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Cronache di ordinaria psicosi

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Articolo di Guglielmo Borsiere su paura e violenza razzista ai tempi del virus

Durante l’inverno più caldo che si sia mai registrato, è un sabato sera stranamente freddo quello bolognese. La città della movida universitaria appare svuotata. I locali sono chiusi e quelli aperti non fanno consumare all’interno. Le vie del divertentismo, che di solito ospitano chiassose mandrie di giovani in cerca di improbabili avventure alcoliche, rimangono quiete e silenziose. Certo il panorama non è ancora apocalittico. Svariati gruppetti di superstiti attraversano le strade del centro incerti sul da farsi, migrando da un bar all’altro nel tentativo di dare un senso a questo clima rarefatto. La socialità ai tempi del coronavirus.

Intorno alle 2 di notte sto tornando verso casa. Il telefono scarico mi impedisce di ascoltare la musica, così testa bassa e passo svelto mi dirigo solitario verso l’agognato letto. All’incrocio tra via Guerrazzi e via Santo Stefano inizio a sentire delle urla poco distanti e appena svoltato l’angolo noto una situazione alquanto confusa. Di fronte alla fermata un autobus sosta col motore accesso e le porte aperte, tutt’intorno un gruppo di ragazzini molto giovani – probabilmente minorenni – è preso in un disordinato parapiglia di urla e spintoni. Mi avvicino. Inizialmente fatico a capire quanto sta succedendo, i ragazzini sono molto agitati, uno di questi ha il volto leggermente segnato. Nel mentre l’autista è sceso e, affiancato dal balordo di turno, insulta e minaccia uno dei gruppi coinvolti. Mi accorgo ben presto che questo gruppo è composto da alcuni ragazzi di origine filippina. L’altro gruppetto è invece composto da italiani e ascoltando meglio alcune urla di scherno comincio a inquadrare meglio la situazione: «fate schifo!», «è colpa vostra se in Italia c’è il coronavirus!». Chi però sembra avere avuto la peggio durante la colluttazione è proprio il gruppo degli italiani, uno di questi, con lo zigomo tumefatto, strilla insulti come un disperato. Nel timbro della sua voce si percepisce tutta la frustrazione dell’orgoglio maschile ferito. Affianco una ragazza appena scesa dall’autobus e chiedo delucidazioni: semplice, durante il tragitto alcuni ragazzini italiani hanno iniziato prima a canzonare poi ad insultare i ragazzi filippini, questi hanno reagito in maniera decisa e sono volati spintoni e qualche cazzotto. Il fatto in sé non è nulla di eclatante, una scaramuccia fra ragazzini ubriachi. Indicativo però l’argomento dello scherno: ovviamente il coronavirus. In tutto ciò l’intervento della forza pubblica non si fa attendere. All’arrivo della prima volante il solerte autista non ha dubbi nell’indicare agli agenti uno dei ragazzi filippini, mentre fra i due gruppi continuano gli insulti e le provocazioni. Sopraggiunge un’altra volante, poi una terza, una quarta ed altre ancora. La tensione è già abbastanza alta e il comportamento degli agenti non contribuisce ad abbassarla. I poliziotti non degnano di uno sguardo il gruppetto nostrano, per buttarsi con foga sul ragazzo indicato dall’autista e dai membri dell’altro gruppo. Il giovane viene dunque spinto in malo modo verso un’automobile e gli viene intimato di poggiare le mani sul tettuccio. La successiva reazione non è forse la più sicura, non saprei dire se per lo stato di agitazione o per la mancanza di esperienza nel riconoscere la potenziale gravità di simili situazioni, fatto sta che il ragazzino si mostra reticente, muove le mani e non resta immobile come richiestogli. D’altro canto, la situazione è decisamente sotto controllo per la Polizia, le volanti, ormai una decina, ingombrano la strada e gli agenti presidiano tutta l’area circostante. Ciononostante, il nervosismo è palpabile e il poliziotto, a dir poco corpulento, che sorveglia il ragazzino lo dimostra: tutto d’un tratto lo afferra da dietro cingendogli il collo con un braccio, e assestandogli allo stesso momento un violento calcio alle gambe lo sbilancia all’indietro. Il giovane cade di schiena sul ciottolato. Il tonfo sordo della caduta viene accolto con un moto di preoccupazione da me e altri passanti. Ci facciamo più vicini ed il nostro crescente chiacchiericcio diventa man mano una richiesta di spiegazioni. Di questi tempi, vedere un ragazzino venire violentemente sbattuto a terra da un agente grosso il doppio di lui, pare una situazione necessariamente da monitorare. Inutile dire che i tutori dell’ordine non la prendono bene e iniziano a rivolgere a noi le loro cortesi attenzioni. Uno di questi mi si avvicina minacciosamente, altri colleghi lo seguono a poca distanza. Mentre mi accerchiano alcuni hanno il manganello in mano. Arrivato a pochi centimetri dal mio viso questo inizia a sibilare frasi del tipo: «ma tu chi cazzo sei? Che cazzo vuoi? Che cazzo hai visto?». Avverto la situazione di pericolo. Il tono è aggressivo, gli altri agenti anche. Rimango tranquillo, rispondo in maniera cortese ma ferma. Cerco di non fornire pretesti di alcun tipo, ma ribadisco chiaramente di aver visto un giovane ragazzo venire sbattuto per terra da un agente molto più pesante in una situazione dove i poliziotti erano già oltre una quindicina. Da questo momento ci marcano stretto. Ci intimano di stare in silenzio se parliamo fra noi. Io e gli altri presenti avvertiamo di essere una presenza scomoda. L’arrivo in seconda istanza di altri agenti in borghese ce ne dà la certezza: «diteci un po’ cosa avete visto, cosa è successo? Avete intenzione di farci dei problemi per questa storia?». Frasi eloquenti. Coda di paglia e gambe che tremano.Nel frattempo, all’altro capo del palcoscenico, l’inquietante siparietto prosegue. Alcuni poliziotti si avvicinano al ragazzetto italiano più agitato e gli consigliano di chiamare l’ambulanza per farsi refertare e sporgere denuncia. Questo non se lo fa ripetere ed ecco che in breve tempo vediamo comparire un’ambulanza, che forse, coi tempi che corrono, sarebbe potuta restare a disposizione per altre situazioni più pregnanti, piuttosto che per offrire soccorso ad una piccola spia con lo zigomo graffiato. Così il giovane filippino viene caricato di peso su una volante e viene portato via. Il ragazzino italiano se ne va invece in ambulanza. Gli altri presenti, molti un po’ turbati, lentamente si diradano. Via Santo Stefano torna vuota e silenziosa a rendersi emblema di una città in sospensione tra l’emergenza sanitaria e la sua gestione militare. 

I ragionamenti che si possono avviare a partire da questa breve testimonianza sono diversi e numerosi, qui si proverà a gettare solo qualche spunto per non oscurare l’importanza dell’episodio in sé. In primo luogo, va sottolineato come situazioni come queste siano figlie della vera epidemia che sta imperversando nella società italiana: quella mediatica. Il sovraccarico di informazioni spesso contraddittorie sta provocando in prima istanza le situazioni di ansia e psicosi, che le misure dello stato d’emergenza vorrebbero arginare. Il “discorso” coronavirus attecchisce meravigliosamente nell’ambiente sociale italiano. Conferma le paure e le insicurezze che caratterizzano la vita quotidiana delle persone comuni, da anni sempre più esposte ai processi di impoverimento e alle misure di macelleria sociale invocate in nome della stabilità economica. Siamo deboli e vulnerabili. Si inserisce perfettamente entro le gerarchie razziali che informano la struttura sociale, diventando una perfetta valvola di sfogo orizzontale per tutte le tensioni di una vita di frustrazione esacerbata dal panico indotto da settimane di martellamento mediatico. Siete voi, è colpa vostra. In tutto questo ricorre, in maniera pressoché costante, il nauseabondo ritornello della responsabilità individuale. Che ognuno resti chiuso in casa, dice chi vive in un attico di 150 mq. Che ognuno faccia la sua parte, dice chi ha operato tagli per decine di miliardi alla sanità pubblica. Gli sguardi di odio e diffidenza devono puntare verso il proprio vicino, piuttosto che verso il proprio carnefice. Altro discorso riguarda la gestione militare dell’emergenza. In questi giorni, la consistenza e la diffusione di presidi delle forze dell’ordine è chiara e visibile. Secondo decreto i cittadini in movimento nelle zone rosse sono tenuti a fornire “motivazioni convincenti” per giustificare i loro spostamenti. Non si vuole qui fare complottismo spicciolo o dare adito a dietrologie paranoidi, ma sembra opportuno sottolineare come le nuove misure coercitive e i loro paradigmi di applicazione agiscano sempre in direzione top-down. Fondamentale controllare chi si sposta per fare la spesa, ma guai a requisire le strumentazioni necessarie agli istituti di sanità privata. Come è ovvio il profitto non è mai in discussione e i sacrifici si richiedono a tutti coloro che stanno sotto. A tutti coloro che in questi anni continuano a pagare i veri costi delle crisi economiche, ambientali o sanitarie che siano. Così se le carceri esplodono perché giustamente i detenuti non vogliono fare la fine dei topi in trappola si risponde col pugno duro. Se le cliniche private si rifiutano di mettere a disposizione della popolazione i propri macchinari si abbozza. La violenza dello stato di emergenza ha un indirizzo ben preciso ed i destinatari sono loro. Sono gli ultimi sciagurati che vivono paralizzati dalla paura, coloro che vanno a lavorare per una miseria esponendosi al contagio, coloro che vengono discriminati in base alla linea del colore. In confronto il coronavirus è un paladino della democrazia.