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L’emergenza continua e senza picco della sanità italiana

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Continua la nostra inchiesta nell'industria della sanità italiana con due interviste di Veronica Marchio a medici della regione Calabria e Toscana

Queste due interviste realizzate nelle scorse settimane, la prima ad un medico fisiatra della regione Calabria operante nel privato, la seconda ad un medico otorino della regione Toscana che lavora invece nel pubblico, forniscono alcuni spunti per leggere - dal punto di vista di chi si trova dentro al sistema sanitario - la crisi che il coronavirus sta acuendo. Emerge un quadro ricco di ambivalenze, soprattutto in relazione al rapporto tra pubblico e privato - calato in un generale processo di aziendalizzazione della sanità pubblica-, ma anche rispetto alla gestione politica delle risorse. Questa crisi non è una novità: al sud vediamo emergere una profonda riluttanza verso un governo politico della sanità che, negli ultimi anni, si è incentrato su tagli piuttosto che su investimenti, favorendo la concentrazione delle innovazioni tecnologiche nelle aziende private. Mentre nel centro Italia, dal punto di vista di un medico appena entrato nell’industria sanitaria, emerge la percezione di dequalificazione di questa figura professionale, accompagnata dalla mancanza di fiducia verso le istituzioni politico-governative e dalla denuncia di una gestione dell'emergenza virus non adeguata, soprattutto per quanto riguarda l'uso dei tamponi. Le due interviste arricchiscono dunque il quadro d’inchiesta, aprendo tuttavia una serie di nodi contraddittori legati in particolare alle gerarchie interne ed ai conflitti che vengono riprodotti in questa industria.

Che tipo di professione medica esercita, dove e in che tipo di struttura.
Sono un medico chirurgo specialista in fisiatria nella regione Calabria. Lavoro in una struttura di riabilitazione territoriale extra-ospedaliera (privata con convenzione a ciclo continuativo. Io nello specifico mi occupo del ricovero.
Come mai ha scelto di lavorare nella sanità privata?

Quando mi sono specializzata, negli anni ‘90 e ho iniziato a lavorare, non c’era possibilità di trovare occupazione nel pubblico, non c’erano concorsi pubblici e comunque era difficile entrare. Ho lavorato nel pubblico solo come guardia medica. Questo non solo io ma, soprattutto nella mia branca, c’erano poche strutture pubbliche in questo campo. Negli anni ‘90 lavoravano in questo ambito soprattutto i privati, almeno al sud. 

Sta lavorando in questi tempi da coronavirus? Cosa è cambiato nella tua clinica dopo l’arrivo di questa emergenza sanitaria? 

Si io sto lavorando, stiamo continuando a ricoverare in particolare i pazienti post-acuti che vengono dall’ospedale (ad esempio quelli con fratture, danni celebrali, ictus), e che hanno bisogno di fare il trattamento riabilitativo.
Per quanto riguarda ciò che è cambiato, innanzitutto da un punto di visto dell’organico abbiamo dovuto ridurre il numero delle prestazioni: noi lavoriamo non solo con i pazienti che hanno necessità di ricovero, ma anche con pazienti che vengono a fare terapia e poi vanno a casa, ad esempio i cosiddetti “diurni” che stanno in struttura per mezza giornata e poi tornano a casa. Questi ultimi abbiamo dovuto interromperli perché non è prudente con il problema del virus, potrebbero infatti essere mezzo di trasporto del virus infettando i pazienti ricoverati. La struttura quindi ci sta perdendo economicamente e ha ridotto il numero del personale, visto che c’è meno lavoro. In questo momento stiamo lavorando solo con i pazienti post-acuti che vengono dall’ospedale e hanno necessità e urgenza di ricovero.

In secondo luogo le precauzioni e tutele: la struttura sta lavorando con le dovute precauzioni anche se non sono all’altezza perché comunque c’è sempre un minimo di pericolo, nonostante mascherine e guanti. C’è da dire che nessuno ci ha fornito queste precauzioni, all’inizio addirittura autonomamente ognuno di noi le ha comprate. La struttura ha dato i guanti, ma di mascherine c’è carenza, solo in questi giorni ci stanno consegnando delle mascherine. I pazienti che arrivano dall’ospedale sono più riguardati, ogni paziente sta in una stanza da solo e fanno una specie di quarantena nel senso che per almeno 14 giorni stanno soli nella stanza. 

Il clima nella clinica è di preoccupazione: soprattutto per i pazienti che arrivano, seguiamo le linee guida – sentire temperatura e ascoltare le spalle –, ma non possiamo fare più di questo perché i tamponi non possiamo farli. Abbiamo chiesto tramite lettera alla nostra associazione e all’Asp di della città, chiedendo se è possibile fare dei tamponi ai pazienti, prima che entrino nella struttura. Ancora non ci hanno risposto nulla. 

Che tipo di clientela ha la sua clinica?

Si tratta di pazienti che hanno subìto danni fisici, traumi, ictus. Non sono solo anziani – quelli molto anziani vanno in strutture specifiche –, noi prendiamo pazienti tra i 60 e 70 anni massimo 80 anni. Sicuramente pazienti a rischio coronavirus.
Cosa pensa del rapporto tra pubblico e privato, e come pensa muterà in questa emergenza?

In ogni caso in questo momento ci deve essere una massima collaborazione tra pubblico e privato per il bene della comunità. Noi siamo privati, ma siamo parzialmente pubblici, perché siamo convenzionati dal sistema sanitario. In questo momento di emergenza ci dovrebbe essere massima collaborazione. 

Il privato dovrebbe farsi carico di questa emergenza, e siamo obbligati, abbiamo ricevuto comunicazioni che dobbiamo essere a disposizione e non possiamo chiudere. Noi ad esempio abbiamo limiti strutturali, non possiamo ricoverare pazienti con problemi respiratori perché non abbiamo gli apparecchi che servirebbero (come l’ossigeno), però per quanto riguarda altre strutture di ricovero è stato già detto che, se necessario, devono mettersi a disposizione. Qui in Calabria pare ci siano 300 posti nelle strutture private.
Quali pensa siano invece le maggiori carenza della sanità pubblica, in particolare al sud dove lavora?

Intanto manca l’organico perché non si fanno concorsi pubblici da anni e non si sostituiscono quelli che vanno in pensione. E poi anche l’innovazione, siccome certi apparecchi costano troppo, le Asl non li comprano, nonostante sarebbero importanti a potenziare la fase diagnostica. È il privato che li acquista spesso direttamente, e quindi lavora meglio del pubblico per alcuni aspetti. La gente si rivolge al privato per questo. Diciamo che le strutture sanitarie si basano su questi due elementi. 

Poi se aggiungiamo la cattiva gestione politica - qui al sud la politica ci ha sempre rovinato – vediamo che i politici hanno contribuito per interesse proprio e non per il bene comune. Questo al sud si vede di più. La sanità è stata gestita male, molti soldi sono stati sprecati e molte strutture sono state chiuse. Molte le hanno chiuse perché erano gestite male, in Calabria abbiamo tanti ospedali piccoli che funzionano male, perciò non è tanto il fatto che venga chiuso quello che funziona male, ma il fatto che non vengano potenziati tutti gli altri. Quindi la politica è stata la rovina della sanità, soprattutto della nostra regione.
Pensa che il governo stia tutelando davvero la sicurezza intesa come sanità e salute pubblica?

Diciamo che si sta muovendo perché c’è un’emergenza grave e importante. Qui da noi, ma anche al nord, ci sono lamentele per l’assenza di queste mascherine. Sicuramente gli operatori stanno lavorando con pochi mezzi e inoltre, soprattutto in Calabria, stiamo pagando i danni di una gestione di dieci anni portata avanti da un commissario. La nostra regione è ancora più disgraziata, i politici hanno mandato in deficit la sanità. In questa situazione è chiaro che si sta lavorando solo sull’emergenza. Ad esempio adesso stanno cercando di aumentare i posti in terapia intensiva che erano stati ridotti dal commissario negli scorsi anni; infatti cosa ha fatto? in una situazione in cui c’era bisogno di diminuire i costi, ha ridotto i posto letto in ospedale e in tutte le strutture. Sicuramente non è cosi che si risolve il problema strutturalmente. Ciò di cui la sanità pubblica avrebbe bisogno sarebbe un intervento strutturale. I deficit che ci sono stati finora li stiamo pagando in questa emergenza. 

Che tipo di professione medica esercita, dove e in che tipo di struttura? 

Medico specialista in otorinolaringoiatria.

Come funziona normalmente il suo lavoro?

Il lavoro si divide tra attività ambulatoriale, sala operatoria, gestione delle urgenze mediche e chirurgiche pertinenti alla branca.

Con chi collabora normalmente per il suo lavoro? Da chi è composto l'organico? Come funziona il suo distretto sanitario? 

Il lavoro della sala operatoria si avvale di un team composto da anestesista, infermiere e ferrista, mentre l’attività ambulatoriale si avvale della presenza di un solo infermiere.

Quali macchinari usa normalmente? Dove ha imparato ad usarli?

I macchinari sono diversi e variano dal fibroscopio al microscopio ma mi sembra eccessivo scendere in dettagli tecnici. L’utilizzo degli strumenti si impara con l’osservazione e poi semplicemente provando a realizzare un esame con l’occhio vigile del collega esperto.

Quanto sta lavorando in questi tempi da coronavirus? 

L’attività chirurgica si è molto ridotta. Praticamente ormai si operano solo i pazienti non differibili (urgenze ed oncologici), e molto probabilmente si inizierà ad eseguire tracheotomie sui pazienti Covid-positivi. Ma per il momento non siamo stati ancora reclutati per questa procedura. L’attività ambulatoriale sembra miracolosamente sparita. Il tappo di cerume insopportabile, l’ipoacusia improvvisa, la lisca di pesce bloccata in laringe, l’epistassi severa... questi problemi più e meno gravi riempiono l’attività ambulatoriale della routine. Improvvisamente, come per un covid effect, le persone non si ammalano più di queste patologie. Possibile? Ai tempi del coronavirus la gente si rivolge al medico solo quando è strettamente necessario. Questo dovrebbe far riflettere sullo spropositato numero di accessi al Pronto Soccorso del tutto impropri. L'idea che mi sono fatto è che ciò avviene per due aspetti: la dequalificazione della figura del medico e perché il paziente non paga di tasca propria la prestazione erogata per i codici bianchi e verdi, che sono differibili o trattabili dal proprio curante. 

La sua retribuzione è cambiata?

Non è cambiata

Che tipo di indicazioni, protocolli ha ricevuto dalla direzione sanitaria?

Indossare la mascherina per eseguire le visite che nella nostra disciplina ci espongono in diretto contatto col rischio di venire a contatto con la saliva dei pazienti.

Ha un equipaggiamento adeguato? 

Non proprio.

Come pensa che muterà l'organizzazione degli ambulatori/distretti sanitari in seguito a questa crisi? 

L’Italia è un paese che non impara mai. Si pensi al fascismo e alle orribili conseguenze sulla libertà, economia e dignità di questo popolo. Eppure a distanza di quasi 80 anni si assiste ad un ritorno di un’ideologia che ha seminato morte e diseguaglianza. La domanda dovrebbe essere cosa dovrebbe mutare nell’organizzazione della sanità dopo questa crisi. Credo bisognerà restituire dignità alla professione medica: cosa vuol dire? Ripristinare l’autorevolezza della figura del medico nella società, perché il medico è una figura messa a salvaguardia della salute e quindi della vita dei cittadini. Questo vuol dire che bisogna investire nella sanità pubblica, non solo aumentando il numero delle borse di specializzazione, ma controllando che i giovani specializzandi vengano formati a dovere; investire nella ricerca; investire nei macchinari e nell’assunzione del personale in base ad una saggia gestione delle risorse e programmazione sanitaria territoriale; azzerare il divario del trattamento sanitario tra nord e sud; aumentare lo stipendio dei dirigenti medici ospedalieri e consentire nuove assunzioni per permettere al medico di vivere al meglio e quindi lavorare meglio.

Pensa che il governo stia tutelando davvero la sicurezza intesa come sanità e salute pubblica? 

Il governo ci sta provando con un tentativo un po’ bislacco. Perché se da un lato la “clausura” è necessaria al contenimento di un’epidemia, dall’altro sono stati eseguiti troppi pochi tamponi. La conoscenza realistica del numero degli infetti (anche se e a maggior ragione asintomatici) è necessaria per provvedere a misure di isolamento selettivo dei soggetti infetti e spegnere l’epidemia il più rapidamente possibile. La strategia che il governo ha messo in atto rischia di non essere risolutiva perché riesce soltanto a diluire nel tempo i contagi senza mai raggiungere un picco.

Ha potuto fare il tampone? Secondo lei perché non lo hai fatto? 

Non sono stato sottoposto al tampone. I tamponi costano e scarseggiano (e poi chi li legge?) e questo è il motivo per il quale, credo, il governo non ha deciso di fare il test a tappeto a tutta la popolazione. I medici vengono sottoposti al test solo se sintomatici. Se si sottopone al test tutta la popolazione ospedaliera, medici, infermieri, osa, praticamente chiuderebbero gli ospedali per mancanza di addetti ai lavori.