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Dentro gli automatismi della macchina globale

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Contributo di Franco Berardi Bifo al volume Frammenti sulle macchine curato da G. Molinari e L. Narda (collana Input - DeriveApprodi 2020)

Perché la potenza che ha caratterizzato la storia della politica moderna, l’epoca dell’imperialismo ma anche della democrazia, l’era delle guerre ma anche delle rivoluzioni operaie, è scomparsa dall’orizzonte dell’agire umano? La risposta è più grande di tutti noi, però se ne possono ricercare alcuni brandelli. Uno riguarda, per l’appunto, la psicopatia e lo stato di demenza, nel senso letterale del termine, che caratterizza l’agire umano nel nostro tempo. Negli ultimi decenni, semplificando e mettendo da parte il contesto sociale, abbiamo assistito a un’enorme accelerazione nel potenziamento della macchina tecnica intelligente; nello stesso momento l’organo umano ha perso funzionalità. Quanto più grande è l’intelligenza artificiale in tutte le sue manifestazioni, tanto più miserabile e irrilevante — e quindi impotente — è la capacità della mente umana. Di fronte a noi si prospetta una scissione straordinaria fra una mente interconnessa gigantesca e potentissima — sempre più capace di assumere su di sé le funzioni e le facoltà che sono appartenute e appartengono alla cognizione umana — e una mente senza più corpo, di cui facciamo ancora parte perché non abbiamo smesso di attivare la nostra capacità cognitiva, ad esempio la nostra attenzione. Questa reattività cognitiva è, però, sempre più scorporata, separata dal corpo, che sempre meno si incontra o scontra con altri corpi. Tanto più comunichiamo tanto meno comunichiamo, tanto più scambiamo informazioni tanto meno le nostre presenze producono senso. Il verbo «comunicare», infatti, significa entrambe le cose: mettere in comune informazione, ma anche produrre senso a partire dalla comunità. Dunque: da un lato un ipertrofico cervello senza corpo, dall’altro un ipertrofico corpo senza cervello, demente in senso letterale, cioè sconnesso, staccato dalla mente. Ad esempio, il corpo che ha votato per Donald Trump è demente; non lo dico come un insulto, ma come constatazione di un venir meno della capacità di produrre senso all’interno della comunità. L’impotenza, nel caso per esempio delle elezioni americane, si è manifestata come un soprassalto suprematista e supremacista perché, come sappiamo, la parola «impotenza» ha un significato prima di tutto sessuale, indissociabile dal senso di umiliazione psichica e sessuale della razza bianca. Questo è uno dei segni lasciati dal capitalismo finanziario negli ultimi anni, che, giorno dopo giorno, ci ha mostrato che non possiamo far niente e che non contiamo nulla — come ad esempio nel caso del popolo greco che ha potuto votare, ma non può decidere del suo futuro.

In quest’epoca di sconnessione mostruosa tra corpo e cervello, la domanda che occorre porsi è: la storia e il tempo che verranno saranno segnati da questo corpo mostruoso che riconosce unicamente l’identità della pelle o della fede? Sarà il corpo demente a scrivere la storia del tempo che viene o sarà l’automa definitivo? La costruzione sempre più minuziosa di automatismi, capaci di modellare e influenzare, determinare e sottomettere l’attività delle menti individuali, è irrefrenabile?

In questa direzione, il disegno più avanzato prende il nome di Neuralink, azienda di neurotecnologie lanciata da Elon Musk che sta investendo in un progetto di inserzione di automatismi elettronici direttamente nella materia cerebrale, nella connessione sinaptica fra neuroni. In realtà il piano di Neuralink non sembra tecnicamente realistico, perché la complessità del cervello umano supera le capacità di simulazione dell’intelligenza artificiale, ma viene tracciata una linea che porta sempre più chiaramente all’eterodirezione, all’automazione dei percorsi cognitivi individuali e, soprattutto, di quelli collettivi. È un processo che da una parte genera impotenza, dall’altra ansia, sofferenza, disperazione, suicidio. Gli ultimi quindici anni sono stati segnati dalla proliferazione di quello che viene definito web 2.0 e da un’espansione del campo delle connessioni senza corpo.

Il web 2.0 è la rete che si manifesta come un campo in perenne estensione, su cui noi sorvoliamo ansiosamente, tentando di avvicinarci a una realtà che ci sfugge. Il sorvolo è la situazione in cui noi ci troviamo quando ci confrontiamo alla velocità infinita della rete 2.0, è la condizione ansiogena che noi abbiamo conosciuto negli ultimi quindici anni; ho l’impressione che ora la macchina tecnica stia sviluppando un altro passaggio, che ci stiamo avvicinando verso una nuova condizione che potremmo chiamare web 3.0, caratterizzata dalla completa immersione. Da alcuni anni le imprese, la ricerca e la sperimentazione vanno in direzione delle tecnologie di immersione, che abitualmente chiamiamo realtà virtuale o realtà aumentata. È interessante, ad esempio, il programma Space lanciato da Zuckerberg, più un esperimento di realtà aumentata che di realtà virtuale, che consiste nell’indossare un casco e condividere un indirizzo con un soggetto a migliaia di chilometri di distanza, al fine agire sugli oggetti che virtualmente si hanno in comune.

Una cosa mi colpisce particolarmente in questo passaggio:

il diverso rapporto con la temporalità. Il tempo del web che ab biamo conosciuto è costantemente accelerato, per cui noi cerchiamo dentro l’internet veloce dei tentativi di riterritorializzazione. Facebook in fondo è questo: la riduzione dell’infinito spazio di internet a un ambiente essenzialmente tribale, nel quale siamo noi a definire chi sono le persone con cui interagire; tutti sono d’accordo tra loro e se talvolta qualcuno la pensa diversamente basta non ascoltarlo. Forse questo è il web 2.0 anche se, per il momento, nulla è definito e definitivo: alcune grandi aziende stanno disinvestendo già dalla realtà virtuale per gli scarsi risultati sul piano economico. Concettualmente, è positivo cercare di capire cosa sta accadendo con il passaggio dal sorvolo all’immersione. Ho l’impressione che, in qualche modo, ci sia il ritorno alla durata, a una temporalità «durazionale»: quando indossiamo Oculus, ci troviamo in un ambiente simulato che determina la nostra velocità esperienziale. Il problema che si pone: è possibile vivere un’esperienza dentro l’esperienza? È possibile immaginare che non esperiremo più niente al di fuori di ciò che è prodotto dagli ingegneri di una fabbrica californiana? Questo è lo scenario che a mio parere si presenta, un quadro di definitiva cancellazione dell’esperienza. Non avremo più bisogno di soffrire l’accelerazione ansiogena del sorvolo del web 2.0, troppo veloce e troppo doloroso, perché creeremo, anzi compreremo, un’esperienza che in qualche modo ci tranquillizza. In un certo senso si sta producendo una sorta di tranquillante interno alla macchina globale. A questo proposito, c’è un geniale spot pubblicitario della Samsung in cui l’azienda coreana propone le sue tecniche di realtà virtuale: nello spot noi vediamo uno struzzo, in inglese ostrich, che si avvicina a un tavolo su cui c’è un Oculus, un visore; ci infila dentro la testa, si mette a volare, incontra altri struzzi dai quali si distanzia sprezzantemente e se ne va in cielo, verso la luna. È naturale che chi ha concepito questa sublime pubblicità sa che degli struzzi si parla soprattutto per la loro abitudine a nascondere la testa sotto la sabbia. È come se la pubblicità ci dicesse: «abbiamo trovato la medicina per voi», è la sostituzione della nostra esperienza con un programma prodotto nella Corea del Sud.

Dunque, mi sembra che siamo al punto in cui la potenza che la soggettività moderna si è attribuita, e ha effettivamente esercitato, giunga al suo limite perché la macchina diventa più potente del suo creatore. Ciò non vuol dire che bisogna oggi rivendicare quella potenza: sin dall’inizio essa è malata, patogena, tanto è vero che il suo esaurimento si manifesta nella figura di Trump. La sua origine si rivela nelle parole di Niccolò Machiavelli, nel capitolo XXV de Il Principe: il filosofo fiorentino scrive che la fortuna è come una femmina priva di governo e capricciosa; compito del principe è picchiarla e sottometterla. La modernità è la potenza del principe capace di sottomettere la fortuna che, in senso latino, rappresenta l’infinita mutevolezza della natura. Per cinque secoli, il maschio rappresentato nel potere, o il potere che si rappresenta come maschio, sottomette la mutevolezza e la complessità del mondo. Questa dinamica è ormai finita, la complessità del mondo travalica la capacità di ridurre la fortuna e a questo punto si aprono delle prospettive. Una è quella della violenza scatenata alla quale stiamo assistendo impotenti; l’altra, invece, l’autonomizzarsi della potenza tecnica e la costruzione dell’automa definitivo.

È possibile che l’automa definitivo riuscirà a sostituirsi integralmente alla «libertà umana», o invece quest’ultima, la libertà dei corpi senza cervello, condurrà all’olocausto finale? Queste sono le due prospettive che mi sembrano verosimili.

Ripeto, per concludere, che non c’è niente da rivendicare del passato moderno, perché esso stesso ha prodotto quella potenza e il culto dell’iperpotenza maschile che hanno condotto alla condizione nella quale ci troviamo adesso.