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Lo spettro pandemico in Brasile

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Bruno Cava analizza la crisi a partire da San Paolo e dal contesto brasiliano

Chiunque nuoti nell’oceano conosce il rischio di essere sorpreso in un cambiamento della condizione del mare. Improvvisamente, le acque si agitano e le onde crescono in modo spaventoso. Il nuotatore esperto sa che è inutile combattere la corrente. Cercare di raggiungere la spiaggia il più velocemente possibile può essere la strada più diretta verso la morte, soprattutto se le onde enormi lo sovrastano. È meglio voltare le spalle alla riva e tuffarsi nella direzione delle onde per superarle prima che si infrangano. Chi ci è passato conosce il paradosso. Dopo aver vinto la prima ondata, bisogna prepararsi per la successiva, solo che ora si è ancora più lontani dalla fuga. Più onde si infrangono, più ci si getta nel fondo ignoto, sperando di trovare una condizione meno distruttiva.

La pandemia del covid-19 ha colpito il Brasile proprio nel momento in cui il suo governo aveva promesso la grande ripresa economica. In crisi dagli anni di Dilma Rousseff (2011-2016), questo sarebbe dovuto essere l’anno in cui il paese avrebbe raccolto i frutti delle riforme di austerità attuate dal governo Bolsonaro nel 2019, con l’obiettivo di recuperare produzione, occupazione e consumi. Il decennio perduto del capitalismo in Brasile, tuttavia, è stato il decennio vincente delle mobilitazioni sociali: la rivolta metropolitana del 2013, le massicce manifestazioni anti-corruzione e, infine, il movimento dei camionisti che ha paralizzato la logistica nazionale nel 2018.

La situazione, con l’arrivo della pandemia, è quindi ambivalente. Una composizione sociale precaria, data la frammentazione territoriale, l’impoverimento e la mancanza di infrastrutture, coesiste con una società intensamente mobilitata, una composizione politica incandescente e suscettibile di audaci progetti di cambiamento.

Se il consenso medico del mondo prescrive l’isolamento sociale, la realtà brasiliana si tinge di decine di milioni di persone che vivono nelle favelas. Alcune delle comunità hanno un’infrastruttura minima derivata dai programmi di urbanizzazione degli ultimi decenni, come Rocinha (100.000 abitanti) o Maré (140.000 abitanti), però la maggioranza delle favelas non hanno nemmeno servizi sanitari di base, si agglomerano insieme bambini, adulti e anziani chi formano famiglie ampliate o ad hoc, con un vasto numero di figliastri, aggregati e protetti. In molti territori poveri lavarsi le mani correttamente è già una sfida. Inoltre, nelle metropoli brasiliane ci sono circa 100.000 senzatetto, molti dei quali dipendenti da sostanze chimiche (compresi i bambini), che non hanno neppure una casa per isolarsi. A causa della crisi economica, a San Paolo, tra il 2015 e il 2019, il censimento dei senzatetto ha indicato un aumento da 15.000 a 25.000 persone senza fissa dimora. Per ora, la diffusione del virus è iniziata con le élite economiche e politiche, ma le reali condizioni di esistenza nel paese suggeriscono l’arrivo di un terribile “strike” dei poveri.

Un’altra domanda a cui bisogna rispondere immediatamente nella prescrizione dell’isolamento sociale è dove la popolazione più povera (che in Brasile è la maggioranza) otterrà un reddito. È inutile bombardarla con notizie allarmanti perché, alla fine, la preoccupazione più grande sarà sempre: cosa mangiare, come nutrire i parenti, come comprare le medicine per alleviare i tanti mali di salute che esistevano già prima del covid-19? In un’economia in cui la precarietà del lavoro ha sempre prevalso, con vaste frazioni di lavoratori con occupazioni instabili nel settore dei servizi, nelle microimprese e nelle piccole imprese, oppure impiegati nell’economia informale, come mantenere un reddito minimo quando le strade si svuotano e la domanda del “non essenziale” si riduce praticamente a zero? Coloro che compongono la classe media urbana hanno del “grasso” nei loro risparmi o nella rete familiare di ricchezza per sopravvivere due, tre, sei mesi senza alcun reddito; però questa non è la realtà della maggior parte del paese. Se non c’è niente da mangiare, il percorso previsto è che le periferie si uniscano e passino alla violenta appropriazione degli approvvigionamenti.

Il federalismo non è mai stato così presente come nelle notizie. I 27 governi statali, guidati da San Paolo (40% del Pil nazionale), hanno assunto misure drastiche per combattere il virus, guidati dalla scienza. In una posizione di guerra, si ergono a potere decisionale che salva vite umane. Si polarizzano così rispetto al discorso del presidente, che assume la posizione opposta: con l’eccezione delle figure a rischio, il coronavirus non causerebbe altro che un’influenzina, è questo l’imperativo per sostenere l’attività economica. L’opposizione discorsiva tra lo stato d’eccezione e il ritorno alla normalità, tuttavia, nasconde il presupposto comune: il dualismo da manuale tra la vita e l’economia, che trova riverbero negli ambienti di sinistra – dove per economia si intendono i padroni. Come se l’economia non fossimo noi, con le nostre vite complicate, e come se la pandemia non avesse bloccato, dalle cause agli effetti, una determinazione sociale ed economica permeata da asimmetrie e disuguaglianze. Il concetto di biopolitica, perlomeno nell’opera di Michel Foucault, è un concetto derivato dall’economia politica e si riferisce al momento in cui i calcoli del valore cominciano a comprendere il vivere e il morire della popolazione presa come corpo integrale. Una forma di governo che modula il fare vivere o lasciare morire è fondamentalmente normale per le persone che dipendono dal sistema sanitario di un paese del terzo mondo.

L’atteggiamento anti-scientifico e a favore della normalità del presidente lo ha portato a un rapido isolamento. I cacerolazos che sono stati così cruciali per il movimento di impeachment di Dilma nel 2016 sono tornati alla vita quotidiana nazionale. In pochi giorni, Bolsonaro ha perso le alleanze politiche nel Congresso, nella magistratura, tra i governatori, oltre ad aver approfondito la propria condizione di paria internazionale, facendo compagnia al presidente della Bielorussia. Ha cominciato con l’inimicarsi il suo ministro della salute, che ha preferito raccomandare una serie di misure di contenimento e ha agito in collaborazione con gli stati federali. Anche i due super-ministri del governo federale, Paulo Guedes (Economia) e Sérgio Moro (Polizia), oltre al vicepresidente, si sono esplicitamente smarcati dal discorso presidenziale.

Con chi si stringe le fila Bolsonaro? Con il nucleo duro composto dai quattro figli uomini (una quinta figlia donna non ne fa parte), una costellazione di chiese neopentecostali e il guru Olavo de Carvalho, una sorta di Aleister Crowley. La trasposizione politica della scommessa virus-pianistica avviene con il tentativo di un collegamento diretto con i più poveri, la cui prima preoccupazione non sarebbe la contaminazione, ma la fame e la penuria. Per questo motivo, ha fatto circolare un video pienodi neri e indigenti intitolato "Il Brasile non può smettere!". Inoltre, lo stesso Bolsonaro ha visitato personalmente dei quartieri poveri per ascoltare la gente per strada. Ciò scandalizza non solo per il mancato rispetto delle prescrizioni sanitarie, maanche perché il presidente stesso è sospettato di contagio.

Il dramma maggiore, tuttavia, è la perplessità sul possibile campo d’azione in queste condizioni. Dal crollo della governabilità, la tendenza che oggi ne viene fuori è che i leader autoritari, potenziati dal discorso dell’eccezione, finiscano per assumere il potere dello Stato. I governatori di San Paolo e di Rio de Janeiro, i due maggiori stati della federazione, sono cresciuti politicamente come outsider grazie a un programma di inasprimento dell’ordine pubblico e di guerra militare contro il crimine. Il vicepresidente è un noto generale della linea dura nella tradizione tecnocratica dell’esercito brasiliano. I movimenti che scommettono sulla massima maoista secondo cui il disordine è eccellente confondono l'eventuale caduta del presidente con l’ascesa di un governo provvisorio indebolito (come quello del febbraio 1917). La tendenza, in realtà, è il consolidamento di un governo ancora più forte e le condizioni per un altro Bolsonaro, nuovo e più efficiente. Allo stesso tempo, si stanno costruendo aree di isolamento negli stadi e nelle arene dei concerti, si sta considerando l’uso di navi per confinare i malati e l’impiego delle forze armate per imporre il coprifuoco, il che non può non far riaffiorare il ricordo dei tempi recenti in cui queste stesse pratiche venivano utilizzate in America Latina per combattere un altro tipo di “virus”. Ora ciò è accresciuto dalla mappatura digitale degli agglomerati...

Altra confusione è portata da chi crede che la pandemia condurrà magicamente a un bilancio positivo. Si parla di una fine del neoliberalismo, del capitalismo, dell’antropocene, come se l’arrivo della catastrofe da solo innalzasse la società a una mentalità superiore. È una posizione idealistica che non spiega le reali articolazioni che porterebbero dalla crisi al cambiamento positivo, mentre lo scenario che si prospetta volge al peggio. Altri semplicemente sprofondano nella palude dell’escatologia: stiamo ricevendo uno schiaffo per i nostri vizi capitalistici, Gaia si sta vendicando dell’umanità prometeica. Si tratta di una posizione doppiamente antropocentrica. Niente di tutto questo contribuisce a fare un passo in avanti.

Il dilemma del militante oggi è come organizzarsi in queste nuove condizioni. Se la presenza fisica nei territori significa porsi irresponsabilmente come vettore di contagio, come si può agire nel comfort della propria casa quando la maggioranza non se lo può permettere? Come essere utile alla mobilitazione medica e ingegneristica per la produzione della vita? Come affrontare l’aggravarsi delle privazioni, della disperazione, delle malattie mentali di massa? Come affrontare la strategia del presidente di tentare di porsi in collegamento con i poveri, ergendosi a canale di ascolto dei mali che la pandemia approfondisce? Bisogna semplicemente aspettare il peggio, in modo che il probabile accumulo di cadaveri smentisca il coraggio degli spacconi? Come essere vicini al terreno fertile degli antagonismi, che si esaspereranno?

Restano un generale fraintendimento dei molteplici punti di vista e alcune interessanti iniziative, come quella di un gruppo di architetti e progettisti che, contro le soluzioni verticali, cercano di rafforzare le reti locali di solidarietà e di formulazione dei problemi. Ma data la dimensione continentale del paese e l’immensità delle favelas (2.000 nella regione metropolitana di San Paolo, 1.200 in quella di Rio de Janeiro), molte delle quali sono raggiunte solo dalle chiese e dal traffico di droga, è difficile offrire ottimismo nelle analisi.

Ci saranno molte ondate che pandemizeranno tutti. Si parla della prima ondata della malattia, seguita dalla seconda, quella economica. Le onde, tuttavia, si uniscono, poiché anche le misure più elementari per affrontare la malattia implicano azioni economiche legate alla produzione e alla logistica di utensili, attrezzature, medicinali, vaccini, infrastrutture. La carenza economica colpisce immediatamente i più poveri, insieme al virus. Inoltre, lo stesso coronavirus può arrivare a ondate, come è successo con l’influenza spagnola un centinaio di anni fa, o con la pandemia dell’Aids, nelle sue ricorrenze cicliche. Onde sincrone di una fisica delle onde critica che si somma alle varie ondate precedenti, dall’apertura del ciclo di crisi del capitalismo globale nel 2008. Come vivere insieme, e come agire in queste condizioni, continua a essere una sfida irrisolta che fa appello a tutta la nostra comune intelligenza.