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Cile 2019: si è inceppata la macchina che produce soggetti?

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Una riflessione di Andrea Fagioli sulle lotte sociali in Cile dei mesi scorsi

 

All’inizio furono i 30 pesos di aumento sul biglietto della metropolitana di Santiago, tolti quando ormai era troppo tardi. Perché la rivolta scoppiata in Cile a ottobre si continua a sostenere (mentre scrivo una manifestazione si sta dirigendo alla Moneda per celebrare il compleanno di Sebastián Piñera), nonostante l’annuncio di una prossima Assemblea Costituente, chiamata, per non urtare la sensibilità della pinochetista Unión Demócrata Independiente (UDI), “Convención Constituyente”. E sembra mandare in mille pezzi l’immagine fatta di successo economico e stabilità che il modello del paese sudamericano proiettava verso il mondo da decenni.

Il Cile è stato un laboratorio per le politiche neoliberali ed è un caso paradigmatico di quello che è il neoliberalismo. Di fatto, grazie alla violenza della dittatura di Pinochet, i cosiddetti Chicago Boys – discepoli degli economisti della scuola di Chicago come Milton Friedman, James Bucanan e Arnold Harberger – hanno potuto dare forma a un modello economico che sarebbe poi stato costituzionalizzato nella Magna Carta del 1980.

Anticipo l’ipotesi che voglio proporre: il Cile contemporaneo si situa in una assoluta continuità con la dittatura e la recente rivolta può essere pensata come una disobbedienza radicale che attacca le radici del modello politico ed economico cileno. Per questa ragione, mi sembra che il concetto di moltitudine possa e debba essere preso seriamente in esame per descrivere il soggetto emerso in queste lotte (evidentemente) anti-neoliberali. Un soggetto che non può essere identificato con uno specifico settore produttivo – per esempio la moderna classe operaia – e le cui differenze non possono essere ridotte a un’unità. Un soggetto che non può essere rappresentato, come il Popolo dei moderni Stati sovrani e che, sfidando il coprifuoco della prima settimana e la repressione brutale di Carabineros (soprattutto) ed Esercito ha messo in discussione l’hobbesiano obbligo a obbedire che costituisce il fondamento stesso dello Stato.

 

1. Margaret Thatcher dichiarò in una famosa intervista che l’economia era solo un metodo e che l’obiettivo -il vero obiettivo, potremmo aggiungere - era cambiare l’anima. Il caso cileno fa vedere in maniera esplicita che il neoliberalismo non può essere pensato esclusivamente come un insieme di misure macroeconomiche (regressive), ma anche come la produzione – e la continua riproduzione – di un ambiente sociale e, soprattutto, di una specifica figura soggettiva, un homo oeconomicus in grado di vivere in quell’ambiente di cui è, allo stesso tempo, una conditio sine qua non.

Se nessuna società può funzionare senza generare e naturalizzare certe convinzioni, abitudini e pratiche che costituiscono un modo di vita sociale e individuale, il soggetto neoliberale – come ha sottolineato Michel Foucault – è un imprenditore di se stesso che è chiamato (sarebbe meglio dire obbligato) a gestirsi come un’impresa, anche se nella maggior parte dei casi questa impresa personale – o capitale umano – deve applicare una logica costo-beneficio solo per amministrae debiti, disoccupazione, povertà e privatizzazione del welfare.

 

2. La dittatura cilena – è stato scritto - è stata una dittatura sovrana che ha messo in atto una rivoluzione capitalista. Detto rapidamente: da una parte ha rappresentato una rottura dell’ordine costituzionale, nella misura in cui non è stata semplicemente una sospensione del diritto, un lungo stato d’eccezione, ma si è collocata fuori dal diritto costituzionale democratico, autoattribuendosi le prerogative di un’assemblea costituente. D’altra parte, la Carta del 1980 costituzionalizza il capitalismo.

Il risultato è che la costituzione cilena – come segnalano alcuni giuristi – è una costituzione economica. Questo significa che, attraverso un insieme di precetti, mira a consolidare una cornice legale dentro la quale possa svilupparsi senza ostacoli un’economia di mercato. Si tratta di ciò che è stato definito “ordine pubblico economico”, vale a dire una sorte di democrazia limitata nel senso hayekiano, che aveva l’obiettivo di rendere impossibili modifiche sostanziali al modello, indipendentemente dalla forza politica che avesse vinto le elezioni. Una serie di leggi costituzionali limitano in maniera radicale le prerogative dello Stato e proibiscono le discriminazioni arbitrarie in materia economica, impedendo così anche solo di immaginare qualsiasi misura vagamente redistributiva.

Parallelamente, per funzionare, il modello strutturato a partire da questa cornice legale richiedeva la produzione di un soggetto che potesse vivere ed essere produttivo in quell’ambiente. Questa produzione si è data, da una parte, attraverso la forza bruta dello Stato, ma anche tramite l’installazione, a partire da diversi dispositivi, di quello che Foucault chiamava regime di verità, basato sull’opposizione vero-falso, che mirava a squalificae come ignorante ogni sapere incompatibile con quello dei “neutrali” tecnici neoliberali. Ogni cileno, in questo modo, è stato spinto, come indica il manuale del buon neoliberale, a usare una griglia economica per interpretare tutti gli ambiti della vita umana.

È possibile rintracciare in questo senso una doppia continuità tra la democrazia attuale e la dittatura. In primo luogo, la cornice legale fornita dalla Costituzione – emendata non in maniera sostanziale sotto la presidenza del socialista Lagos – continua a essere quella disegnata dal pinochetismo con i militare al potere (e per strada). In secondo luogo, la violenza che ha caratterizzato la dittatura ha continuato a essere utilizzata sia in temini di spoliazione, per saccheggiare gli asset dello Stato – si veda il documentato libro di Olivia Mönckenberg, chiamato proprio El saqueo (Il saccheggio) – e per “recintare” ricchezza comune e consacrarla all’estrazione di rendita privata, sia in termini di sfruttamento, assicurando la disciplina della forza lavoro. In questo senso deve essere pensata, a mio parere, la violenza usata contro ogni tipo di manifestazione che eccede e mette in questione i limiti della figura soggettiva necessaria a far funzionare il modello. Abbiamo visto in azione questa violenza diretta nella militarizzazione dell’Araucaria, contro i presunti terroristi dei popoli originari, ma anche nella violenza smisurata contro le manifestazioni di studenti, donne o movimienti ecologisti, fino al caso più estremo: il coprifuoco che ha cercato, senza successo, di espellere i manifestanti dallo spazio pubblico.

 

3. Solo pochi giorni prima dell’inizio della rivolta – anche se sembra passata un’era geologica – di fronte alle immagini di un Ecuador incendiato da una rivolta sociale simile a quello che vediamo in Cile, al netto delle sue specificità, il presidente Piñera affermava, facendo bella mostra di una invidiabile capacità di prevedere il futuro, “in mezzo a un’America Latina in preda a convulsioni, vediamo oggi il Cile come una vera e propria oasi con una democrazia stabile”. Una settimana dopo, con il fuoco nelle strade del paese, dichiarava disorientato: “siamo in guerra”. Cos’è successo in quella che l’inno nazionale chiama “copia felice dell’Eden”? Che cosa è andato storto in quello che è stato definito “modello di democrazia in America Latina” (Obama) e un paese il cui popolo é dedito alla democrazia (Bush)?

L’ipotesi che voglio proporre è che le mobilitazioni hanno rotto la macchina che produce soggetti e, parallelamente, che occupando le strade e le piazze e sfidando (nei primi giorni) il coprifuoco e (tuttora) la pesante repressione militare/poliziesca, i manifestanti hanno riso in faccia all’obbligo a obbedire, disattivando il potere coercitivo su cui si fonda lo Stato e togliendo ogni legittimità alla costituzione pinochetista, che era già caduta quando si è annunciata la convenzione costituente. I fatti hanno ecceduto totalmente il governo, tanto che la première dame ha parlato di “invasione aliena”.

Tutte le consegne che abbiamo visto scritte negli striscioni e che abbiamo sentito urlate da centinaia di migliaia di persone nelle strade delle città di tutto il paese mirano a quegli elementi che ho cercato di indicare. Da “No + AFP” (il sistema di pensioni totalmente privatizzato) e “Abbasso il capitale”, a “Educazione degna” (altro tasto dolente), da “Piñera dimettiti” a “aborto libero” fino all’emblematico “la piazza non si abbandona fino a che non valga la pena vivere”, tutti hanno come bersaglio una forma di organizzare la vita in comune e la maniera soggettiva di esperirla. Sono parole che gridano furiosamente il rifiuto a quell’organizzazione e quello stile di vita, e affermano la volontà di non continuare a essere ciò che sono obbligati a essere e di non voler vivere più nella maniera in cui sono obbligati a vivere, mostrando che la loro vita eccede gli apparati che pretendono catturarla.

Possiamo pensare il soggetto emerso nelle piazze e nelle strade del Cile come una moltitudine, perché si tratta di un soggetto che ha debordato il corset individuale dentro cui, con un certo successo, un insieme di dispositivi ha cercato di rinchiudere i cileni per decenni. Piazze, parchi,  autostrade e altri luoghi pubblici hanno mostrato in maniera evidente che le singolarità, anche nella loro specificità si costituiscono (si individualizzano potremmo dire) su un tessuto comune. Lo slogan “Chile despertó” (il Cile si è svegliato) denuncia e dice basta al pluridecennale saccheggio di questo comune.

Quello che è successo decreta l’apertura di uno spazio politico nuovo nella dimensione soggettiva e comune e, anche se lo scenario è aperto a molti scenari possibili (non tutti entusiasmanti), si può azzardare che non potrà essere chiuso nella stessa maniera in cui lo era. Quello che sta succedendo può essere identificato con una disobbedienza radicale che sposta il luogo del conflitto; detto nei termini di Albert Hirschman, non è voice, ma exit e ha alterato le regole del gioco. Quelli che hanno riempito le strade del paese non lo hanno fatto appellando a una legge originaria, ma rifiutando una legge originaria ed esigendo un’assemblea costituente, vale a dire chiedendo l’invenzione di una nuova maniera di organizzare la vita in comune diversa dall’attuale.

Non c’è praticamente nessun partito, tra quelli che hanno amministrato la cosiddetta transizione democratica che si salvi da questo rifiuto, perché tutti hanno sostenuto, in modi diversi e per differenti ragioni, quel modello e la macchina che produceva soggetti. Nessuno può rappresentare le diverse richieste che sono in gioco. Solo l’evoluzione degli eventi ci dirà in che modo si riconfigurerà il campo e in che modo questa moltitudine si organizzerà politicamente (in termini ontologici si organizza già). Solo la capacità di organizzazione determinerà quali effetti si produrranno a partire da questa rottura.