Stampa

+ Kekko - Ken

on .

Riceviamo e pubblichiamo un testo a firma Dada Umpa sui recenti film di Ken Loach e Checco Zalone

Sono passati pochi minuti dall’inizio di questo film inutilmente lungo fin dal titolo. La noia ha già preso il sopravvento, sembra un piatto documentario ideologico prodotto da uno degli innumerevoli acronimi del sindacalismo di base. Sogno una scena fantozziana, qualcuno che a un certo punto della proiezione si alza e grida: per me “Sorry we missed you” è una cagata pazzesca! Sarei pronto a tributargli i famosi 92 minuti di applausi.

Ok, spiego. Non vi racconto la trama, ché tanto la conoscete tutti. Non è che la conoscete solo perché siete andati a vederlo o ne avete sentito parlare – e sicuramente ne avete sentito parlare, le bacheche facebook della gente di sinistra si sperticano in lodi per sta palla mostruosa. La trama la conoscete perché è il film della vostra vita, della nostra vita. È il film di cui le nostre generazioni sono gli attori coatti, film di precarietà, frustrazione e assenza di tutele, film che parla delle relazioni sociali fagocitate dalla violenza del lavoro e della disoccupazione, film che descrive le balle della retorica dell’autoimprenditorialità che è solo autosfruttamento. È un film che negli anni ’80 avrebbe anticipato una tendenza, quand’era ancora in divenire e dunque rovesciabile, oggi per quasi due ore ti spiega con tono stucchevolmente didascalico e inutilmente pedagogico quello che conosci fin troppo bene, cioè la banalità del male che da quarant’anni ci impongono.

Se la trama la conoscete, allora vi faccio lo spoiler: finisce con il pianto. Perché inizia con il pianto, e continua con il pianto. Non si fa altro che piangere, e assistere a storie di sfiga e vittimità. A questo punto la domanda è: uno (o una, non credo cambi) che tutti i giorni vive questa merda, perché dovrebbe spendere soldi per andare a farsela raccontare al cinema? Dovrebbe crogiolarsi nella sfiga, piangere come una fontana, autoproclamarsi vittima e nient’altro che vittima? Non è il Ken Loach di “Riff Raff” o “Piovono pietre”, quello che dipingeva in presa diretta le condizioni di vita di una specifica working class, che senza favoleggiare sciocchezze utopiche illuminava continuamente le forme della resistenza, anche dove erano sconfitte, e comunque ricominciavano. Qui non c’è resistenza, non c’è nemmeno la possibilità che ci sia. I padroni sono invincibili, il capitalismo è eterno, lo sfruttamento è un destino ineluttabile. Mentre i padroni ridono a crepapelle, voi consolatevi piangendo.

Allora, poiché non è mai la pornografia della sfiga bensì la possibilità della forza che conduce alla ribellione, a che serve un film del genere? Serve a quelli che compongono buona parte della sala dove, ahimè, sono andato a vederlo: un sinistro ceto medio non colpito dalla crisi, signore e signori della borghesia agée e progressista, che grazie a questo film si possono mettere la coscienza a posto, continuando a godere del loro di destino, quello di chi piange solo al cinema, e magari come gesto sovversivo boicotterà gli spedizionieri indicati da Ken Loach, mandando la propria badante rumena a comprare i prodotti nel supermercatino sotto casa, quello dove lo sfruttamento non merita i riflettori del grande schermo. Ricordiamocelo sempre, dipingere qualcuno come vittima assoluta non è mai un’operazione neutra: serve sempre a ridurlo al silenzio e a parlare al suo posto, da dietro una macchina da presa, dagli scranni di un parlamento, dal palco di un’assemblea.

Per fortuna che il mio di destino cinematografico è stato riscattato la sera dopo dalla visione di “Tolo Tolo”. Anche qui non entro nella trama né vi faccio lo spoiler, vi dico solo di andarvelo a vedere. Lo so, in questo caso i sinistri si sono rassicurati dopo la visione – e ciò deponeva evidentemente male per il film. Dopo averli attratti e blanditi nelle aspettative, infatti, il Kekko ha preso per il culo i destri e il senso comune razzista. Bene, si dirà. Ok, però il benissimo arriva nell’aver completato l’operazione, pigliando per i fondelli anche i sinistri e il senso comune umanitario, cioè l’altra faccia del razzismo esplicito. Nel film non c’è infatti il banale ribaltamento delle retoriche razziste, per cui gli immigrati da male assoluto diventano bene assoluto (restando in entrambi i casi quegli sfigati che tanto piacciono all’ultimo Ken Loach). Gli immigrati non sono né buoni né cattivi, sono teste di cazzo come tutti quanti: come tutti quanti possono vendere i propri compagni di viaggio o lottare con loro, possono farsi la guerra tra poveri o fare la guerra ai ricchi. E non essendo carnefici, come vorrebbero i destri, non sono neppure vittime, come vorrebbero i sinistri. Che bella l’immagine di Idjaba che, mitra in mano, si vendica dei propri nemici, europei o africani che siano, e libera i propri amici, europei o africani che siano. Altroché quella piaga lacrimevole di Abby, tanto buona quanto rassegnata moglie e martire del “Sorry”. Ancor di più, l’essere immigrato non è una condizione ontologica o un destino: sono immigrati gli africani in fuga dalla guerra che vogliono raggiungere l’Italia, lo è l’italiano in fuga dai debiti che fa di tutto per non essere ributtato in Italia. Il destino non esiste, esistono delle condizioni materiali che possono essere continuamente combattute e trasformate: ecco la lezione di Kekko a Ken.

E poi, dicevo, l’eccezionale presa per il culo del razzismo umanitario. Il personaggio più odioso del film è decisamente il fotografo che nel deserto è a caccia di vittime da immortalare, chiaramente per fama e soldi, con un insopportabile narcisismo occultato dai buoni sentimenti universali. Questa mistificazione Kekko la disvela alla grande, mettendolo alla berlina quando il tipo, bello profumato nel suo fuoristrada con aria condizionata, passando davanti a un camion zeppo di persone allo stremo afferma che “la più grande ricchezza è l’umanità e la più grande povertà è quella dei ricchi”. E poi che dire della fantastica parodia della Ong “Nave de Amor” (ahahah), quando i seriosi attivisti annunciano con entusiasmo la grande vittoria perché l’Unione Europea ha accettato la redistribuzione degli immigrati, “un tot di chili in ogni paese”: e così si procede alla lotteria, “ecco i 1500 kg. che andranno in Germania”, evviva! Ogni riferimento a persone e fatti realmente esistenti è ovviamente voluto.

Poi certo, direte voi, manca una raffinata analisi rivoluzionaria del capitalismo, di classe e di innumerevoli altre cose. Ovvio, già la realtà ha superato la fantasia, ma pretendere pure questo è davvero troppo. E soprattutto, vi tranquillizza tanto accusare un Checco Zalone qualsiasi di quello che voi non riuscite a fare?