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La scuola italiana alla prova della DAD

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Appunti a cura di Anna Curcio per un’inchiesta a caldo sulle prime settimane di didattica a distanza

Questi appunti (oltre riflettere un’esperienza vissuta in prima persona) si basano su una serie di scambi formali e informali con insegnanti di diverso ordine e grado, sulla lettura non sistematica di alcune riviste del settore e delle principali testate giornalistiche nazionali e su una discussione collettiva a mo’ di focus group (rigorosamente in remoto) con alcuni insegnanti tra loro differentemente posizionati in quanto a ruolo, anzianità e disciplina di insegnamento. Le parole di Emanuela, Alessandro, Giacomo, Francesco, Sarah e Giuliana (che per scelta non ho attribuito) tessono, in questo testo, la trama delle considerazioni sull’esperienza dell’insegnamento a distanza nell’emergenza. È una riflessione a caldo nel divenire dei processi.

Insegnare a distanza nell’emergenza

Alla prova con la didattica a distanza (DAD), la scuola italiana si è trovata sostanzialmente impreparata. Vent’anni di retoriche sulle straordinarie virtù dell’e-learning non sono serviti a dotare la scuola delle risorse minime per affrontare adeguatamente l’emergenza che oggi attraversiamo. E non sto parlando soltanto dei dispositivi tecnici che almeno ad un livello generale sono presenti in moltissime scuole (dal registro elettronico obbligatorio dal 2012 agli ambienti moodle ), mi riferisco più in particolare al vuoto normativo e all’assenza di coordinate utili per organizzare le attività a distanza (tempi, modi, contenuti) e, soprattutto, alla pressoché nulla formazione di alunni e insegnanti all’uso delle tecnologie, e questo nonostante la presenza di Animatori digitali e del proliferare di certificazioni informatiche acquistate al mercato dei titoli per l’insegnamento. In questo scenario, anche nelle scuole dove l’uso del digitale era diffuso, l’infrastruttura tecnica è risultata largamente indebolita nella sua utilità ed efficacia. 

Alla prova dei fatti, le attività sono state avviate all’insegna dell’improvvisazione, in un contesto di gran confusione, affidate alla libera iniziativa dei dirigenti scolastici e allo «spirito di servizio» degli insegnati, e non sono mancati dirigenti-sceriffo e cyborg-professori. Nel corso delle settima, il numero dei docenti coinvolti è cresciuto, fino a stanare anche i più scettici e i legittimi imboscati. Secondo una recente valutazione dell’Osservatorio “Scuola a distanza” di Skuola.net, più di 9 ragazzi su 10 svolgono regolarmente lezione da casa (orizzontescuola.it, 20.03.2020), segno che un gran numero di insegnanti si è organizzato per lavorare a distanza. E questo anche se in tanti non erano effettivamente formati all’uso delle tecnologie digitali e altri non disponevano delle dotazioni tecniche necessarie. In tutti i casi (e con l’eccezione di quanti hanno legittimamente scelto di astenersi), alcuni con più entusiasmo altri maggiormente riluttati, hanno iniziato, in modo frammentato e disordinato, a sperimentare una pratica a cui (su larga scala) nessuno era veramente preparato. Tutti però concordano nel ritenere che le tecnologie digitali sono state un’«occasione». Ciò che ha permesso di «preservare la funzione di presidio civile che la scuola rappresenta» e di rispondere alla «necessità di non mancare».

Tra gli insegnati impegnati nella DAD ha prevalso soprattutto il senso di responsabilità per un ruolo sociale ed educativo al quale non ci si poteva sottrarre: «lo faccio anche perché da mamma la sospensione della scuola mi preoccupa molto». Tuttavia, la debolezza delle risorse organizzative e soprattutto la mancanza di una adeguata formazione all’uso delle tecnologie ha lasciato gli insegnati in una condizione di spaesamento che ha fatto vacillare la stessa identità professionale. A tale situazione, ciascuno ha fornito la sua risposta. Alcuni hanno provato a ristabilire il proprio ruolo riproponendo un rapporto educativo fondato «sulla distanza e sulla formalità ma sono stati costretti a correggere il tiro. «Le tecnologie sono un terreno che appartiene ai ragazzi, le usano con modalità e linguaggi informali e molti colleghi si sono dovuti adattare». Altri hanno tentato di ricostruire la relazione autoritaria basta sul voto basso o la nota disciplinare, con risultati evidentemente deludenti visto che – ad oggi almeno – nella DAD né i voti né le sanzioni disciplinare hanno alcune effettività. Altri infine, seppur dotati delle migliori intenzioni, si sono trovati spiazzati, in difficoltà nel «modulare l’insegnamento senza i feedback della classe». Alle prese con linguaggi nuovi e nuovi supporti formativi, impossibilitati a riprodurre attraverso la macchina le forma della relazione in presenza e dello scambio linguistico-affettivo, faticano a definire didattica quello che stanno facendo: «è qualcosa che facciamo per fronteggiare la situazione ma non è didattica. Per formare delle persone consapevoli non bastano le nozioni, abbiamo bisogno di urla, litigi e di relazione e non c’è tecnologia che lo consenta». Non stupirà allora che, nei suoi primi passi, la DAD sia stata soprattutto un’occasione per «mantenere un contatto umano», con lezioni «più simili a incontri di un gruppo terapeutico», ore scolastiche dedicate «a parlare dell'emergenza e a studiare i grafici con i dati dell’epidemia» e «valanghe di email di alunni disorientati in cerca di rassicurazioni». Un ulteriore impegno affettivo-relazionale che si è aggiunto al consueto lavoro dell’insegnamento.

Ad essere cresciuto è, più complessivamente, l’intero carico di lavoro: «Tra la riprogrammazione delle attività e la gestione di varie piattaforme, il nostro lavoro si è triplicato». E se la cosa è risultata particolarmente faticosa per chi nella restrizione domestica si trova a gestire la didattica negli spazi e nei tempi della famiglia e della cura, anche «una collega che vive da sola mi ha detto di non aver ancora trovato il tempo per la scrittura dei racconti con cui si diletta con un certo successo». Le riviste del settore parlano esplicitamente di burnout da DAD (orizzontescuola.it, 02.04.2020) e la cosa non lascia sorpresi. Oltre al carico affettivo-relazionale, l’incremento di lavoro riguarda in parte (ma non in modo centrale) l’apprendimento dell’uso dei dispositivi: «un lavoro che va oltre … tempo speso a far funzionare quei marchingegni infernali che sono le piattaforme», con l’ulteriore carico di dover «insegnare agli studenti ad usarle; nativi digitali che si perdono nel gestire in modo complesso le tecnologie». Per un’altra preminente parte, però, l’incremento ha a che fare con l’ideazione e organizzazione delle attività. Se le tecnologie digitali sono state, come si diceva, «un’occasione», senz’altro «la tecnologia di per sé non basta, le attività devono essere organizzate, vanno ripensati i contenuti, va ripensata tutta l’offerta formativa e questo è affidato alla sola iniziativa degli insegnanti». Senza la capacità umana la macchina (la piattaforma per la teledidattica in questo caso) non è in grado di svolgere la sua funzione. E, nella DAD, come se non bastasse, all’insegnante, tocca anche farsi carico dei costi vivi per il suo funzionamento: «il costo della connessione, l’hardware, l’elettricità per farlo funzionare, i software, per non parlare dei saperi tecnici e organizzativi per gestire le macchine». Sono suoi i mezzi di produzione, il capitale fisso, di cui si assume i costi vivi e di ammortamento, che la scuola a distanza ha smesso di sostenere. Suo anche il «rischio d’impresa». Operando in emergenza e in assenza di «regole definite l’unica bussola è il buonsenso» e l’unica tutela la clausola di forza maggiore come nei rapporti commerciali, se mai ci fosse bisogno di ricordarci che la formazione è una merce. 

Modi e nodi della DAD dell’emergenza

«Didattica a distanza, ma con insegnanti buoni artigiani» titolava qualche settimana fa una rivista del settore che, facendo il punto sui processi di digitalizzazione già in atto nella scuola, insisteva sull’irriducibilità del lavoro umano alla macchina. Di fronte ai risultati «deludenti» delle classi 2.0, «l’ideale è che i buoni docenti usino in modo intelligente quello che hanno, sanno e possono usare e che si adatta alla loro situazione» (tecnicadellascuola.it, 13.03.2020). Così è stato. Alle prese con nuovi linguaggi e pratiche della didattica da organizzare attraverso la macchina, gli insegnanti hanno adattato le proprie abilità e saperi ai nuovi strumenti. Alcuni maggiormente vincolati dalle richieste della dirigenza scolastica, altri con maggior autonomia, hanno avviato, almeno all’inizio, procedure e pratiche eterogenee. Alcune scuole hanno incentivato l’uso degli ambienti moodle già attivi, altre hanno spinto all’utilizzo delle applicazioni disponibili nei registri elettronici, molti altri, in autonomia e con inventiva, hanno fatto ricorso alle più svariate applicazioni e dispositivi (da YouTube a varie piattaforme di e-learning). Inizialmente, l’offerta formativa è stata una valanga di materiale riversato nel web in un rapporto prevalentemente unidirezionale; molto materiale di approfondimento ma soprattutto compiti. «La cosa più semplice, che tanti hanno fatto è [stata] la somministrazione di quiz e test a risposta multipla». Da buoni artigiani, gli insegnati hanno adattato al digitale la «scuola delle competenze» e la cosa è stata piuttosto immediata. La macchina, che per sua natura semplifica a ripete le operazioni, calza a pennello alla scuola dei saperi modulari e dei pacchetti formativi settorializzati.

Dell’utilizzo delle piattaforme gli insegnati apprezzano «la possibilità di condividere materiali», una cosa che peraltro è già in qualche misura possibile con gli strumenti in dotazione alle scuole. «Per me che insegno una materia scientifica, certi contenuti sono più facili da veicolare. Ho una serie di tabelle e di dati, in quattro secondi li passo a tutti e possiamo correggerli insieme». «Io ho spesso la difficoltà di dare ai ragazzi dei testi letterari da leggere. Fotocopiare pagine per una classe intera è un impegno ma con gli strumenti digitali posso leggere con loro dal mio schermo». Tuttavia le piattaforme «sono strumenti utili per l’approfondimento e funzionano se sai già le cose di base». In questo senso, tendono alla specializzazione dei contenuti ma al prezzo di lasciar fuori altri saperi o saperi trasversali, quelli che arricchiscono di autonomia e spirito critico la formazione degli studenti. Anche il rapporto didattico tende a specializzarsi perché diventa «difficile coinvolgere quelli che sono demotivati» con il risultato che «si punta su alcuni e non su altri». Inoltre, nell’impossibilità di «riprodurre il contesto classe», la didattica attraverso la macchina predispone al rapporto «uno a uno» che gli studenti (soprattutto i più piccoli) tanto ricercano anche in presenza. In questo modo, non si ha tanto un rapporto personalizzato come le strategie di personalised learning vorrebbero, al contrario, il rapporto formativo, spersonalizzato nel rapporto con la macchina, tende a individualizzarsi svuotando la dimensione sociale e cooperativa della formazione. Ma soprattutto la gestione della didattica attraverso le piattaforme digitali lascia aperto il grande nodo dell’inclusività, con la DAD che schiaccia ulteriormente la scuola lungo linee gerarchiche di classe, colore e abilità.

Dal punto di vista degli insegnanti, la principale insoddisfazione sembra l’impossibilità di riprodurre il modello didattico tradizionale della lezione in presenza. Per colmare questa insoddisfazione e ricreare il più rassicurante ambiente classe, la DAD dell’emergenza ha scelto la via della video-lezione, che si è imposta come la modalità prevalente in uso. Questa scelta ha incontrato l’indicazione del Ministero all’utilizzo di alcune piattaforme commerciali, da Google a Microsoft, e tutta la didattica (o almeno la gran parte) si è spostata lì, riproponendo la vexata questio della gestione dei dati di milioni di studenti da parte delle imprese multinazionali. La questione tuttavia, occorre ricordarlo, rappresenta solo un passaggio di processi già avviati. Come Amazon, Vodafone e altre grandi imprese del web, «sono anni che Google offre pacchetti digitali alle scuole e questa cosa oggi gli è tornata utile». Da questa angolazione, i giganti del web hanno in qualche modo colmato l’impreparazione tecnologica della scuola che ha negli anni gestito l’e-learning più come dotazione di hardware (dai computer alle LIM) che come formazione di alunni e insegnanti. Anche nelle scuole dove erano presenti piattaforme open source «alla fine i ragazzi non le seguivano e per raggiungerli è stato necessario passare all’ambiente e-lerning di Google», che utilizza un’interfaccia «user friendly». Ugualmente per tanti insegnanti che non avevano mai fatto esperienza di didattica digitale, le piattaforma commerciali sono risultate di più immediata gestione. Ma sopratutto, le imprese del digitale hanno offerto alla DAD dell’emergenza le funzionalità più confacenti alla gestione del momento.

Google, come Microsoft e altre piattaforme messe a disposizione per la didattica a distanza, offrono servizi di conferenza in remoto che i moodle non prevedono. Dispongono cioè dell’ambente digitale più idoneo alla domanda di didattica avanzata da alunni e insegnanti in una scuola sostanzialmente impreparata all’impatto con il digitale, quella modalità che permette di riprodurre, o «simulare», le lezioni in presenza.

Tuttavia, né gli insegnanti né gli alunni che pure la invocano ne sono soddisfatti. I primi evidenziano lo snaturarsi di un ruolo che si è spostato in ambito familiare e il disagio per la lezione «ascoltata da altre persone (madri, padri, amici) quando invece è per gli studenti»; i secondi lamentano di non riuscire a seguire bene le spiegazioni attraverso lo schermo, di essere sommersi da compiti e impegni e, strano ma vero, invocano il rientro in classe al più presto possibile. «Non ce n'è uno, neanche tra quelli più somari, che ha espresso un giudizio positivo su questa esperienza». E poi c’è tutta la questione della gestione delle presenze e delle valutazioni che affligge alunni e insegnanti: «è opportuno fare lezione quando è connessa solo una parte della classe?», «è giusto considerare assente chi non si collega per la lezione? Come valutare le interrogazioni? E quando alla fine del ciclo qualcuno sarà andato male cosa succederà?». Domande oziose per la verità, visto che «a queste condizioni chiunque farà ricorso contro una bocciatura lo vincerà». La scuola digitale dell’emergenza ha il grande, cruciale, limite di non essere garantita a tutti. L’Istat ha rilevato che un terzo delle famiglie italiane non è in possesso di un pc (con i numeri che cresco nel Sud del paese), nei restanti due terzi i dispositivi digitali sono condivisi con un limite evidente nell’accessibilità, e quasi il 50 percento delle abitazioni non dispone di spazi idonei allo svolgimento delle video-lezioni cosa che riduce ulteriormente gli accessi (Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi, 06.04.2020).

Macchina, innovazione, risparmio 

Tra emergenza, impreparazione e accelerazione sul digitale, l’offerta formativa si sta riorganizzando all’insegna di una nuova artigianalità, costruita all’incrocio tra macchine (le piattaforme digitali) e buonsenso; tra i mezzi tecnici e le risorse affettivo-relazionali del rapporto formativo. Intorno a questa combinazione non è stato solo possibile ridefinire la didattica, passa da qui anche l’innovazione e risparmio di capitale che nell’emergenza sta gestendo la riorganizzazione della riproduzione, e della formazione in particolare. Nella DAD c’è risparmio gestionale e di lavoro. I costi vivi sono adesso a carico dell’insegnante (che è proprietario dei mezzi di produzione) e il lavoro didattico, che attraverso la macchina può essere più produttivo è, a parità di impiego, risparmiato. Questo era già chiaro «nelle scuole serali, dove dal 2012 è possibile fare fino al 20 percento della didattica online. Io che lavoravo per uno spezzone di 10 ore alla fine erogavo complessivamente 12 ore, ogni ora online era effettivamente due». Con la DAD dell’emergenza la questione si è riproposta: «lavorando attraverso i webinar, mi sono resa conto che potrei gestire due classi contemporaneamente e questa cosa, vista in prospettiva, mi spaventa». In quelle esperienze dove i processi di e-learning sono consolidati (si veda Sarah Jones "Industria scolastica, telelavoro, e-learning"), «esistono anche delle scuole charter con un insegnante per 75 ragazzi, in cui lo studente collocato in un cubicolo come in un call-center ha il suo computer per seguire le video-lezioni. Il risparmio di spazio e di insegnanti è enorme. Non devono avere alcuna formazione specifica, si limitano a gestire l’infrastruttura. Intervengono se qualcosa si rompe o non funziona e non esiste alcun rapporto umano». Il docente è ridotto a tecnico di computer e la didattica è solo una questione di management.

Nello stesso tempo, la didattica a distanza ha aperto a processi di innovazione capitalistica che attingono all’enorme lavoro di innovazione prodotto da insegnati e alunni nel ripensare i modi e i tempi della didattica attraverso la macchina, nello sperimentare nuovi linguaggi e modi della relazione, e nel ridefinire le forme della collegialità (nel nuovo rapporto con famiglie più presenti nei momenti della didattica) e la cooperazione tra i docenti (che devono necessariamente coordinare orari, metodi e carichi di lavoro perché le cose funzionino). La riorganizzazione capitalistica della formazione passa in questo senso anche per l’innovazione delle piattaforme digitali a cui alunni e insegnanti stanno ampiamente contribuendo. Google ha già inserito nella sua «Suite» alcuni aggiornamenti che intendono rimodulare per la didattica ambienti pensati per la gestione aziendale. Le «Novità Google Meet for Education», nel comunicato di un dirigente scolastico, sono le nuove funzionalità introdotte per una conduzione più gerarchica della comunicazione in remoto: «ora solo i docenti possono avviare le videochiamate; gli studenti non possono più silenziare né eliminare nessuno». E non si può fare a meno di notare che «la cosa interessante è che Google si trasforma seguendo la resistenza dei ragazzi a stare dentro la regola»: è la vecchia questione dei comportamenti e dei conflitti, anche in forme implicite, che spingono il capitale all’innovazione. In questo senso sarà anche interessante capire «l’uso che faranno gli studenti dei dispositivi che la scuola sta mettendo a disposizione. È difficile che li utilizzeranno solo per la didattica ed è possibile che l’uso che ne faranno stimoli la produzione di nuovi software».

In questo senso, quando guardiamo al rapporto tra la scuola e le imprese del web, più che all’indubbia questione dei «ricavi che le scuole traggono vendendo i dati personali degli studenti», occorre guardare all’innovazione capitalistica e al risparmio prodotti dalle nuove forme della didattica che passano per il web. Da questa prospettiva è possibile osservare i punti di forza e le aporie dell’indubbia accelerazione dei processi di digitalizzazione della formazione nell’emergenza.

Quale futuro per la DAD?

Se la DAD di cui stiamo facendo esperienza è il preludio di un salto tecnologico o, come sostengono altri, «non può che essere una pratica emergenziale», lo vedremo nello sviluppo delle pratiche, con buona pace della Ministra Azzolina che ne paventa l’estensione al prossimo anno scolastico e prova a imporre per decreto una pratica a cui insegnanti e alunni non hanno pieno accesso né adeguata formazione.

Al momento sappiamo che sebbene l’emergenza stia funzionando come straordinario volano dei processi di digitalizzazione anche nella scuola, il capitalismo delle piattaforme è arrivato solo in parte preparato a questa prova. Per far fronte alla carenza strutturale di dispositivi digitali per la didattica e andare incontro ai bisogni di famiglie e insegnanti, il decreto «Cura Italia» ha stanziato 85 milioni di euro ma sul mercato non è al momento possibile trovare i circa 200 mila dispositivi di cui la scuola avrebbe bisogno. Ai microfoni di «Radio anch’io», il Presidente dell'Associazione Nazionale Presidi ha detto che «si sta cercando di mettere una pezza [a una situazione di carenza strutturale], ma i fornitori non sono al momento in grado di fornirci i materiali» (Rai Radio Uno, 07.04.2020). Come se non bastasse c’è anche da gestire il problema relativo alla portata complessiva dell’infrastruttura telematica con i sistemi che vanno in crash e configurazioni che impazziscono, a cui si aggiungono le difficoltà di connessione, con le reti web che non reggono il traffico e i consumi che diventano insostenibili, e per questo con una grande operazione di marketing le imprese telefoniche hanno dato vita a «solidarietà digitale» che offre condizioni speciali e servizi gratis. E poi ci sono tutta serie di limiti tecnico-organizzativi a cui le piattaforme stanno ponendo riparo in corso d’opera (dalla «Suite» di Google ai continui aggiornamenti nella gestione dei registri elettronici) e la debole offerta di contenuti didattici digitali, con gli editori che si affrettano ad aggiornare i cataloghi di un settore che assicurano «è stato a lungo trascurato per lo scarso interesse di insegnati più inclini a forme tradizionali di didattica». Ma la maglia nera dei processi di digitalizzarono della formazione va senz’altro alla scarsa o nulla formazione di insegnati e alunni alla didattica online. Così, se l’interazione uomo-macchina nella didattica sta già producendo innovazione capitalistica e aprendo nuovi mercati (dalle nuove funzioni e applicazioni ai contenuti didattici digitali), la formazione di abilità e saperi per l’insegnamento e l’apprendimento online non sono (o non sembrano) immediatamente dietro l’angolo, almeno non per tutti.

E poi c’è il piano, importantissimo, dei dispositivi di governo del lavoro digitale, arrivato anch’esso impreparato alla prova dell’emergenza. In assenza di un piano normativo e di regole definite, gli insegnanti hanno potuto agire con grande autonomia, raggiungendo anche «risultati insperati». «Un amico che insegna alle elementari sta costruendo un giornalino con i bambini e con questa scusa stanno facendo didattica in un modo che altrimenti non avrebbe mai sperimentato». «Approfittando dello stato di eccezione sto proponendo soprattutto materiali per riflettere sulla realtà provando a sollecitare il pensiero autonomo degli studenti, ma non è sicuro che ciò si possa fare anche qualora questa dovesse diventare la modalità normale della didattica». Anticipando parzialmente il piano della riorganizzazione capitalistica e della gestione del lavoro digitale nella scuola, la DAD può essere agita come spazio di possibilità per ripensare la scuola, almeno finché il capitale non avrà imparato a governarla pienamente. È il caos dell’emergenza più che il l’uso delle tecnologie a definire questo spazio. 

Il capitale è al momento prevalentemente impegnato nella gestione della macchina; l’organizzazione e governo della capacità umana (che resta indispensabile al funzionamento della macchina) è ancora parzialmente lasciato all’autonoma iniziativa dell’insegnante, che può almeno in parte scegliere se rispondere o sottrarsi alla domanda di innovazione avanzata dal capitale. Se macchinizzare la formazione attraverso l’uso delle piattaforme di e-learning, riprodurre più artigianalmente la lezione in ambiente virtuale (e sarebbe interessante capire quanto in questo ci sia di impreparazione e quanto di sottrazione dalla domanda di innovazione avanzata dal capitale) o provare a ripensare la scuola in modo maggiormente cooperativo e critico. Quel che è certo è che i processi di digitalizzazione della didattica aperti dall’emergenza lasciano come un vuoto, uno scarto tra le capacità tecniche, organizzative e soggettive della scuola e la domanda del capitale. In questa aporia, in questo residuo irrisolto, si trova la risposta sul futuro della DAD e, sottraendo terreno alla disputa tra «apocalittici e integrati», andrebbe collocato qui un supplemento di analisi e riflessione.