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Un passo al di là del post-strutturalismo, per una farmacologia positiva

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Intervista di PAOLO VIGNOLA a BERNARD STIEGLER*

P.V.: In Reincantare il mondo lei afferma che incantare significa trovare «il piano che mi incanta», ossia un piano di consistenza del desiderio, sul quale le singolarità possono incontrarsi davvero. Questo piano deve però essere costruito, e ciò vuol dire che costruire l'incanto per il mondo in cui viviamo è praticamente l'opposto di rimanere incantati dalla rete e dalle nuove tecnologie, senza conoscere nulla del processo di incantamento, o dell'incantesimo che ci viene fatto; bisogna quindi partecipare attivamente alla realizzazione di questo piano. La sua proposta ricorda un po' la realizzazione del piano di immanenza (e perciò anche di consistenza) enucleato da Deleuze e Guattari, in cui, appunto, il piano è da costruire. Bisogna quindi ricorrere all'etica spinoziana per muoversi all'interno delle reti digitali?

B.S.: Ritengo che ciò che dico sia molto vicino a quel che affermano Deleuze e Guattari. Chiamo ''consistenza'' qualcosa che ho incominciato a pensare attraverso Simondon, nel senso che questa è in stretta relazione con ciò che Simondon definisce la singolarità, come mutazione o passaggio di soglia attorno a un punto critico. La questione dell'immanenza che pongono Deleuze e Guattari rinvia evidentemente a una filosofia che sappia pensare senza utilizzare nessuna trascendenza, ma questo non significa che l'immanenza sia piatta. Nell'immanenza ci sono dei risalti che costituiscono piani differenti. Ad esempio, nell'immanenza ci sono momenti di inconsistenza, nei quali il piano di quel che definisco “ciò che consiste senza esistere” fa delle crepe. Questo significa che nell'immanenza può esserci regressione. Secondo me, in ciò che Deleuze e Guattari chiamano “il piano di immanenza” (io non parlo di immanenza, parlo semplicemente di esistenza: l'ex-sistenza è ciò che sta tra la sub-sistenza e la con-sistenza) c'è qualcosa che manca e che bisogna precisare, vale a dire ciò che consiste senza esistere. Quando affermo questo, non voglio che sia in contraddizione con ciò che dicono Deleuze e Guattari, ma ritengo che comunque in loro due non sia abbastanza chiara la questione dell'inesistenza delle consistenze. Dunque, anche se dico che non sia sufficientemente chiara, ritengo che sia comunque presente, almeno in qualche modo, per esempio mi pare che in Che cos'è la filosofia? loro sollevino tale questione. Ad ogni modo, è proprio a partire da questo problema che, nella mia prospettiva, sarei portato ad accentuare una sensibile differenza tra il discorso di Deleuze e Guattari e quel che cerco di fare pur seguendo il loro percorso – devo dire che sono debitore nei loro confronti per molte cose, come lo sono nei confronti di Derrida, di Lyotard, di Husserl e di molti altri. Comunque, io cerco di pensare la consistenza a partire da Freud, e d'altronde penso che sia quello che abbiano fatto anche Deleuze e Guattari. Ritengo però che, in Deleuze e Guattari, come in tutti i loro contemporanei (ad eccezione, forse, di Lacan), manchi un'autentica distinzione, all'interno dell'economia libidinale, tra il desiderio e la pulsione. Chi non conosce praticamente nulla di Deleuze e Guattari sa comunque, il più delle volte, almeno che sono dei filosofi e che hanno parlato di macchine desideranti. Il concetto di desiderio in Deleuze e Guattari è estremamente importante ma, per ciò che mi riguarda, ritengo che tale concetto resti problematico – come in Lyotard o in Derrida – dal momento che non si basa su di una distinzione tra lo stesso desiderio e la pulsione. A tal proposito, bisogna dire che, a partire dal 1920, avviene un cambiamento radicale in Freud – è lo stesso Freud a dichiararlo, poiché afferma che passa dall'energetica all'economia libidinale propriamente detta – e penso che questo cambiamento sia una trasformazione della questione stessa della pulsione. Lei saprà certamente che in Al di là del principio di piacere l'opposizione piacere/realtà fa posto a quella che non è più un'opposizione bensì un'economia tra le pulsioni di Vita, le pulsioni di Morte e un'istanza che tenta di unificare queste due pulsioni – e tale istanza, a mio avviso, è il desiderio. Ritengo che tale questione non sia molto chiara in Deleuze e Guattari, anche se Deleuze cominci ad “essere Deleuze” proprio affrontando questo problema, poiché il primo libro davvero fondamentale di Deleuze è Differenza e ripetizione, che può essere visto come un commentario di questo testo di Freud (non solo di questo testo, è chiaro). Ora, il soggetto di L'anti-Edipo e di Mille piani è il capitalismo, e quest'ultimo, dal mio punto di vista, è una modalità di strumentalizzare il pharmakon – ossia ciò che definisco la “ritenzione terziaria” (la quale è prodotta da un processo di grammatizzazione, di cui la macchina-utensile che lo stesso Marx ha cercato di pensare rappresenta uno stadio fondamentale). Il capitalismo, attraverso la sua politica e la sua economia delle ritenzioni terziarie mira a utilizzare queste ultime per canalizzare le pulsioni e tale canalizzazione ha condotto a corto-circuitare i processi di trasformazione delle pulsioni in desiderio. Penso che questo aspetto non sia pensato a sufficienza da Deleuze e Guattari, e glielo dico perché ho appena pubblicato un libro in cui mi confronto parecchio con Deleuze e in cui sostengo che Deleuze in Differenza e ripetizione abbia posto la questione del pharmakon; quando egli afferma che la ripetizione può curare o avvelenare, di fatto introduce l'argomento del pharmakon e inoltre, nell'affermare ciò, si riferisce alla scrittura. Per me è semplicemente straordinario, e per quanto ne so nessuno ha studiato questo aspetto comune a Deleuze e a Derrida, sviluppato nello stesso anno dai due autori – infatti Deleuze ha trattato questo argomento proprio mentre Derrida stava scrivendo Della grammatologia. Comunque, per tornare al mio ragionamento, in Deleuze ci sono le basi per pensare il problema che voglio porre, ossia il problema della farmacologia del desiderio, e tale farmacologia passa attraverso le ritenzioni terziarie. Per come le concepisco, le ritenzioni terziarie sono delle macchine, ma non sono “macchine desideranti”, dal momento che queste ultime in realtà non sono delle macchine, bensì dei concatenamenti, dei dispositivi, o quant'altro ma non sono assolutamente macchine concrete. D'altronde, per spiegare le macchine desideranti, Deleuze e Guattari hanno bisogno di passare attraverso la nozione di macchine astratte. Ho cercato di mostrare in alcuni miei lavori, non su Deleuze e Guattari, ma sulle scienze cognitive, che il concetto di “macchina astratta” sia un concetto inconsistente. Una macchina è sempre concreta, altrimenti non è una macchina. Una macchina è la materializzazione di un processo temporale che permette di trasformare un tempo in uno spazio e, in tale trasformazione del tempo nello spazio, di governare questo tempo, riducendolo e detemporalizzandolo. Penso che sia ciò che il capitalismo riesca a fare con le ritenzioni terziarie. Parimenti, sostengo inoltre che tale spazializzazione del tempo sia ciò che permetta la ritemporalizzazione di questo stesso tempo – che, perciò, diviene altro – attraverso una nuova ripetizione, quella che Deleuze definisce la “ripetizione buona”. Dal mio punto di vista, questo processo consiste in una intensificazione del desiderio, e cioè dell'individuazione.

Ora, per ritornare alla questione che mi ha posto, e al rapporto tra piano di consistenza e piano di immanenza, per me la consistenza può darsi solo nell'immanenza. Da questo punto di vista, sono molto vicino a Deleuze e Guattari – nonché a Spinoza: quando si progetta un piano di consistenza non si esce dal piano di immanenza. Detto altrimenti, il piano di consistenza, chiaramente, non è un piano di trascendenza. Tuttavia, in quel che Deleuze definisce l'empirismo trascendentale, in cui vi è del trascendentale nell'empirico, c'è qualcosa che, anche se appartiene al piano di immanenza, salta comunque su di un altro piano – il quale, però non è al di fuori del piano di immanenza. Allora, come è possibile che all'interno del piano di immanenza ci sia un altro piano, che non è di immanenza ma che comunque non si situa al di la del piano di immanenza? Questo è un problema molto complicato. Risponderei che bisogna appunto riprendere la questione del desiderio e che è necessario pensare l'oggetto del desiderio come una consistenza che non esiste – vale a dire un “infinito”, qualcosa cioè che sia capace di infinitizzarsi e che, pur appartenendo al piano di immanenza, dato che non esiste, ecceda il piano di immanenza. Penso che, ad ogni modo, Deleuze arrivi a dire qualcosa di simile, anche se il rapporto che intrattiene con Freud non è sufficientemente chiaro. In particolare, non è chiaro per ciò che riguarda la svolta freudiana del 1920, quando Freud incomincia a distinguere radicalmente il desiderio dalla pulsione, affermando che la distanza è ciò che oppone desiderio e pulsione. Infatti, il desiderio è sì fatto da pulsioni, ma da pulsioni deviate, e si progetta precisamente su di un altro piano.

Per rendere più preciso questo discorso, è necessario distinguere nel piano di immanenza delle sfoglie, una sfogliatura, o dei ripiegamenti. Meglio ancora, se si volesse conservare questa bella immagine del piano, bisognerebbe polarizzare il piano di immanenza tra un piano di sussistenza e un piano di consistenza. Tale proposta si inscrive all'interno della questione simondoniana: Simondon mostra infatti che l'individuazione psicosociale è polarizzata. Il suo commento sul suicidio di Eastmann e le sue argomentazioni riguardanti la tentazione (che bisognerebbe d'altronde mettere in relazione con le suggestioni di Nietzsche e di Deleuze sulla stupidità) , si iscrivono in questa dimensione tesa tra due poli, che Simondon definisce anche essere quella di una diade infinita, riprendendo maliziosamente la terminologia platonica.

In quest'ottica, bisogna prestare attenzione, parlando di piano di immanenza, a non cadere nella falsa alternativa tra dualismo e monismo (o sostanzialismo) che Simondon invece supera. In tal senso, il ricorso sicuramente necessario a Spinoza può farsi problematico quando, come accade spesso in Francia, ci si richiama a lui senza rileggerlo e ripensarlo con Freud, cioè coprendo ciò che in lui rimane profondamente classico e irretito in una problematica del XVII secolo.

L'immanenza rischia di diventare lo slogan opposto al dualismo e, alla fine, ricondurre proprio a quest'ultimo. Voglio dire che la sostanza con i suoi attributi che ispira tutto l'immanentismo e che proviene da Spinoza non permette di pensare la questione dell'ex-stasi del desiderio, ossia dello scarto che si dà tra due poli – scarto costituito dalla tecnicità del desiderio. Si vede chiaramente questo problema nel lavoro di Frédéric Lordon (in Capitalisme, désir et servitude). Ed è anche ciò che conduce a una neurofilosofia pericolosamente neurocentrica, come testimonia l'appropriazione di Spinoza condotta da Antonio Damasio.

P.V.: Il suo è un libro essenzialmente filosofico, i cui obiettivi risiedono nel motivare alla crescita del valore spirito e nella critica del populismo industriale. In particolare, lei mostra che il valore spirito può svilupparsi oggi all'interno di ambienti tecnologici associati come le reti digitali. Come interpreta invece il valore economico e finanziario di queste reti, si pensi ad esempio a Google, che minaccia in maniera quasi trascendentale lo spirito e il suo valore, attraverso lo sfruttamento messo in atto dall'algoritmo PageRank (per quel che concerne Google) e mediante ogni sorta di riterritorializzazione finanziaria della creatività, della gratuità e dell'open source, a profitto delle grandi imprese che mantengono evidentemente una pulsione monopolisitica?

B.S.: È davvero complicato rispondere alla sua domanda, che solleva questioni fondamentali e difficili. Si tratta di questioni centrali per Ars Industrialis, infatti siamo davvero molto impegnati su questi problemi e cerchiamo di avere un punto di vista critico nel senso kantiano del termine. Dalla mia prospettiva, quel che sta avvenendo con Google è nientemeno che una rivoluzione epistemica ''maggiore''. Dico precisamente ''epistemica'' perché ritengo che esista una ''épistéme Google'', e penso che sia necessario avere ben chiaro innanzitutto quel che è in gioco attraverso Google – cosa che è molto difficile. Penso a Google come a uno stadio del processo di grammatizzazione. A tal proposito, su Le Monde Diplomatique,circaun paio di mesi fa, è stato pubblicato un articolo di Frédéric Kaplan, riguardante il ''capitalismo linguistico'', che analizza molto bene la strategia di Google e come Google appartenga in effetti a un nuovo stadio del capitalismo, quello appunto del capitalismo linguistico. Per me, quel che lui chiama «capitalismo linguistico» è in realtà un nuovo stadio del processo di transindividuazione capitalistica, dal momento che ciò che è in gioco nella questione linguistica è il processo di transindividuazione, vale a dire la maniera di prodursi collettivamente come soggetti, che Simondon chiama «transindividuale di significazione», il modo cioè di metastabilizzare dei significati tra i diversi milieux associati o dissociati.

Ora, lei ha accennato proprio alla differenza tra milieux associati e milieux dissociati; personalmente, ritengo che il digitale in generale – non mi riferisco perciò solo a Google – sia ciò che rende possibile nuovi processi di individuazione collettiva all'interno di miliex associati, mentre i modelli analogici e consumisti del XX secolo non avevano prodotto altro che dissociazione. È per questo che molti pensatori, come Toni Negri e altri in Italia, danno molta importanza ai software liberi e all'open source. Ma, al tempo stesso, Google è chiaramente un dispositivo di canalizzazione e di captazione del valore, che si produce attraverso l'individuazione, e di deviazione di tale processo d'individuazione collettiva che, alla fine, conduce a nuovi processi di dis-individuazione. Da questo punto di vista, PageRank è emblematico, poiché consiste in definitiva a produrre dei processi fondati su calcoli statistici di audimat, sviluppando in qualche maniera l'audimat all'interno stesso della vita dello spirito – e dunque consiste nel distruggere questa vita dello spirito in modo ancor più devastante che in altre epoche, dal momento che, oggi, coloro che Negri e altri definirebbero ''lavoratori collettivi'' si trovano investiti da questo processo. Io, come lei sa, ho un approccio farmacologico, e ritengo perciò che parlando di Google vadano distinte innanzitutto due cose.

Da una parte, infatti, c'è quel che definisco l'invenzione tecnologica di Google, che possiamo pensare come l'invenzione tecnologica della macchina a vapore o del motore a scoppio: si tratta di invenzioni depositate, brevettate, e protette. L'invenzione tecnologica di Google perciò, per quanto sia segreta, ha trasformato radicalmente i processi di transindividuazione. Io mi servo quotidianamente di questa invenzione, utilizzo il pageranking due o tre ore al giorno ed è un'invenzione fondamentale: ha trasformato il mio modo di lavorare, ha accelerato enormemente la mia produttività e ha cambiato la mia maniera di pensare. Perciò, da questo punto di vista, ringrazio calorosamente Larry Page per aver inventato questo algoritmo; grazie ad esso posso fare cose che non avrei potuto fare dieci anni fa – per esempio Ars Industrialis – dato che tramite questo algoritmo posso consultare milioni di pagine molto velocemente e che la stessa Scuola di Filosofia di Epineuil è basata fondamentalmente sul pageranking.

Al tempo stesso – ecco allora la distinzione – sia chiaro, considero Google un'impresa capitalista e perciò tossica. Voglio dire che questo algoritmo è un pharmakon, che permette a Google di corto-circuitare i processi d'individuazione e di transindividuazione a suo guadagno. In particolare, si tratta di un dispositivo finalizzato a mettere a valore i siti che hanno intrapreso accordi commerciali con Google – ma questo lo sanno tutti – mentre l'aspetto per me più problematico riguarda il fatto che, come mostra l'articolo di Kaplan, dietro a questo c'è una ''politica delle parole'' e quindi una politica della transindividuazione che consiste in una trasformazione del transindividuale e delle condizioni stesse della transindividuazione. Tutto ciò è sicuramente molto problematico, ma direi che questo non è un problema di Google, semmai è un problema che riguarda la nostra incapacità a comprendere che cosa è in gioco con Google e a imporre a quest'ultimo delle alternative.

Per capirci, il mio approccio filosofico consiste nel dire che il problema non è mai la Coca-Cola, Henry Ford o nemmeno Adolf Hitler – certo non metto tutti sullo stesso piano, anche se in realtà penso Hitler a fianco di Ford, dato che Ford ammirava Hitler (per contro penso che Larry Page non ami per nulla Hitler). Comunque, rimanendo su questo tema, penso che il problema di Hitler, fondamentalmente, sia innanzitutto dovuto al fatto che i democratici in Germania, alla fine della prima decade del '900, non abbiano saputo analizzare e prevedere ciò che avrebbe condotto a Hitler. Allo stesso modo, se oggi Larry Page e Google possono sviluppare queste tecnologie, facendo praticamente tutto ciò che vogliono senza incontrare ostacoli, è perché noi non siamo capaci di pensare lo stadio della transindividuazione nell'epoca digitale. Non riusciamo a ricostruire un'autentica critica.

Ora, le anticipo che sarò un po' violento, d'altronde è l'argomento principale del mio nuovo libro, États de chocs, in cui riprendo la questione dello choc per criticare proprio ciò che, seguendo il termine americano, è stato definito il post-strutturalismo. Critico Deleuze, Derrida, Lyotard, ecc. precisamente perché ritengo che loro abbiano abbandonato la questione della critica, e penso che questo sia molto problematico. Oggi possiamo apprendere che la Francia, come l'Italia, è stata svalutata dalle agenzie di rating; d'altronde sono almeno sette anni che in Ars Industrialis diciamo che questo momento sarebbe arrivato e quindi per noi non si tratta di una sorpresa, anche se pensiamo che sia una catastrofe. Non solo, ma si tratta di una catastrofe caratterizzata dall'assenza totale di critica da parte degli intellettuali di tutto il mondo, in particolare dei francesi e, tra essi, dei post-strutturalisti. Sono proprio i post-strutturalisti ad aver messo in questione l'idea stessa di critica. In Ce qu'il fait que la vie vaut la peine d'être vecue ho trattato questo problema a proposito di Derrida. In particolare, quando Derrida parla dell'arma nucleare come «pharmakon assoluto», egli afferma che, con essa, il soggetto critico esplode – afferma cioè che non è la bomba ad esplodere, bensì il soggetto critico – ma questa per me non è altro che una retorica sofistica. Non credo assolutamente all'esplosione del soggetto critico. Credo, questo sì, all'esplosione del soggetto, nel senso del soggetto trascendentale, credo all'esplosione della padronanza, credo all'esplosione di tante cose, ma non all'esplosione della critica. Ritengo invece che noi stiamo per entrare nelle condizioni dell'autentica critica e ciò presuppone che la critica passi attraverso le ritenzioni terziarie – vale a dire attraverso il processo diacritico.

A ben vedere, oggi chi fa la critica è proprio Google, dato che le condizioni della critica sono sempre condizioni tecno-logiche, delle condizioni ritenzionali. In tal senso, la critica, che emerge in Grecia verso il settimo secolo a. C. come crinein e che viene in seguito pensata da Aristotele in un senso che funzionerà poi da fondamento della logica formale, presuppone la diacriticità della scrittura e questa diacriticità presuppone a sua volta che la critica della scrittura, in quanto critica tecnologica, abbia preceduto la critica filosofica. È su questo piano che possiamo incontrare l'autentica posta in gioco di Google. Perciò, in base alla situazione che ho descritto, non soltanto noi non riusciamo ancora a criticare Google, ma, al contrario, è Google che ci critica. Il problema allora non si risolve facendo di Google una specie di pharmakos, ossia di capro espiatorio per tutti i mali, bensì incominciando a pensare Google. È quello che ho provato a fare con la Scuola di Filosofia di Epineuil, in cui utilizzo molto Google, interrogandolo. Pongo cioè delle domande a Google come i Greci facevano con l'Oracolo di Delfi. La questione essenziale, però, è comprendere come fare di Google uno spazio critico e non solo un oggetto della critica. Dopodiché è evidente che sia necessario farne un oggetto di critica, ed è per questo che in Ce qu'il fait que la vie vaut la peine d'être vecue ho parlato di quel che definisco il «doppio raddoppiamento epocale», ossia il fatto che, per ogni emergere di una nuova tecnologia, vi sia dapprima uno choc tecnologico e dopo un contro choc. Questo contro choc è lo choc dello spirito, del pensiero. È necessario innanzitutto che lo choc tecnologico mi abbia reso stupido, come spiega molto bene Deleuze citando Nietzsche, perché successivamente la mia stupidità mi faccia pensare.

Quindi, ritornando a bomba, il problema di Google non è Google, quel che ci fa permanere nelle nostra stupidità è il fatto che non arriviamo ancora a pensare a partire da questa stessa stupidità. Non abbiamo cioè ancora fatto il lavoro necessario, che Deleuze aveva indicato. Ora, però, devo dire che con Deleuze e con il post-strutturalismo in generale, perfino con Derrida, ho un altro problema fondamentale e riguarda il fatto che il post-strutturalismo non arriva a pensare il senso economico e politico della ritenzione terziaria, vale a dire della Tecnica, perché la ritenzione terziaria è Tecnica, non è né un'architraccia, né un diagramma trascendentale, è puramente empirica. È brutalmente empirica, è bestialmente empirica, se si può dire.

Ritengo che Deleuze sia troppo bergsoniano, che Derrida sia ancora troppo husserliano e heideggeriano, che Lyotard sia troppo heideggeriano malgrado quel che abbia creduto, e perciò tutti questi autori non arrivano a pensare la bêtise del pharmakon come ciò che ci fa pensare e, al tempo stesso, come ciò che fa sì che il pharmakon si pensi. Dico questo perché nella mia prospettiva il pharmakon pensa, certo non pensa a sufficienza, o meglio non pensa intelligentemente, ma comunque pensa.

Se vuole, questo argomento rinvia indirettamente alla messa in questione dell'opposizione uomo/animale, anche se non vanno confuse, come non vanno confusi l'uomo e l'animale. È l'opposizione che deve essere contestata, anche se non credo esattamente che la macchina pensi, piuttosto ritengo che nella macchina ci sia del pensiero, che questo (impensato) pensi [ça pense], in altri termini, che del pensiero, a livello inconscio, passi attraverso la macchina. Utilizzo il ça come Es, nel senso tedesco di Groddeck e di Freud: il ça passa attraverso la macchina, attraverso gli artefatti, attraverso gli oggetti transizionali, attraverso i feticci – come diceva Freud nel 1905. A questo proposito, la scoperta del feticismo da parte di Freud è molto importante, ma non per le ragioni che Freud stesso gli attribuisce (l'oggetto parziale, la perversione, ecc.). L'importante è invece il feticcio in quanto tale, nella sua realtà, ossia l'oggetto. Ora, l'oggetto in quanto artefatto è un oggetto tecnico. In questo senso penso che non riusciamo a pensare Google, poiché Google è più di un oggetto, è un'enorme macchina, anzi, non è semplicemente o solo una macchina, è centinaia di milioni di macchine connesse le une alle altre grazie ad un algoritmo.

Vorrei dire ancora una cosa per rispondere alla sua domanda. Lei ha parlato di riterritorializzazione per descrivere l'attività delle imprese capitaliste, intendendo con questo termine una ricaptazione. Ora, allo stesso tempo, bisogna pensare la riterritorializzazione – con Deleuze e Guattari – anche in un altro senso. Penso che oggi ci sia un altro processo di riterritorializzazione che debba avere il valore di un processo di ri-politicizzazione – questo attualmente è fondamentale. In particolare, bisogna assolutamente incominciare a pensarlo per il territorio europeo. È necessario cioè che venga ripensato il territorio europeo, e questo significa che si intraprendano nuovi processi di territorializzazione, dato che l'Europa, a ben vedere, non esiste, è una finzione. Tali processi devono attraversare tutte le regioni e le morfologie geografiche, compresi i villaggi e i piccoli paesi come quello in cui abito, e per fare ciò è necessario sviluppare ulteriormente le reti del – e sul – territorio. Con questo voglio dire che oggi è necessario ripensare una politica pubblica delle ritenzioni terziarie per poter riuscire a fare di Google qualche cosa di davvero interessante. Per esempio, bisogna costruire una politica dell'insegnamento. Nel mio ultimo libro, in cui parlo della farmacologia dell'università, lancio un appello internazionale alle università affinché si impadroniscano delle tecnologie digitali nel senso spirituale – come lo intendiamo noi accademici. Ciò presuppone che si ricostituiscano nuove potenze pubbliche, che esistano delle politiche pubbliche e anche delle nuove modalità di ricerca, che non siano finalizzate a lottare contro Google, ma contro altri oggetti che nemmeno Google ha saputo investigare. Oggi è necessario utilizzare PageRanke, ma bisogna sviluppare altri dispositivi a partire dal pageranking, che vadano a complicare, a modificare e a dialetizzare lo stesso PageRank. Quando dico ''dialettizzare'' non voglio riferirmi alla dialettica hegeliana (a cui non credo), ma intendo ''dialogizzare'' e, in tal senso, riprendo la dialettica nel senso di Socrate proprio all'inizio della storia della filosofia – che, perciò, non è assolutamente né il senso che dà Platone alla dialettica nella Repubblica, né quello offerto da Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Per saper dialettizzare PageRank è però necessario ripensare l'economia politica, bisogna perciò ripensare i processi di proletarizzazione e di deproletarizzazione che il pharmakon rende possibili. Ora, per giungere alla deproletarizzazione attraverso il pharmakon digitale – pharmakon che, per esempio, Google mette all'opera – bisogna evidentemente essere capaci di criticare la proletarizzazione e di adottare delle politiche di lotta contro di essa che sappiano rovesciarla.

P.V.: Reincantare il mondo e La télécratie contre la démocratie sono due libri molto attuali per ciò che riguarda la sfera televisiva e i suoi rapporti con la politica, e questo vale in particolar modo per il caso italiano perché la telecrazia è un fenomeno che non rinvia solo a Berlusconi e al berlusconismo, ma descrive un rapporto asimmetrico tra i cittadini e i politici all'interno di un milieu tecnico dissociato, di un ambiente cioè dove non si dà partecipazione tra i diversi soggetti. Oggi, in Italia, Berlusconi non è più al governo ma si può riscontrare telecrazia praticamente ovunque, anche su Internet, poiché nelle misure prese per affrontare la crisi economica attuale non è prevista in alcun modo una reale partecipazione tra i soggetti sociali. Come possiamo uscire da questa impasse, se la crisi, come lei ha affermato, è innanzitutto la crisi del desiderio?

B.S.: Il desiderio è stato liquidato, e questo è un grande problema, in particolare, della società Occidentale. C'è sempre meno desiderio, mentre ci sono sempre più pulsioni. Questa è la crisi del desiderio. Ora, perché vi sia del desiderio, è necessario ricostruire dei lunghi circuiti di transindividuazione. Ciò significa che bisogna ricostruire proprio dei piani di consistenza, e per farlo si rende necessario sviluppare dei concatenamenti tecnologici. Il desiderio, infatti, non si costruisce da sé, necessita dei concatenamenti tecnologici che vanno dagli oggetti transizionali di Winnicott all'interfaccia di Google, passando per moltissime altre cose. L'aspetto riguardante l'invenzione dei processi di trasformazione delle pulsioni in desiderio è ciò che definisco una «organologia del desiderio». Affinché questa organologia possa svilupparsi, l'intera comunità accademica, quella scientifica, e d'altronde anche quella economica, devono inventare un ri-armamento del desiderio, attraverso nuove politiche di strumentazione del desiderio stesso, nonché nuove politiche di socializzazione di questi strumenti.

In cosa consiste quindi questo ri-armamento del desiderio? Forse dirò una cosa esagerata, poiché per me consiste nel rifondare totalmente il progetto universitario e ciò presuppone di ripensare gli oggetti stessi della ricerca accademica, ripensarli nel loro rapporto con queste ritenzioni terziarie, cioè con questi pharmaka. Perché dico questo? Credo che, l'Università di Bologna, da quando è stata fondata circa mille anni fa, abbia messo all'opera una «macchina desiderante» molto articolata. Uso il termine di Deleuze, questa volta, per dar forza al mio discorso e perché la storia dell'università di Bologna è molto complessa, dato che è stata fondata nell'XI secolo e nel XII il suo statuto è cambiato all'interno di un rapporto molto complicato tra il potere teologico e il potere secolare, cioè il potere politico dell'Impero, dunque all'interno di una relazione decisamente conflittuale tra il Papa e l'Imperatore. Proprio all'interno di questa relazione conflittuale l'Università guadagna la propria autonomia. E si tratta di una grande autonomia. All'interno di questa autonomia, l'università sviluppa un processo molto ambiguo, che porterà a Tommaso d'Acquino e a tutta la filosofia medievale – che è davvero molto interessante – e che condurrà, alla fine, al Rinascimento. Questo processo passa dunque per un concatenamento (come direbbero Deleuze e Guattari) tra l'Università di Bologna come dispositivo e le ritenzioni terziarie come la scrittura e la stampa.

Ho fatto questa piccola digressione perché penso che i processi di costruzione degli oggetti del desiderio, ossia della proiezione del piano di consistenza – perché è di questo che si tratta – passino ogni volta per la produzione delle idealità, che sono sempre delle linee di fuga e degli oggetti di identificazione. A ben vedere, questi oggetti di identificazione non producono l'Uno, non producono unità, come spesso si crede, non producono cioè identità. I processi di identificazione producono invece, essenzialmente, dei multipli, delle molteplicità. È chiaro che io stia impiegando la parola identificazione in senso freudiano. Penso perciò che l'Università serva a produrre dei piani di consistenza a partire dai processi di identificazione che generano molteplicità o, detto altrimenti, delle singolarità.

Non oppongo l'universale del pensiero classico alla singolarità, penso piuttosto che siano due cose che si articolino. Non si tratta della stessa cosa, ma universale e singolarità non sono in opposizione. D'altro canto, se si pensa l'universale a partire dall'Uno, allora sì, si ha opposizione. È quello che fa Platone nella Repubblica: egli oppone l'universale alla singolarità, nel senso che oppone il sincronico al diacronico. Oggi però ritengo che stiamo vivendo una rivoluzione per ciò che concerne le ritenzioni terziarie, un'enorme rivoluzione che presuppone un cambiamento dell'impiego stesso di quel che si è prodotto tramite la skholé dei Greci, tramite l'emergere dell'Università nell'XI secolo in Italia, nonché attraverso il Rinascimento e la Repubblica delle Lettere in età moderna. Ebbene, noi oggi viviamo qualcosa di quelle dimensioni e se vogliamo ri-armare il desiderio, dobbiamo innanzitutto pensare questo tipo di rivoluzione, ma bisogna farlo in un contesto che non esisteva assolutamente né all'epoca dei Greci, né a quella dell'Università di Bologna e neanche nel periodo del Rinascimento. Si tratta invece del contesto relativo all'industria capitalista e alla tecnologia industriale. Con questo voglio dire che nella nostra società non c'è più opposizione tra otium e negotium, come esisteva ancora ai tempi di Lutero, per intenderci. In altre parole, il sapere è diventato la principale arma economica. Da questo punto di vista, il rapporto dell'Università con il suo ''fuori'', in particolare con il mondo economico, è profondamente cambiato. Credo che oggi l'università abbia i mezzi per negoziare il proprio rapporto nei confronti del mondo economico, su di un registro assolutamente nuovo, per riaffermare il mondo politico – a condizione però che riesca a prendere la misura di ciò che è in gioco con le ritenzioni terziarie. A ben vedere, allora, la condizione di questo nuovo ruolo dell'università sta nel fatto che essa debba fare una sorta di autocritica radicale, e che riprenda integralmente in conto la questione relativa all'economia politica.

Dato che lei ha parlato della telecrazia presente anche su Internet, vorrei aggiungere che se si vuole lottare contro la telecrazia all'interno di Internet, bisogna essere in grado di fare una farmacologia positiva di Internet. È certamente necessario fare una farmacologia negativa, nel senso che bisogna mostrare tutti gli aspetti telecratici presenti su Internet. A tal proposito, con Ars Industrialis abbiamo incominciato a farlo, a differenza di Lévy e di de Kerckhove, come lei ha detto [nella conversazione che ha preceduto questa intervista], e io penso esattamente come lei: ritengo infatti che questi autori siano molto pericolosi, con la loro fiducia assoluta nella tecnologia. Il problema è che non si tratta soltanto di una questione di tecnologia, bensì della questione relativa al concatenamento tra tecnologia, società e capitale, ed è per questo che noi riteniamo che sia necessario fare dapprima una farmacologia negativa, nel senso che si devono fare delle analisi critiche di tutto quello che vi è di tossico in questi processi. Ma, come ho detto, bisogna fare anche una farmacologia positiva, nel senso che dobbiamo impadronirci delle ritenzioni terziarie per giungere ad una nuova età del sapere, perfino ad una nuova età dell'arte. Lei sa che Deleuze parlava di un'arte del controllo. In particolare, diceva che nella società del controllo era necessario ripensare l'arte come, o a partire da, l'arte del controllo. È questo che più mi interessa in Deleuze, e penso che sia necessario farlo in tutti i domini. D'altronde, a ben vedere, non si tratta più di una questione relativa alle società di controllo, perché abbiamo oltrepassato questo genere di società, per giungere a qualcosa che non riesco ancora bene a qualificare. Credo comunque che sia possibile riarmare il desiderio, ma a condizione di ripensare la natura stessa del desiderio e, poi, bisogna pensare l'economia industriale del futuro, perché c'è tutta una nuova economia industriale da organizzare.

P.V.: Negli ultimi anni lei, assieme ad Ars Industrialis, è passato dall'analisi della proletarizzazione alla proposta, o alla strategia, della deproletarizzazione. Potrebbe spiegare questa nozione di deproletarizzazione? In particolare, come può realizzarsi di fronte al controllo digitale della creatività e della produzione di saperi?

B.S.: La questione che lei mi pone è in realtà il seguito della precedente. Allora, che cos'è per me la proletarizzazione? A mio avviso, il primo pensatore del proletariato è Platone, e in questo senso per me la proletarizzazione è quel che avviene quando un pharmakon cortocircuita il desiderio di un individuo. Per comprendere questo aspetto della proletarizzazione possiamo prendere come esempio la famosa scena del Menone, quando Platone dice che pensare è pensare per se stessi, e che geometrizzare è geometrizzare se stessi: lo schiavo di Menone deve ripercorrere tutto il percorso del ragionamento geometrico e deve farlo da solo, nessuno può farlo al suo posto. È d'altronde quel che vuol dire Kant, quando in Che cos'è l'illuminismo? afferma che non devo servirmi delle analisi che permetterebbero di pensare al mio posto – e sono certo che Kant, parlando di analisi, si riferisse ai suoi libri, poiché considerava che molti suoi contemporanei finivano a leggere i suoi libri per evitare di pensare. Questa, in sostanza, è la proletarizzazione: evitare di pensare, essere tagliati fuori dalla possibilità di pensare. Al contrario, leggere un libro dovrebbe condurre me stesso a scrivere un altro libro, poiché dovrebbe modificare la mia maniera di agire, la mia potenza di agire – per parlare come Spinoza – e, in questo senso, la mia azione sul mondo diviene scrivere il mondo. Penso che sia proprio così che Deleuze (e Platone, d'altronde) pensasse le cose.

Ora, a partire dalla fine del XVIII secolo, la proletarizzazione si trasforma, diviene proletarizzazione dei corpi e dei gesti, e perciò ad essere proletarizzata non è più la vita dello spirito, ma è la vita del corpo. Arriviamo quindi al proletariato nel senso che ha dato Marx. Nel XX secolo poi, la proletarizzazione diviene la proletarizzazione del saper-fare e dei consumatori, ossia di coloro che non sanno più assolutamente come comportarsi, al di fuori delle prescrizioni del marketing e della pubblicità. Vale a dire, come ha scritto il filosofo francese Gilles Châtelet, che i consumatori vivono come dei porci, si comportano come dei porci – e questa è l'epoca di Berlusconi, ma è anche l'epoca di Sarkozy in Francia.

Che cos'è quella che io definisco deproletarizzazione? In sostanza, la deproletarizzazione è ciò che è incominciato ad emergere ormai da quasi trent'anni, attraverso quegli utenti delle tecnologie che si sono impossessati della farmacologia positiva per inventare nuovi modi di produzione di sapere. Penso che questo processo si possa generalizzare. Evidentemente, lei a ragione sottolinea – sono completamente d'accordo – che oggi le grandi imprese capitaliste utilizzano questi stessi processi per ricaptare la creatività – quella che io chiamo neghentropia – e, in fin dei conti, attraverso il controllo digitale, per ricanalizzare le cose. Per questo motivo penso che la deproletarizzazione sia un tentativo che non arresti la produzione del capitalismo, ma che abbia comunque enormi possibilità, non di resistenza contro il capitalismo perché non credo alla resistenza, bensì di invenzione di nuove risposte. Inventare nuove risposte, non per resistere ma per spostare le questioni e i problemi su di un altro piano. Tali invenzioni devono perciò essere delle invenzioni politiche e non soltanto economiche. Certo, sono anche invenzioni economiche e sono anche invenzioni tecno-logiche. Per esempio, credo che se si vuole lottare contro il modello del pageranking – sono d'altronde parecchi anni che cerco di riflettere su tale questione – sia necessario inventare nuovi motori di ricerca, che si basino sul tagging degli internauti e degli utenti creatori di contributi. Nell'Istituto di Ricerca e di Innovazione in cui lavoro a Parigi, stiamo sviluppando delle tecnologie di tagging e di annotazione che permettano di creare delle comunità critiche di utilizzazione di queste tecnologie digitali, per riarmare la critica e per inventare nuovi modelli critici, nuove questioni critiche, nuove forme di sapere e nuove forme di condivisione di questi saperi. Cerchiamo di sviluppare tutto ciò al fine di ricostituire i ruoli di coloro che definisco amatori e contributori, e quindi, in sostanza, per deproletarizzare.

Se quindi si vuole portare avanti la deproletarizzazione, non ci si può accontentare di servirsi di quel che fanno Google o Facebook, bisogna inventare dei processi e con queste invenzioni bisogna creare una specie di economia socialista, che non miri cioè semplicemente ad aumentare il plus-valore degli azionisti, i quali investirebbero in tali invenzioni. È proprio tale aspetto a rendere pericolose le grandi aziende di oggi come Facebook, Google e molte altre, in cui sono gli azionisti a dettar legge, perché questi ultimi, con le loro azioni finanziarie, non vogliono fare altro che guadagnare soldi e perciò non si preoccupano minimamente di sviluppare l'intelligenza collettiva; il loro unico cruccio è guadagnare, e l'effetto collaterale di questa tendenza è l'aumento della stupidità, persino della loro, perché più girano soldi e meno la gente comprende cosa stia accadendo. Questo è un problema di politica della proletarizzazione molto importante, ma non si tratta di una fatalità, si può lottare contro tutto ciò. Il fatto che si possa lottare presuppone però la reinvenzione di una potenza pubblica.

Da questo punto di vista il mio atteggiamento è critico non solo nei confronti del post-strutturalismo, ma anche verso il seguito di questa prospettiva filosofica. Per esempio, ritengo che, in Italia, Toni Negri abbia forse accentuato un po' troppo la critica foucaultiana (ma non solo) dello Stato e della potenza pubblica. Certo, bisogna fare questo tipo di critica, anche io sono molto critico nei confronti delle forme statuali, ma a condizione, lo ripeto, di inventare nuove forme di potenza pubblica. Perché altrimenti, se si ritiene che le questioni giuridiche riguardino solo l'Impero, si rischia di abbandonare ogni reale alternativa a livello macropolitico; se cioè si pensa che si possa solo agire a livello micropolitico di fronte all'Impero, non si è più capaci di lottare, per esempio, contro le agenzie di rating. Credo invece che la macropolitica possa sempre essere in gioco, d'altronde lo affermavano anche Deleuze e Guattari, quando dicevano che non bisogna mai sacrificare la macropolitica sull'altare della micropolitica, ed è quello che oggi dobbiamo pensare con maggior vigore. Ma, per pensarlo, bisogna avere una politica industriale. I grandi pensieri del XIX e del XVIII secolo si sono fatti portatori delle giganti innovazioni della tecnica e della scienza: Diderot è stato un contributore fondamentale della rivoluzione francese; Marx è innanzitutto un pensatore della grande industria e della tecnica della grande industria; anche Nietzsche è un pensatore della tecnica, così come Freud, Heidegger, ecc. Bisogna perciò riarticolare tutti questi grandi pensatori nel contesto di quella che definisco la società iperindustriale, nel contesto quindi della ritenzione terziaria digitale e industriale.

Per concludere, si tratta di ciò che, nel mio ultimo libro, definisco i «digital studies» (non digital humanities, ben inteso), e cioè come rifondare l'épistéme sulle questioni che pone il digitale, in tutti i domini: in fisica, in biologia, in psicologia, in sociologia, in economia, nelle scienze politiche e, naturalmente, in filosofia.



* Questa intervista, avvenuta in videoconferenza il 15 gennaio 2012, ha l'obiettivo di valere come una sorta di aggiornamento dei concetti e di approfondimento delle tematiche sviluppati in Reincantare il mondo, testo che in Francia è stato pubblicato nel 2006. Pertanto, risulta sicuramente più facile comprendere la terminologia utilizzata da Stiegler in questa intervista avendo già letto Reincantare il mondo.