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Nei tribunali di Amburgo vive ancora lo spirito di Joseph K, parola di madre

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Recensione di Nicola Carella a Vietato parteciparedi Jamila Baroni

«No,» disse il sacerdote, «ma temo che finirà male. Sei ritenuto colpevole. Forse il tuo processo non andrà neppure oltre un tribunale di grado inferiore. Almeno per il momento, la tua colpevolezza si dà per dimostrata.» «Ma io non sono colpevole,» disse K., «è un errore. E poi, in generale, come può un uomo essere colpevole? E qui siamo pure tutti uomini, gli uni quanto gli altri.» «È giusto» disse il sacerdote, «ma è proprio così che parlano i colpevoli.» 

(F. Kafka – Il Processo)

Nel recensire Vietato partecipare confesso di aver dovuto innanzitutto superare una difficoltà. La vicenda raccontata nel libro, meritoriamente editato da Agenzia X nel 2019, mi ha infatti molto coinvolto sul piano personale. Per questo facevo fatica a stabilire una distanza emotiva di sicurezza dai fatti raccontati. Per “distanza emotiva di sicurezza” intendo quella necessaria a dare un giudizio il più possibile oggettivo e preciso su un libro su una vicenda personale come quella piombata sulle giovani spalle di Fabio Vettorel, da Feltre, arrestato senza prove durante il G20 di Amburgo del luglio 2017; diciottenne rimasto ingiustamente in carcere per oltre centoquaranta giorni. Il distacco emotivo è indispensabile poi per generalizzare la vicenda e anche per rompere, ex-post e di nuovo, l'isolamento del carcere e della repressione. Ho finalmente superato ogni tentennamento ispirandomi proprio allo sforzo, enormemente più gravoso, sostenuto da Jamila Baroni, l'autrice e madre del protagonista.

Jamila compie un lucido sforzo di astrazione per tutte le 258 pagine del libro. Questo straordinario esercizio emotivo è la prima evidente peculiarità dell'opera. Vietato partecipare così rimanda al “Nuovo Giornalismo”, quella corrente letteraria che negli anni '60 ridefinì il “romanzo – verità”. Come nelle opere di Rom Wolfe e Truman Capote, infatti, nel romanzo di Jamila, il lettore viene accompagnato nei luoghi dei fatti, come se li vedesse da dietro una telecamera. Il racconto così non è, o non solo, una denuncia ma soprattutto un romanzo politico. Romanzo con sguardo “clinico” sui diversi dispositivi di criminalizzazione del dissenso, come meritoriamente sottolinea Cristian Raimo nella prefazione. Non si sceglie mai la scorciatoia di un pathos autoreferenziale, anzi. L'autrice governa sapientemente tutti i diversi piani narrativi: cronaca giudiziaria, diario personale, vademecum legale, a volte persino guida turistica di Amburgo o lucida analisi del sistema repressivo e politico tedesco. E, sorprendentemente, non sacrifica mai la densità emotiva che la prima persona narrante richiede.

Uno scritto così organico da offrire un'immediatezza politica anche nei riferimenti letterari più o meno espliciti (Murakami, Sepulveda e Camus per esempio). La qualità letteraria è infatti proprio nella manichea rappresentazione dalla vicenda che, pagina dopo pagina, fa emergere una raffinata e caustica ironia. Così si rende grottesco il potere, che siano poliziotti o giudici. È più o meno l'ironia anti autoritaria di cui parlava Foster Wallace quando ragionava sul Kafka del “Processo”: “La comicità di Kafka dipende da una sorta di letterarizzazione radicale di verità solitamente trattate come metafore”. Anche quando attraversata da sentimenti angosciati e rabbiosi, la prosa della madre dell'imputato è segnata proprio dall'“ironia che nasce dal tragico” kafkiana; quella che si nutre dei dettagli minuziosi delle contraddizioni e delle ambiguità di un potere via via sempre meno divino e sempre più simile alla “scimmia umanizzata” di cui parlava l'autore praghese. 

La resa è poi talmente archetipica, che si potrebbe persino dubitare che non ci siano elementi romanzati. Posso però personalmente garantire che è tutto vero, tutto reale, anche, e soprattutto, negli aspetti più surreali. Nel leggere la cronaca del “Processo” al giovane Fabio Vettorel – Joseph K., torna così alla mente György Lukács, quando sul Kafka del “Castello”, ammetteva: “Ho sempre sostenuto che Kafka fosse uno scrittore astratto e piccolo borghese. Ora ho capito che è un grande scrittore realista”.

Un’altra scelta stilistica e immediatamente politica, è la forma narrativa del diario. Il lettore così segue l'alternarsi straziante di speranze, paure, sorprese e delusioni, condividendo la rabbia, il senso di ingiustizia e l'odio verso un potere sadico e incomprensibile. E se condivisa è l'angoscia per ciò che non si conosce, c'è anche tra le righe del romanzo la condivisione delle strategie, delle riflessioni, delle tattiche di resistenza alla repressione. 

A interrompere il racconto del diario, con crudele detournament letterario, vengono anche riportate, in linguaggio da “fredda burocrazia” teutonica, le decisioni del “potere” giudiziario, i fatti. Si ancora così il punto di vista soggettivo ad una solida oggettività di cronaca.

Jamila, per ragioni pratiche, ha deciso di omettere ogni riferimento a nomi e cognomi non “giornalisticamente” necessari. Questa premura è necessaria per tutelare le persone coprotagoniste di una vicenda giudiziaria ancora aperta. Questo però semplifica la ricostruzione.

E, sempre osservando l'opera letteraria, lo stile asciutto con cui la madre dell'imputato scrive ci offre delle significative ridondanze di vocabolario. Come fa notare sempre Raimo, sette volte si usa la parola “paura” e dieci volte la parola “rabbia”, cinque volte ritorna la parola “affetto” e mai la parola “amore”. Da qui è evidente la cifra mai inutilmente retorica, al contempo intima e distaccata, del testo.

“Wir sind Zecken, Asoziale Zecken, Wirschlafen unter Bruecken, Oder in der Bahnmission”

“Noi siamo zecche, zecche antisociali, noi dormiamo sotto i ponti o alla missione della Stazione”

(Inno dei tifosi del St. Pauli, autonomi, punk dei quartieri di Amburgo zona Rossa durante il G20) 

Fin qui si è giudicato letterariamente Vietato partecipare. Dobbiamo ora segnalare alcuni temi di merito che il libro pone; per farlo però è qui necessario sintetizzare i fatti in questione. 

Il racconto inizia dai primi giorni del luglio 2017, quando ad Amburgo il programmato G20 fallì rovinosamente per le proteste di piazza. Ma della fallimentare gestione dell'Ordine Pubblico, dopo una lunga catena di “eseguivamo solo gli ordini”, si dette responsabilità ad un numero esiguo di manifestanti, spesso stranieri, veri e propri capri espiatori. L'SPD al potere in città decise fossero loro, “turisti del riot”, quelli cui far pagare la figuraccia fatta di fronte al mondo. A questa rappresaglia rabbiosa collaborò sin da subito l'intera catena di comando di tutti i poteri della Repubblica Federale Tedesca. E, tra i capri espiatori scelti, sei  erano italiani. Tra loro, unico a non essere rilasciato entro qualche settimana, fu un ragazzo di appena 18 anni: Fabio Vettorel. Da lì la sua vicenda è via via diventata la più incredibile. Senza considerare la sua giovane età, a Fabio si applicò senza ragione alcuna la custodia per i maggiorenni. Venne accusato fondamentalmente di essersi trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato, e non di altro ma per lui poteva essere sospesa ogni forma di garanzia del diritto. La colpa di Fabio? Essere stato arrestato in contiguità di un corteo del blocco nero. Sfortunatamente per i suoi aguzzini, Fabio oltre ad essere un giovane di indole particolarmente pacifica, nel corso del calvario giudiziario che ha vissuto, ha dimostrato sempre una ferma consapevolezza politica e una lucidità straordinaria. Così, col passare delle settimane, dopo una lunga serie di scandali giudiziari e di abusi, la sua storia è diventata un problema molto imbarazzante per la giustizia tedesca. Anche per la pressione di società civile e giornalisti. In una grottesca sequenza di sadiche forzature e riparazioni tardive, la ritirata del potere tedesco si è fatta infine rumorosa, rovinosa e surreale. Così, dopo lunghi mesi di galera, spesso in isolamento, Fabio è stato rilasciato dietro pagamento di una cauzione di 10.000 euro. La sua vicenda giudiziaria, tuttavia, non è ancora conclusa e il processo va avanti, anche se pigramente. 

Meritoriamente Jamila Baroni richiama spesso come oltre che alla vicenda di Fabio ci siano ancora oggi a pagare per tutte e tutti giovani, decine di attivisti, vittime di una furiosa rappresaglia con cui la bestia ferita tedesca ha reagito all'umiliazione del G20 di Amburgo. 

“Una collettività esiste come res publica, come cosa pubblica, ed è messa in discussione quando in essa si forma uno spazio estraneo alla cosa pubblica, che contraddice efficacemente quest'ultima.” (Carl Schmitt – Teoria del Partigiano)

Ci sono, a mio parere, almeno quattro questioni particolarmente significative che vengono sollevate dalla repressione intorno al G20 di Amburgo, in generale, e dalla vicenda raccontata in Vietato partecipare, in particolare. 

La prima ha a che fare con l'utilizzo dello “Stato d'Eccezione”, vale a dire di un vero e proprio “Diritto di Guerra”, per restringere gli spazi del dissenso politico e trasformare il corpus normativo in senso sempre più autoritario. E' un richiamo diretto alla dottrina politica del “Lenin della borghesia”, l'innominabile demiurgo del diritto tedesco, il giurista Carl Schmitt.

Cosa si condanna, infatti, in estrema sintesi a Fabio Vettorel? Quello di aver osato prendere parte ad una protesta, ad una presa di parola collettiva, contendendo allo Stato il “Monopolio della Violenza Legittima” (espressione schmittiana indicativamente usata all'indomani delle giornate di Amburgo dalla Cancelliera Merkel). Da questo punto di vista, partendo dall'analisi rigorosa del diritto come campo di battaglia, è preziosa la postfazione al testo dell'avvocatessa Margherita D'Andrea. L'attivista dell'Associazione Nazionale Giuristi Democratici e dell'International Associaation of Democratic Lawyers (Iadl) inizia la sua analisi in modo impietoso e crudele; elencando i luoghi e i  casi dove fino al caso di Fabio aveva esercitato il proprio attivismo: Kuwait, Marocco, Turchia, Saahra Occidentale, Yemen. Infine nella democratica, liberale e opulenta Repubblica Federale Tedesca, nel cuore d'Europa. La meticolosa ricostruzione giudiziaria fatta da Jamila Baroni demolisce pezzo pezzo la retorica con cui l'Occidente si fa portatore di un modello di democrazia liberale, lo “stile di vita europeo” caro a Ursula Von Der Leyen, che è quantomeno contraddittorio. L'avvocatessa dei Giuristi Democratici, delinea chiaramente e sinteticamente gli elementi su cui viene incardinata in senso politico il caso contro Fabio Vettorel. E gli assi sono i medesimi con cui, ormai 19 anni fa, al G8 di Genova una generazione di attiviste e attivisti diventarono il nemico pubblico numero uno in quello che Amnesty International definì “la più grande sospensione della democrazia in occidente nella storia recente”. A Fabio veniva contestato qualcosa di simile al reato di “compartecipazione psichica” con un corteo. In altre parole ciò che gli si imputava era di trovarsi lì, a Rondenbarg, per partecipare appunto; non quindi di aver commesso un qualche atto violento, ma di essere complice di un tumulto che ha rovesciato l'austero ordine neobismarkiano. Una sorta di reato d'opinione potenzialmente commesso da tutte e tutti e che se comprovato, nel sistema a precedenti normativi tedesco, avrebbe impedito future manifestazioni ai vertici internazionali. Un dispositivo autoritario, non a caso introdotto in Italia dalle leggi del ventennio fascista. E lo “Stato d'Eccezione” di Amburgo si richiamava al corpus normativo sperimentato negli anni precedenti negli stadi, contro gli hooligans. Gli stadi, in Germania, come in Italia, e in Inghilterra prima, erano stati infatti il laboratorio per sperimentare la sospensione delle libertà costituzionali e per definire il “perfetto antagonista”. C'è qui il drammatico capovolgimento di priorità tra la libertà d'opinione e dissenso e l'ossessione per il mantenimento dell'Ordine Pubblico. Un tentativo volto a stravolgere le Costituzioni nate dal dramma del nazifascismo. Se infatti tradizionalmente la democrazia si misurava nella sua capacità di tutelare il dissenso, sulle spalle di Fabio si è tentato di far passare una definizione di “democratura” a tutela della “pace sociale” dal dissenso. La funzione del processo a Fabio Vettorel era quello di traslare al dissenso politico l'arsenale usato per reprimere i tifosi di calcio, criminalizzando le manifestazioni politiche e sperimentando tecniche di zoning metropolitano (le Gefharengebiet, zone urbane militarizzate, reintrodotte prima del G20, per la prima volta dagli anni '30 proprio ad Amburgo e Berlino). Si richiama cioè la costruzione del nemico politico così' come Brecht la raccontava nel nazionalsocialismo o come proprio Carl Schmitt la codificò nella nota famosa Teoria del Partigiano. 

Altra questione posta dal romanzo è quella dell'indipendenza del potere giudiziario. La disillusione verso la giustizia non è traumatica ma progressiva. Il lettore accompagna Jamila in un percorso in cui arbitrio dopo arbitrio, cattiveria dopo cattiveria, ingiustizia dopo ingiustizia, il potere giudiziario diventa assoluto, e per questo spaventoso. E proprio come in un'opera di Beckett o Duerrenmatt il diabolico e cupo piano repressivo solo alla fine sbaglia rovinosamente tutto. In centoquarantatrè giorni di ingiusta detenzione giudici, poliziotti e direzione carceraria tentano di isolare, minacciare, spaventare Fabio, il suo legale, gli attivisti e l'autrice. Tentativi che, leggendo il libro, sembrano infrangersi contro la ferma consapevolezza del diciottenne di Feltre e l'intelligente tenacia di Jamila. Proprio la madre dell'imputato vuole capire, collezionando e sistematizzando informazioni, sentenze, regolamenti, articoli di giornali, verbali di polizia, video delle manifestazioni. In una fase storica in cui, dopo anni di giustizialismo, in Italia almeno, si confida nei tribunali come dispensatori persino di giustizia sociale, la vicenda di Fabio Vettorel come le strategie di contropotere messe in campo per non lasciarlo solo sono una cassetta degli attrezzi minima di sopravvivenza per chiunque tenga alla propria libertà di dissenso.

"Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più." (Ulrike Meinhof)

Una terza questione, meno evidente se non se ne ha esperienza diretta, ha a che fare con il paternalismo del Leviatano tedesco. Ogni accenno autoritario nel sistema giudiziario come in quello educativo, nel workfare o nel lavoro si motiva sempre con una sorta di missione pedagogica. Missione di cui il potere, l'autorità (“amt” in tedesco) è esecutore esclusivo. A tal proposito particolarmente odiosa per Jamila, leggiamo, è la ragione con cui si giustificò il primo rifiuto di libertà su condizionale per il giovane di Feltre. Essendo minorenne, non essendoci rischio di reiterare il reato né di fuga, il diritto tedesco prevedeva infatti Fabio venisse scarcerato in attesa del processo, salvo in un caso molto singolare. L'eccezione, puntualmente utilizzata dalla pubblica accusa, fu che si riscontravano in Fabio “evidenti gravi mancanze educative”, deduzione senza colloqui o perizie di alcun tipo. Questo atteggiamento particolarmente odioso è la cifra dello Stato Etico neo-bismarkiano, fondamento di ogni tensione coercitiva che l'autorità esercita sull'individuo. Il potere, il giudice, l'autorità è particolarmente severa, non prevede perdono, come da austera cultura protestante, e giustifica la propria violenza in nome di una volontà superiore. L'autoritarismo tedesco è crudele ma si auto giustifica con la volontà di colmare una qualche mancanza pedagogica, un'anomalia, una devianza per tutelare la pace dell'intera società. 

Soprattutto nel secondo dopoguerra diversi intellettuali, registi, artisti denunciarono il nesso tra autoritarismo dello Stato tedesco e paternalismo pedagogico. Una dialettica aspra, ancora oggi molto presente nel dibattito pubblico. Il primo a denunciare una sorta di  “pedagogia da caserma” negli istituti correttivi per minorenni del dopoguerra fu il pedagogo sociale Manfred Kappeler. La sua opera sulla libertà vigilata, le case correttive, l'uso di lavoro gratuito in chiave “rieducativa” e le campagne contro la criminalizzazione dell'uso delle droghe nel ventennio '60 e '70 turbarono la società tedesca, perché decostruivano giudizi come quella espresso su Fabio Vettorel dalla pubblica accusa nel processo. Nel 1970, inoltre, Ulriche Meinhof, appena poco prima di diventare la cattiva coscienza della borghesia ordoliberale, scrisse la sceneggiatura di un film, “Bambulè- Cura, cura per chi?”. Un'opera in cui si denunciavano gli abusi e l'autoritarismo nelle case protette in cui venivano rinchiuse, detenute, a Berlino Ovest, per essere “rieducate”, giovani processate per piccoli reati, spesso senza prove e con processi farsa. E ancora lo stesso tema ritornerà poi nell'opera teatrale e cinematografica di  Rainer Fassbinder come pure di Reinhard Hauff tra gli anni '70 e '80. 

Stato d'Eccezione, arbitrio dei tribunali e paternalismo autoritario si affiancano, nella testimonianza di Jamila, ad un ultimo elemento: la burocratizzazione esasperata e pretestuosa dei dispositivi di controllo. Il diario della madre di Fabio si fa inchiesta dentro il kafkiano “Castello” della repressione. Così facendo lascia, alla fine della lettura, l'impressione di aver assistito ad una tragedia del “Teatro dell'Assurdo”. Addirittura i personaggi sono elencati all'inizio del testo, a mo' di Libretto di un'Opera a conferma della sensazione. E la scrittura delinea due grandi gruppi di protagonisti nella tragedia messa in scena. Oltre l'autrice-narratrice e Fabio-Joseph K., protagonisti buoni, ci sono “loro”, cattivi e spietati. Sono i diversi ingranaggi della macchina repressiva. Sono giudici, procuratori, testimoni dell'accusa, poliziotti, carcerieri e politici. Sono gli unici i cui nomi vengono espressamente indicati dall'autrice in un j'accuse, una sorta di processo al processo, che chiama a rispondere almeno di fronte ai lettori di Vietato partecipare i carnefici. 

Giudici, disumani, grigi, senza anima; burocrati che ricordano l'Himmler del docufilm “L'uomo per bene” cioè un boia che al termine della propria giornata, dispensata morte a destra e manca, proprio come un onesto lavoratore tornava a casa, persino stanco, senza coscienza, senza senso di colpa. E proprio così, a conclusione di ogni capitolo i giudici, con una morale sovrapposta alla legge, “alle 18:15 terminano il loro compito”, in modo “veloce”, “efficiente”, “soddisfacente”.

Oltre ai protagonisti e ai tanti antagonisti calcano il palco, poi, anche altri personaggi dell'Assurdo; coprotagonisti mai nominati di un'indistinta moltitudine solidale, un'umanità che sorregge l'autrice e Fabio con piccoli gesti complici e umani. Sono l'inaspettata forza che si prende cura di chi il potere vuole isolare e far dimenticare. Il racconto della gioia e della sorpresa con cui Fabio reagisce alla quantità di lettere che gli arriva in carcere, quantità che mette in crisi la direzione della prigione, è uno dei passaggi più toccanti del libro. Oltre loro poi ci sono gli avvocati, spesso più sgomenti che impreparati di fronte alle inedite anomalie processuali e infine i media, non solo strumento del potere ma anche fondamentale contropotere il cui ruolo diventa via via grimaldello per sabotare il piano repressivo. E dal balletto dell'Assurdo viene fuori un vero e proprio programma politico. Quello che ha la solidarietà come orizzonte concreto e che si legge per come questi coprotagonisti agiscono, si relazionano all'autrice, praticano, vicinanza, cura e complicità. 

Una moltitudine rivoluzionaria perché sensibile.

 Le celle e le carceri sono progettate per spezzare gli esseri umani, per trasformare la popolazione in esemplari di uno zoo - obbedienti ai loro guardiani, ma pericolosi l'uno per l'altro.” (Angela Davis)

A oggi, febbraio 2020, per i fatti del G20 di Amburgo sono state emesse diverse condanne, spesso i processi sono stati contestati per le evidenti lacune procedurali. Lo stesso processo contro Fabio Vettorel prosegue, sebbene in modo stanco e farraginoso, riprendendo proprio in questi giorni. 

Sono tutti processi in cui emergono inquietanti forzature autoritarie, scandali, annunci e smentite, omissioni e contraddizioni; ma in cui agiscono anche azioni di supporto emotivo, politico, economico, psicologico per tutte e tutti coloro che ancora oggi nella città anseatica stanno pagando la rabbia del Leviatano ordoliberale. E anche perché non è una vicenda conclusa, leggere Vietato partecipare di Jamila Baroni è un atto militante, di solidarietà, di presenza, di condivisione di un punto di vista alternativo ed ostile al governo austero del capitalismo europeo.

Un libro che è un'opera preziosa, una generosa condivisione di una vicenda personale affinché sia utile a tutte e tutti, affinché nessuno si senta sola o solo, oggi più che mai con la repressione che travolge sempre più esistenze. Un invito a non  cedere alla violenza dei tribunali e delle polizie di cui essere grati a Jamila e a suo figlio Fabio. 

In definitiva una lettura per chiunque consideri l'abolizione del carcere e la promozione della libertà come termine di relazione sociale fondamentale e non solo come enunciato astratto, orizzonte utopistico. Per chi pensa l'abolizionismo sia una concretissima, materiale, condizione necessaria alla costruzione di una società più equa e giusta. Magari una traccia di lavoro su cui rifondare una comunità militante e antagonista oggi anche in Italia, devastata da giustizialismi e da carceri sempre più simili a Lazzaretti dove confinare la marginalità sociale. Anche perché, attraverso uno stile curato e una scrittura mai noiosa, in Vietato partecipare, si leggono sia i tratti caratteristici della governance autoritaria all'opera oggi in Catalogna come in Francia, in Grecia come in Italia, sia le possibili forme creative e gioiose di organizzazione di intelligenze e sensibilità che non vogliono dover scegliere tra l'adeguarsi all'ingiustizia e la privazione della libertà.