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Chi è Joker?

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Considerazioni di Loris Narda a partire da Joker

Joker siamo un po’ tutti noi, quando la sofferenza mentale prodotta da questa società ci colpisce e ci atterra, anche se solo temporaneamente e in modo meno “pesante” di quella che ha colpito il protagonista, egregiamente interpretato da Joaquin Phoenix. Joker si ritrova nelle mani di servizi psichiatrici che non lo ascoltano minimamente, battono sulla sola cosa che possono fare in quelle condizioni e chiedono a Joker: ma i farmaci li prendi? Ne prendo sette diversi risponde lui, ma non mi servono a molto perché sono l’unica cosa che mi date.

I servizi che appaiono nel film, che poi verranno chiusi lasciando un’aspra dualità tra il farmaco e il nulla, sono una plastica rappresentazione di cosa sono oggi i servizi della salute mentale nella gran parte del mondo, a partire dall’Italia. Decine di pazienti per medico e psicologo, una formazione da pressappochismo cognitivista non lasciano altra strada all’uso del tampone farmacologico. Joker sembra urlare dentro se stesso che avrebbe bisogno di parlare, di essere ascoltato, di essere accompagnato in un percorso analitico che lo aiuti a fare i conti con i suoi mostri. il piccolo problema è che i mostri non sono soltanto individuali ma collettivi, il solo percorso analitico sarebbe un’arma spuntata.

Joker, involontariamente o quantomeno inconsciamente, con i suoi gesti di vendetta spinge la nascita di un movimento di massa, globale potremmo aggiungere. E infatti le maschere di Joker si sono viste a Beirut e in Cile nelle mobilitazioni contro il governo, nei tentativi di rompere quelle gabbie collettive che trasudano impoverimento, non soltanto materiale, e depressione.

La domanda che ci siamo fatti in molti di noi quando lo abbiamo visto iniziare a maneggiare quella pistola era: “si vuole suicidare”? Perché è questa la condizione che pesa su sempre più persone: implodere e suicidarsi, o esplodere e dare vita alla rivolta.

Oggi la solitudine di massa rappresenta una condizione che accomuna milioni di persone, nei paesi “sviluppati” le relazioni significative della propria vita si sono ridotte a una, massimo due, oltre la cerchia familiare, sempre che esista questa cerchia familiare. E già, perché la società sembra essere profondamente cambiata anche nella catena della riproduzione, in tutti i paesi avanzati fare una famiglia è sempre più difficile, sia per l’impoverimento delle condizioni materiali che per la competitività che ti spinge a girare come una trottola per il mondo in cerca di un lavoro leggermente migliore.

Profondamente rivelatrice della nostra epoca e connessa con questa solitudine è l’epidemia di oppioidi che sta invadendo gli Stati Uniti, un mix tra nuove sostanze sintetiche estremamente più potenti messe a reagire con un contesto sociale di una violenza inaudita nella sua precarietà e nella sovrastimolazione dell’infosfera tecno-digitale.

E allora cosa possiamo fare noi? Possiamo e dobbiamo costruire dimensioni collettive, fare gruppo e fare rizoma, provando a costruire sia nel contesto politicamente esplicito che sulla dimensione più profonda, che solo il collettivo può indagare sufficientemente.

Così come all’inizio del millennio, le rivolte di queste settimana partono dall’America Latina, un luogo dove sono molto radicate esperienza di soggettivazione legate a doppio filo al piano politico ma anche al piano che potremmo definire intimo, trasformativo su un livello diverso. Dobbiamo studiare e diffondere le modalità di fare gruppo che, soprattutto nella concezione operativa, ci possono far cogliere una gamma intera di trasformazioni che ha a che fare con la nostra soggettività. Le catene vanno rotte all’interno e all’esterno delle soggettività in maniera parallela e contemporanea.