organizzazione. Rispetto al committente il problema principale è la mancanza di flessibilità e apertura: il gioco deve andare avanti secondo i tempi e i costi del progetto ma questo ti permette solo di avere un profilo molto essenziale. Quando a volte invece si cerca dare delle indicazioni all'Istituzione su come potrebbe essere portato avanti il progetto, questa ti risponde appellandosi a qualche regolamento che non prevede mai la messa in discussione delle strategie e delle politiche che quell'azione comporta. Quindi lavorando per un'organizzazione che è coordinata dal committente tu al tuo interno puoi fare tutte le critiche che vuoi e portare avanti delle istanze ma queste non vengono accettate quasi mai. Questo problema è accentuato da un sistema di delega della decisione al livello superiore per cui l'organizzazione delega all'Asp, che a sua volta delega alla squadra welfare del comune di *******, che a sua volta delega alle decisioni politiche del comune di *******, che a sua volta delega alla conferenza dei comuni italiani, che a sua volta delega al servizio centrale del Siproimi, che a sua volta delega al Ministero dell'Interno.
Cos'è cambiato dopo l'inizio di questa emergenza?
La cosa più grossa e lampante che è cambiata è che nella mia organizzazione ci hanno proposto di fare lo smartworking, di lavorare da casa. Nella mia organizzazione è stato valutato il fatto che non c'erano le condizioni per tenere i lavoratori in sicurezza in ufficio, perché abbiamo un ufficio molto piccolo e quindi non si riusciva ad impedire gli assembramenti; così ci hanno proposto di fare il lavoro da casa in remoto. Questa è stata la decisione dell'organizzazione per cui lavoro. I primi giorni dopo il primo decreto di Conte sono stati di smarrimento per tutti, anche la proposta di smartworking è arrivata una settimana dopo. Da quel momento all'interno della mia organizzazione abbiamo intrapreso un percorso di auto-organizzazione per affrontare in questo nuovo contesto tutto quello che facevamo prima perché Asp, il nostro committente, non aveva dato indicazioni. O meglio aveva detto: tutto deve continuare come prima, gli operatori dell'accoglienza devono continuare a fare quello che facevano prima con l'uso di dispositivi per la protezione. Io e la mia équipe non eravamo per niente d'accordo con questo atteggiamento e ci sono stati giorni in cui abbiamo tentato di capire come riuscire a portare avanti il nostro lavoro cercando di salvaguardare la salute di tutti, quella degli operatori e quella delle persone con cui lavoriamo. Dopo pochi giorni invece l'Asp ha mandato altre indicazioni che non prevedevano niente di sconvolgente. Tutte quelle misure cautelative che al nostro interno avevamo individuato come possibili per tutelare la salute di tutti, non erano state accolte dal committente. Il quale ci chiedeva comunque di procedere con i trasferimenti delle persone tra gli appartamenti, una cosa allucinante se pensi che era inizato un momento in cui bisognava a tutti i costi evitare la promiscuità. Ed ha chiesto agli operatori di intensificare la loro presenza nelle strutture. Ora qui c'è da fare una piccola premessa. Le strutture in cui lavoro io sono strutture ad alta autonomia, nel senso che non ci sono gli operatori presenti tutti i giorni e 24 ore su 24. Con i beneficiari facciamo soprattutto attività che si svolgono fuori dagli appartamenti. Asp invece ci ha chiesto di intensificare la nostra presenza negli appartamenti con lo scopo di sorvegliare le persone, mandandoci anche delle comunicazioni abbastanza infelici in cui ci esortava per esempio a controllare che le persone fossero in casa. L'operatore sarebbe dovuto andare negli appartamenti e verificare la presenza degli ospiti. In caso di assenza avrebbe dovuto chiamare la persona per farsi dire dove fosse, esortarla a rientrare in casa e nel caso in cui si fosse rifiutata di rientrare avrebbe dovuto chiamare le forze dell'ordine. Asp ci ha anche detto che se le regole dei decreti non fossero state rispettate dai beneficiari occorreva proseguire con delle sanzioni pecuniarie, per esempio riducendo il pocket money. Qui torniamo all'ambiguità di questa professione. In un momento in cui si è scatenata l'emergenza sanitaria e ci sono dei decreti del governo che riguardano tutte le persone quindi anche i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale, l'Istituzione chiede di esercitare un doppio controllo sui beneficiari. Che cosa succede? Che queste persone si trovano sotto il controllo del decreto e sotto quello dell'operatore dell'accoglienza che avrebbe pure dovuto denunciare alla polizia un'eventuale trasgressione. È una cosa folle e profondamente discriminatoria. Questa è la cosa più eclatante che l'Istituzione ha chiesto nei confronti dei beneficiari. Nei confronti dei lavoratori invece nonostante l'Asp abbia detto che gli scambi, gli incontri dovevano continuare, soprattutto alla scopo di sorvegliare,  allo stesso tempo solo pochi giorni fa ci ha fornito una mascherina chirurgica monouso a testa ed ha delegato all'ente gestore il reperimento dei dispositivi di protezione per lavoratori e beneficiari. Non mettendo assolutamente a disposizione idee o energie per trovare una soluzione per quelle persone che continuano a vivere in situazioni non adeguate rispetto alle nuove esigenze date dal rischio di contagio.

Ci sono stati dei conflitti o delle contrattazioni con il committente?

L'organizzazione e altri enti gestori hanno richiesto ad Asp delle linee guida da seguire nell'emergenza. In una situazione come questa è difficile per le singole organizzazioni cercare una strategia comune. Qui entrano in gioco altri fattori: gli operatori hanno forme contrattuali diverse tra  loro, una piccola cooperativa ha esigenze diverse da una più grande. Per esempio rispetto allo smartworking la mia organizzazione ha spinto molto per adottarlo, ma Asp all'inizio non era d'accordo. La responsabile della mia organizzazione ad un certo punto però ha detto “gli operatori sono sotto la mia responsabilità quindi decido come voglio”. Quindi la mia organizzazione ha deciso di adottare lo smartworking andando contro le indicazioni di Asp.  Posso però dire che sono una delle poche persone che ha avuto la possibilità di accedere al lavoro da remoto. Il problema è che l'Istituzione arriva sempre in ritardo. Noi abbiamo sempre lavorato, quando l'Asp stava capendo come fare per le linee guida noi continuavamo a lavorare a stretto contatto con i beneficiari. Quando poi ho avuto modo di conoscere le linee guida dell'Asp, la mia impressione è stata che l'obiettivo principale fosse soprattutto la salvaguardia del decoro. Non sia mai che in città si vedano dei ragazzi stranieri che fanno capannello, che stanno in giro, da qui la necessità per il committente di mettere i lavoratori dell'accoglienza a sorveglianza di queste persone straniere. Generalmente un ente gestore quando arrivano le linee guida ti dice che non si può andare contro quello che ti indica la committenza. Se tu, in quanto lavoratore, non ti senti tutelato nello svolgere la tua attività lavorativa devi arrangiarti o scioperare perché l'organizzazione ti dice di rispettare le indicazioni dell'istituzione committente. È importante sottolineare che il nostro lavoro è molto legato al funzionamento del contesto sociale. In una situazione di emergenza come questa il funzionamento del contesto sociale è venuto meno. Tutto si è giustamente interrotto quindi la committenza si è chiesta come impiegare tutti questi lavoratori che a causa del blocco non possono più svolgere la loro normale attività. La cosa allucinante è che loro abbiano pensato solo alla sorveglianza. 

Ti è capitato di dovere denunciare alla polizia l'assenza da casa di uno degli ospiti e come fa Asp a controllare?
Non mi è mai capitato, anche perché siamo d'accordo che non faremo mai questa cosa, anche andando contro le indicazioni del committente. Ognuno di noi ha il suo limite. Personalmente non l'ho fatto e non lo farò anche se dovrò risponderne a qualcuno. Non c'è un protocollo di controllo sul nostro lavoro . Per noi è importante non interrompere le relazioni con queste persone che quindi stanno andando avanti prevalentemente con l'uso delle chat come facciamo tutti in questo momento. Ogni tanto andiamo in struttura: è un modo per dire che non siamo scomparsi, cercando di adottare degli atteggiamenti che sono sicuri per tutti.
Quindi anche senza la disposizione di Asp avreste fatto delle visite?
Noi prima di avere le indicazioni di Asp c'eravamo detti che una volta a settimana saremmo andati a trovare le persone, anche per consegnare igienizzanti e altro materiale. Non c'è bisogno di andare tutti i giorni, basta una volta a settimana per fare un saluto in tutta sicurezza. 

C'è stato un grande dibattito sulla distinzione tra lavori essenziali e inessenziali. Secondo te il tuo rientrerebbe in un servizio essenziale?
No. Direi che non mi sento di lavorare in un servizio essenziale, certo questo vale se il principio di fondo è quello di considerare i beneficiari del servizio delle persone adulte e responsabili, capaci di intendere e di volere, che quindi come tutte le altre persone stanno seguendo le indicazioni emergenziali o il comune buon senso. Una cosa che mi fa pensare è che se in questo contesto si attribuisce un ruolo di sorveglianza agli operatori dell'accoglienza è perché non si ritiene queste persone in grado di agire secondo quello che serve in questo momento. D'altro canto con le persone più vulnerabili inserite nel progetto, posso ritenere che ci siano degli aspetti essenziali del servizio. Su alcune questioni non puoi abbandonare completamente le persone. Per esempio ci sono persone per cui, per problemi di lingua o altro, potrebbe essere molto difficile compilare l'autocertificazione o anche rispondere alle forze dell'ordine. In questo caso una delle mie mansioni è di essere di supporto. Un altro esempio è il supporto necessario ad una madre con bambini piccoli che si sono ritrovati a fare didattica a distanza, nell'uso degli strumenti telematici. Però domandiamoci: come posso essere di supporto? Dobbiamo per forza stare insieme o posso supportarla al telefono o in videoconferenza?

Ho l'impressione che il servizio sia stato definito essenziale proprio per consentire all'Istituzione di implementare quella funzione di sorveglianza di cui altrimenti non avrebbe potuto godere e che certi aspetti del servizio di accoglienza, come l'inferiorizzazione del migrante o il suo controllo, in questa situazione si esasperano.

Esatto. Questo è il generale leit motiv. In questo specifico momento di emergenza sanitaria si pensa di più alla sorveglianza invece che al reperimento di dispositivi di sicurezza e alle persone che stanno in convivenze forzate in luoghi non adeguati. 

Passiamo ora allo smartworking. Mi interessa capire quale parte di lavoro fai in remoto e che differenza c'è rispetto al lavoro in ufficio? Che macchinari usi? Che cosa lascerà secondo te questa crisi nel tuo lavoro e nella tua organizzazione?

La parte di lavoro che adesso faccio in smartworking è quella di backoffice, di  burocrazia, di redazione di relazioni, documenti, report, calendari, mail e poi tutta la parte degli incontri e delle riunioni. Da questo punto di vista non è cambiato niente, prima facevo questo lavoro in ufficio adesso lo faccio nel salotto di casa. Per quanto riguarda gli strumenti uso un computer mio ed un cellulare di lavoro e poi abbiamo creato un drive per la visione e la condivisione dei documenti. C'è stata una spinta a digitalizzare una parte del nostro archivio che è composto da documentazione di vario tipo. Secondo me questa esperienza potrebbe far capire molto meglio che questo tipo di lavoro funziona per obiettivi e che quindi è poco legato ad una routine tradizionale. Tutta questa parte in smartworking che facevo in ufficio adesso la faccio benissimo da casa. È un po' difficile dire cosa resterà, magari riuscirò a dirtelo tra qualche giorno perché sono solo 9 giorni che abbiamo iniziato. 

Lo trovi più piacevole o meno?

Per alcune cose lo trovo più gradevole, perché mi sembra che ci sia una migliore gestione del  tempo personale. La cosa che mi è piaciuta di più è stata lavorare in un ambiente tranquillo come la casa perché normalmente lavoro in un ufficio affollato, dove tutti parlano al telefono contemporaneamente, e spesso è difficile concentrarsi. In questa situazione ho capito che mi concentro e sono più rilassata. 

Ti sembra di lavorare di più o di meno?
In questi primi giorni mi sembra che la giornata di lavoro si sia allungata. Probabilmente perché facendo un lavoro di gruppo (in pochi momenti io lavoro da sola) tutti i prodotti del mio lavoro sono collettivi; relazionarsi e prendere delle decisioni condivise in questa situazione ha un po' allungato la giornata lavorativa, probabilmente anche perché stai lavorando e allo stesso tempo ti stai riorganizzando. Ci siamo ritrovati a fare le cose che facciamo di solito in un modo completamente diverso.  Quindi si è sovrapposto il lavoro di sempre al lavoro di riorganizzazione e questo ha dilatato all'infinito la giornata lavorativa. Inoltre lavorare da casa mi ha dato l'impressione di essere raggiungibile in qualsiasi momento: ricevo chiamate di lavoro anche alle 8 di sera. Senza poter usare tra l'altro una giustificazione plausibile per non rispondere, visto che la società si è completamente bloccata, non hai niente di meglio da fare che lavorare.