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Riprendiamoci la critica radicale della democrazia

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Recensione di Gigi Roggero a “La controrivoluzione di Trump” di M. K. Rasmussen 

È da leggere il libro di Mikkel Bolt Rasmussen, La controrivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia (Agenzia X, 2019), fin dalla bella introduzione di Marcello Tarì. Innanzitutto perché è utile: l’autore traccia un profilo approfondito dell’attuale presidente americano, lo contestualizza nella lunga fase di crisi globale, ne analizza movenze e linguaggi. Da questa angolazione, Trump è “un sintomo dei fondamentali problemi della crisi dell’economia capitalista ormai incapace di integrare il suo proletariato”. Nulla o quasi sembra essere affidato al caso, neanche quelle che dall’opinione pubblica vengono interpretate come gaffe esilaranti o drammatiche dovute all’eccessività del personaggio: “l’immagine non è più solo un medium, ma è divenuta la materia stessa della politica”. La politica dell’immagine, attraverso twitter o i media tradizionali, va dunque accuratamente preparata, studiata, costruita. A farlo non può che essere un’industria, dell’immagine e dunque della politica, che secondo Rasmussen ricorre ai codici dell’industria pop.

In secondo luogo, cosa forse ancora più importante, è produttiva e condivisibile una delle tesi di fondo del libro: Trump è una contestazione delle contestazioni. Il ciclo di lotte nella crisi, quello che negli Stati Uniti ha il nome Occupy, “è stato lo stesso contesto in cui si è sviluppata l’elezione vittoriosa di Trump”. Potremmo sintetizzare così: dove è stato sconfitto Occupy, là ha vinto Trump. Se ciò è vero, come pensiamo che sia, significa che il cosiddetto “sovranismo”, oppure “populismo” (termini secondo noi inadeguati o addirittura fuorvianti), riesce a mobilitare almeno un pezzo importante di quella composizione che ha determinato o può determinare un processo di segno politico opposto. La controcontestazione di Trump – definizione che, per ragioni che spiegheremo, ci sembra più appropriata di controrivoluzione – è cioè la “risposta nazional-capitalista” all’impoverimento del ceto medio e alla disperata solitudine della ex working class, a chi ha subito in modo più diretto e brutale le conseguenze sociali di austerity, globalizzazione e deregolamentazione. Ciò blocca la potenziale ricomposizione dei soggetti che non vogliono più pagare i costi della crisi, alimentando la contrapposizione razziale e favorendo l’alleanza tra la middle class bianca e il capitalismo protezionista.

Coerente con questa impostazione sono condivisibili, in terzo luogo, le critiche che Rasmussen muove ai pensatori della sinistra americana, i quali credono sia possibile superare il declino neoliberale con il ritorno ai fasti di una classe operaia ormai politicamente residuale. Viene così rispolverato tutto l’armamentario nostalgico delle politiche riformiste, dall’invocazione del “New Deal” a un rinnovato orgoglio nel definirsi socialisti. Dimenticando, o forse al contrario avendo ben presente che – almeno dalla prima guerra mondiale e come risposta alla minaccia dell’ottobre bolscevico – il socialismo è diventato una forma di soccorso e gestione di un capitalismo in crisi.

Sviluppando questa critica alla sinistra, si arriva al quarto punto importante del libro: il rapporto tra Trump e la democrazia. Leggiamo: “Trump non è un colpo di stato contro la democrazia e se lo si riduce a questo, cioè a un uso antidemocratico della democrazia, si tende a confermare la sua stessa retorica, cioè quella che vuole che lui sia qualcuno di totalmente diverso dai politici corrotti”. E ancora: “Trump non è un populista che ha compiuto un colpo di stato democratico, facendo un uso antidemocratico della democrazia. Egli è coestensivo al regime democratico”. In fondo la democrazia – come si evince dal libro – è una religione monoteistica contemporanea, che “promuove lo stesso senso di comunità e compie le stesse operazioni che le religioni hanno sempre portato avanti: creano il significato da dare alla vita individuale e, lungo questa strada, scatenano la barbarie e il terrore”. In quanto credenza religiosa, la democrazia è assoluta e indiscutibile. Nessuno può dire di essere anti-democratico se vuole continuare a essere riconosciuto all’interno dei confini della dialettica politica istituzionale. E tutto sommato, anche le forze extra- o anti-istituzionali faticano enormemente a sottrarsi a questa professione di fede. A dire il vero, quasi nessuno lo fa: è sempre il nemico a essere anti-democratico, questa è la peggiore accusa che possa essere pubblicamente mossa. La democrazia, dunque, “appare oggi come fosse un dato naturale ed essere contro la democrazia equivale a essere contronatura”. Si potrebbe allora concludere con Rasmussen: “in realtà democrazia significa sospensione del politico e non la sua implementazione”. La democrazia è cioè la forma sovrana di neutralizzazione e depoliticizzazione del conflitto.

A questo punto, concordando in pieno con questa linea di ragionamento, si apre una tesi per noi contraddittoria e problematica: l’identificazione di Trump e del “sovranismo” con il fascismo. Cerchiamo di spiegare. Tale tesi ci sembra contraddittoria per un insieme di ragioni analitiche che si potrebbero riassumere in termini semplificati: quando si deve continuamente precisare che per le questioni sostanziali le figure di cui si parla sono completamente diverse dal fascismo storico, non si farebbe prima a individuare una categoria differente? Mostrando di conoscerne bene genealogia e sviluppo, Rasmussen afferma che il fascismo si è fondato, tra altri, su almeno tre elementi: il rapporto tra legalità e illegalità (che Mussolini e ancor più Hitler agirono con grande efficacia, si veda in particolare Imperium di Carl Schmitt), l’evocazione rivoluzionaria (non di classe ma di popolo, o meglio in un ambiguo miscuglio tra i due: Mussolini il rivoluzionario di De Felice resta secondo noi un testo di studio importante), lo spirito anti-borghese (in una direzione comunitaria che mescolava il potente uso della modernità a un’altrettanto potente mitologia anti-moderna). Nessuno di questi elementi, come rimarca lo stesso autore, appartiene a Trump e agli altri casi citati. Scrive: “A differenza del vecchio fascismo, la rinascita nazionale non è più concepita come una sospensione del sistema parlamentare nazionale. Il postfascismo differisce dal fascismo storico, ma anche dai vari gruppuscoli neofascisti, poiché non si concepisce come un movimento extraparlamentare, bensì come partiti e politici che combattono per avere il voto all’interno del sistema politico esistente, mentre lo sfidano aumentando sempre più la loro dimensione nazionalista e discriminatoria. Quindi il postfascismo è un tentativo, da parte dell’ideologia fascista, di rendersi presentabile in quanto alternativa tanto all’interno che all’esterno del sistema”.

Dunque, non c’è un uso dell’illegalità né spirito anti-borghese: “se Mussolini e Hitler furono leader di movimenti politici, Trump lo è del reality show e del business”. L’attuale presidente americano inventa il popolo e la comunità nazionale, come ben illustra Rasmussen scandagliando i suoi discorsi: e tuttavia, in qualche modo popolo e comunità nazionale vengono sempre inventati. Insomma, dipingere giustamente Trump come un razzista, un insopportabile arrogante, un pezzo di merda, è sufficiente a farlo considerare un fascista? Gli altri presidenti non erano razzisti, arroganti, pezzi di merda? Certo, Trump ci aggiunge una demagogia volutamente sfacciata, perché vuole eccitare gli spiriti animali della sua parte potenziale, avendo capito che in tempi di polarizzazione dovuta alla crisi solo mobilitando la parte estrema si può vincere, ma sempre nel quadro delle istituzioni democratiche. Tant’è che, all’atto pratico, l’aggressiva politica-immagine di Trump non produce sostanziali cambiamenti e rotture rispetto al quadro precedente, e lo stesso si può dire dei suoi corrispettivi nei paesi europei – che, non a caso, vogliono governare ma sono impauriti nel farlo (do you remember la crisi del Papeete?). Nei fatti, non agendo effettivamente l’illegalità, questi cosiddetti “sovranisti” non riescono nemmeno a trasformare radicalmente la legalità, come invece fecero i fascisti.

In un passaggio del testo, Rasmussen coglie bene la questione: “il punto è che essendo divenuto così difficile immaginare un mondo non capitalista, il fascismo non ha alcun bisogno di presentarsi in quanto rivoluzionario”. È esattamente per questo che, dicevamo, non ci convince il suggestivo termine “controrivoluzione”: perché presuppone una rivoluzione contro cui andare, o meglio da fare al contrario. Nello snodo decisivo della prima guerra mondiale la richiamata sequenza catastrofe economica, crisi politica, perdita di fiducia nel sistema istituzionale e nei partiti tradizionali, prese due direzioni rivoluzionarie e anti-democratiche opposte. Di queste due, la tensione rivoluzionaria del fascismo era subalterna, ovvero dipendente, alla minaccia rivoluzionaria comunista. Senza la seconda, non si dà la prima. Trump è semplicemente la risposta a Occupy, una contro-protesta che recupera in direzione opposta una protesta, entrambe al di qua e non al di là delle rottura della legalità democratica. Tanto non ha saputo divenire una minaccia Occupy, tanto non è fascista Trump. E ancora: come quella minaccia non può oggi ripresentarsi sic et simpliciter nella forma bolscevica, quanto la risposta contraria non può oggi ripresentarsi sic et simpliciter nella forma fascista.

La tesi dell’autore è per noi, dicevamo, anche problematica. Non ci convince infatti la sua traduzione politica, ossia il semplice antifascismo – se per antifascismo non intendiamo solo essere contro i fascisti, cosa che diamo per scontata, ma gli attribuiamo un’identità costituente e strategica dell’antagonismo di classe. È esistito, per un breve e intenso periodo storico, un antifascismo di classe e rivoluzionario, che è stato sconfitto: da allora, vi è un’egemonia e ipoteca democratica e frontista sull’antifascismo. Tanto è vero che, come sottolinea Rasmussen, il termine “fascista” ha innanzitutto una funzione delegittimante: “ridurre il fascismo al male incarnato è solo una manovra ideologica che serve a mantenere l’ordine esistente, legittimandolo come la continuazione della lotta contro il fascismo”. Sei fascista, dunque anti-democratico. Così, l’antifascismo si presenta come una richiesta di ritorno alla normalità contro la barbarie, lasciando nelle mani dei reazionari quei soggetti di classe che nella normalità vedono il loro principale nemico. Nel libro, ad esempio, si richiamano i toni dei continui attacchi di Trump contro politici, imprese globali, media, giudici, amministrazione statale: in una fase di crisi, in cui vi è polarizzazione dello scontro, fare appello all’antifascismo rischia di significare, nei fatti, difendere ciò che i supposti fascisti attaccano, per quanto queste non siano certo le intenzioni dell’autore e di molti antifascisti.

Per chi non sa o non vuole leggere, chiariamo e ribadiamo: i fascisti, sedicenti tali o etichettati come tali, vanno bastonati, sempre e ovunque ce ne sia l’occasione, ça va sans dire; però, fare dell’antifascismo un asse politico centrale porta inevitabilmente a immaginare che le figure sociali che potenzialmente possono costituire la nostra parte appartengano per una sorta di natura divina alla sinistra, mentre lo stesso libro dimostra che così non è. Per fortuna, aggiungiamo: perché finché restiamo prigionieri di quella dialettica borghese tra destra e sinistra che ereditiamo dalla disposizione nel parlamento francese, non usciremo mai dalla scelta tra la paura di un apocalittico “peggio” futuro e la certezza di un concretissimo “meno peggio” presente (e poi, “peggio” e “meno peggio” per chi e da che punto di vista?). In altri termini, predicare l’iterazione della catastrofe futura serve per far ingoiare la normalizzazione della catastrofe presente. Chiariamo ulteriormente: dire che Trump, o Salvini, o Le Pen, o metteteci chi volete voi, non sono fascisti, non significa ritenerli meno nemici. È proprio il contrario: sono nemici e mistificatori perché fingono di incarnare una trasformazione che non vogliono, in quanto sono i prodotti dell’industria politica della normalizzazione democratica. Scrive Rasmussen: “il berretto da baseball di Trump prova che lui è uno del popolo, come te e me, solo che ha avuto più successo”. Questo è il sogno democratico americano, centrato sull’individuo e sul lavoro, tutti ce la possono fare: il popolo che viene creato è quello dei consumatori, la folla solitaria felice e accettante.

Allora, a partire da questo bel libro serve ancora uno sforzo, contro la sinistra e contro la democrazia. Non abbiamo bisogno di alcuna giustificazione per andare all’attacco: in questa società basta viverci per odiarla. La catastrofe non è quella che può avvenire se vincono i fascisti, la catastrofe è quella che avviene quotidianamente nella riproduzione della normalità. Ed è ulteriormente catastrofico rischiare di finire in un fronte con una parte dei nostri nemici, avendo permesso all’altra parte di appropriarsi del desiderio di trasformazione. Insomma, aver lasciato la critica radicale della democrazia nelle mani di quelli che vengono chiamati “fascisti”, ecco il grande problema da cui dobbiamo ricominciare.