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I padroni del fuoco. Per un’epica militante

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Kamo Modena recensisce Attraverso questo mare di cemento di Jacob Foggia

«Perché alla domanda: “Chi sono i tuoi buoni maestri?”, nessuno risponde mai: il maresciallo Ivan Jakubovskij e la 91ma Brigata Carri sul Volga»?

Se dovessimo mettere Attraverso questo mare di cemento, il libro scritto e autoprodotto dal laboratorio Jacob di Foggia, su uno scaffale di una biblioteca, lo metteremmo sotto la sezione dell’Epica, tra La banda Bellini e l’Eneide, non troppo lontano dalle leggende norrene.

Perché la sensazione è proprio quella di avere fra le mani una saga di provincia senza déi, dove eroi da bar si alternano a guerrieri delle strade, Enea da stadio si confondono a Ragnarr Lothbrok antifascisti. Una traversata solcando – appunto – questo mare di cemento che circonda tutti noi figli della provincia, perché se è Foggia il suo bacino, il vento che riempie le vele della narrazione è lo stesso che spira anche in città come Modena e Monza, Verona e Lucca, e chissà quante altre.

Questo non è un libro che prende la polvere in una libreria, credeteci. Proprio perché se è vero che ogni territorio – ogni provincia – è a sé stante, nelle sue 250 pagine racconta una storia che contiene molti dei topos che «quelli come noi»continuano a ritrovare sul proprio percorso.

Il testo, scritto con una penna tra le migliori lette nel 2019 (non scontato a queste latitudini: anche lo stile è uno strumento politico), è un oggetto non identificato, sospeso tra saggio e racconto, pamphlet e appunti per i naviganti, ed è diviso in due parti più una. 

Nella prima, sull’immaginario militante, c’è la partenza, il mollare gli ormeggi, il lasciarsi alle spalle Troia in fiamme. Non c’è più una cittadella da difendere: un mondo, una fase, un modello, sono caduti, e sulle sue macerie, contendendosi brandelli di marginalità e impotenza, banchettano quei pochi branchi rimasti, abituatisi ormai a vivere e riprodursi nella catastrofe compiuta. È questo che, in sintesi, ci dipingono le riflessioni sgranate lungo i primi capitoli, senza tanti politicismi o paroloni. Ma, ci dicono anche, che c’è tutta una nuova storia che ci attende al di là della traversata, una città che aspetta solo di essere costruita, e diventare grande, come annuncia la profezia sulla semplicità che è difficile a farsi. 

La fortezza che abitavamo, ci dicono i Jacobini foggiani, non è stata conquistata dagli eserciti nemici, ma è caduta sotto il degrado della sua stessa infatuazione per una via facile, ragionevole, dedita all’interesse generale: quella della compatibilità con lo status quo dei vincenti, con le istituzioni democratiche dei padroni, con l’autocompiaciuta irrilevanza della mera riproduzione di quello che siamo diventati. Se “noi”, come comunisti e antifascisti, abbiamo perso di fascino, se il nostro immaginario, il nostri stile collettivo che ci identifica, non ha più mordente e attrazione, rispetto a una composizione giovanile e di classe a cui ci troviamo estranei, è anche perché abbiamo per troppo tempo tollerato di essere accostati a chi ha reso le sporche lotte del passato e del presente – come sporca è ogni rivoluzione, guerriglia o guerra civile che si rispetti, compresa quella combattuta dai partigiani italiani: astenersi anime belle – un feticcio vittimista adatto per tutte le stagioni, un contenitore vuoto di riappacificazione piuttosto che di separazione antagonista, una religione civile strumento di dissuasione per chiunque vuole sovvertire lo stato di cose presente. È questa la fine che hanno fatto, per esempio, simboli come il 25 aprile, la «Resistenza difficile», la guerra partigiana, combattuta da uomini e donne imperfetti e contraddittori come noi, disarmati, depotenziati, pacificati dai grigi custodi del riformismo socialdemocratico. È questa l’operazione che si fa sulla nostra storia più vicina, quella degli anni Sessanta e Settanta, come sulle lotte odierne come quella del Rojava. Rendere inoffensive le braci su cui continua a vivere lo spettro dell’incendio, parafrasiamo dai Jacobini, seppellendole in un passato remoto con tanto di lapidi celebrative, rese intangibili nella loro purezza, venerate come qualcosa di superumano fuori dalla portata di chi fa politica in tempi profani. 

Martiri e vittime nei cieli astrali del mito rappresentati come il Bene contro il Male nella celebrazione della romantica Sconfitta, che continuano a stagliare l’ombra del martirologio e del paradigma vittimario sulle narrazioni del presente, contribuendo a far vedere fascisti e reazionari ovunque. Quando invece sono sentimenti e immagini di odio, vendetta e brama di forza, di potere e di vittoria a muovere i soggetti che lottano, la nostra gente, nel tempo della crisi generale della civiltà occidentale. «Sentimenti feroci e una feroce sete di riscatto»: sono questi gli elementi da cui distillare, ci suggerisce lo Jacob, un immaginario potente, un’idea forza, capaci di spazzare via quelli dei nostri nemici. Basta buonismo, semplicmente, ce lo rivendichiamo anche noi.

"Nessun Batman sarà mai Joker. E nessun Buono sarà mai Lee van Cleef. […] È il linguaggio dei ribelli. Stupido e banale, infantile ed ingenuo, arrabattato e confuso, tenuto su con lo scotch da imballaggio. Eppure vivo e vitalissimo, all’alternarsi dei secoli. Il Male affascina più del Bene. I Cattivi affascinano più dei Buoni. E noi, con le nostre remore, le nostre compatibilità di sistema, le nostre posizioni razionali e ragionevoli, i nostri diritti umani e civili, abbiamo smesso di cospirare al Grande Attentato contro la Storia e siamo diventati noiosi come vecchie zie rimbambite, come ammuffiti studiosi della Scapigliatura, come boriosi presidi d’accademia della Crusca. Buoni a togliere l’apostrofo a qual è. Ad un certo punto della nostra esistenza terrena, ci siamo auto-iscritti alle falangi celesti. Alle schiere degli angeli. Proprio mentre in tanti, angustiati e sbeffeggiati da un sistema folle come uno scherzo telefonico, si iscrivevano ai terroristi. Abbiamo scelto di insegnare lo stare al mondo a gente che, sull’argomento, ne sapeva più di noi. E oggi ancora ci chiediamo perché – dalle medie superiori alla catena di montaggio – non abbiamo più fascino."

Non c’è proprio spazio per chi, come la Sinistra, con la sua postura al contempo pedagogica e pastorale, vorrebbe insegnare come si sta al mondo agli “oppressi”, elevando la loro oppressione a chiave del regno dei cieli – la salvezza non oggi, forse domani, dopodomani sicuramente –  quando l’unica cosa che gli oppressi, gli sfruttati, gli esclusi vogliono è non esserlo più, su questa terra, qui e ora. Ancora una volta, noi scegliamo questo rude paganesimo di periferia alle certezze e alla ragione del Verbo, perché facciamo parte delle terre di nessuno, come cantavano gli Erode, a dispetto dei tanti apostoli del progressismo metropolitano.

I capitoli di riflessione sulla narrazione pacificata della Resistenza, sull’immaginario vittimario della Sinistra e sull’antifascismo di ieri e di oggi esprimono con graffiante lucidità e saggezza di strada l’urgenza di una decisa cesura con questa cultura tanto istituzionale che di “movimento”. Noi non siamo i “buoni”, non lo siamo mai stati. Siamo i cattivi che tengono fuori dalla porta gli altri cattivi, il cui mito di ribellismo antisistema è stato costruito ed alimentato dalla stessa Sinistra.

Il capitolo su Di Vittorio è uno di quelli che ne dà un esempio tra i più incisivi, perché è un Ettore col revolver, un furioso. Lo svuotamento del mito per trasformarlo in agiografia, il guerriero che diventa martire, quello che – più vicino a noi – abbiamo visto nell’epica dei partigiani, trasformati da guerriglieri comunisti a costituzionalisti con gli anfibi. 

Ma forse più di tutto sentiamo nostra l’attitudine ultras e stradaiola dello Jacob, con tutti i suoi pregi militanti e limiti politici di cui – compresi gli autori – siamo coscienti, che sforna alcuni dei capitoli più veri, entusiasmanti e affini che ci è capitato di leggere. Il mito fondativo, l’atto folle – si dice – contro i fascisti all’inaugurazione del loro covo, terribilmente ir/razionale, capace di scommettere ancora sulla strada rilanciando tutto. Una caricache prima di travolgere i nazisti bastona i compagni arresi di oggi, e ci dice che la violenza, nell’immaginario, nella cultura e nella politica di strada, ha un ruolo imprescindibile, che dobbiamo saper intelligentemente maneggiare. «Marchiare a fuoco un’appartenenza […]. Sancire, a chiare lettere – vero o non vero che sia – che in strada ci stiamo da prima e meglio». Parole sante. Questo l’abbiamo sentito appartenerci – in un modo diverso, ovviamente, che ha a che fare con la nostra storia e la storia della nostra città – perché anche il nostro mito fondativo l’abbiamo raccontato, perché le storie che combattono la paura partono così, dai racconti davanti a un campari fino alla carta stampata di un libretto antifascista.

Nella seconda parte, molto densa per le preziose elaborazioni contenute, c’è il seguito dell’epopea: la ricerca dello spazio, la fondazione dello Scurìa, la storia comune del centro sociale che ha segnato, che ha fatto crescere collettivamente i compagni dello Jacob, e che ha rappresentato per Foggia un’importante esperienza di autorganizzazione. E c’è la sua fine, la consapevolezza che le oasi nel deserto, anche quando non sono i ghetti folkloristici che ci siamo costruiti, non durano mai in eterno, che sia per l’azione dei caschi blu o per l’esaurimento fisiologico delle fonti. 

Per questo i vari ed eterogenei capitoli, partendo dalle esperienze dei compagni foggiani, provano a stendere un filo rosso di riflessione sugli approcci e i respingimenti tra militanti e cultura popolare, fenomeni sociali e radicamento territoriale. Le guerre di simboli, di scritte sui muri e goliardia, l’uso del pop e del nazionalpopolare come armi contro i fascisti ma anche contro i vecchi e nuovi spocchiosi dei cenacoli radical chic, la fierezza della propria identità cittadina e provinciale, rappresentata dalle sagre comunitarie e dalle feste patronali, ma anche dallo stadio, dal tifo e dagli ultras tanto vituperati dai compagni “belli tondi e ragionevoli”, dai medi progressisti , dai politicanti di movimento… la carne al fuoco è davvero tanta e davvero importante, ed è difficile ridare un’immagine della profondità e dell’ampiezza dei nodi nevralgici toccati dagli autori in questo manuale di guerra della militanza. Perché ognuno di questi nodi sono momenti, situazioni e luoghi di intervento che gli amici di Foggia hanno provato a sperimentare da una postura altra, anticonformista rispetto al “libretto d’istruzioni” che i collettivi generalmente seguono, per tentare di costruire davvero – senza raccontarcela come facciamo buona parte delle volte – internità, radicamento, legittimità, consenso e conflitto tra la composizione di classe che vive tutte quelle contraddizioni sociali che fascisti e imprenditori politici hanno buon gioco di far esplodere orizzontalmente, invece che verticalmente.

Un insegnamento di fondo, che ritorna: che ricominciare da capo non significa tornare indietro, ma che un nuovo inizio parte solo tracciando una linea con un ciclo. 

"Eravamo stufi dei non luoghi d’oblio imbandierati d’apparente appartenenza politica; dei rifugi post-atomici, delle fughe prospettiche dalla realtà, dei rassicuranti angoli di salvezza dal mondo. Stanchi di essere identificati con la disappartenenza, l’estraneità, la mediocrità. Stanchi dei “ribelli” saccenti, inoperosi e dannosi, degli alienati, degli scrocconi, dei furbi. Stanchi della mentalità sottoproletaria alla continua ricerca di approdi, reddito o moventi. Stanchi che la “compagneria” debba identificarsi o essere identificata nei cessi sporchi, nei giacigli raffazzonati, nelle chiazze di vomito, negli alcolici di sottomarca, negli stati di incoscienza, nei ripari di fortuna. Volevamo un posto – e una compagnia – che ci sarebbe piaciuto incontrare sul nostro cammino, a sedici anni. E che ci piacerebbe incrociare ancora ad ottantadue. Figli della strada e dei quartieri in mezzo alle strade e ai quartieri. Ad altri figli e ad altri padri e madri. Non un paradiso artificiale, ma una cinghia di trasmissione."

«Uccidi la zecca che è in te», sembrano dire i compagni foggiani: anche questo ce lo rivendichiamo, e lo pratichiamo.

Ne danno prova i capitoli davvero liberatori sulla guerra culturale, di simboli e di immaginario, che deve essere combattuta non solo contro boneheads con le svastiche o i camerati incamiciati con i risvoltini, ma soprattutto contro il clan dei progressisti virtuosi che «odia il popolaccio perché non lo vive, non gli appartiene (non più, forse), non lo capisce. Lo osserva, con un misto di terrore e disprezzo», il quale ha propaggini ben salde nel cosiddetto “movimento”, che riesce a sdoppiarsi tra l’adesione alle logiche delle gerarchie accademiche e l’apologia acritica del sottoproletariato più tossico. La sinistra borghese, «un grosso bisonte idealista e opportunista con le zampe in fuga dalle sabbie mobili del reale», sempre pronta a etichettare come «fascista» ogni manifestazione spuria e mistificata di rifiuto concreto, di fatto concedendo ai fascisti veri il monopolio della rabbia. La sinistra pedante e intellettuale rappresentata dal «Partito di Repubblica», e in particolare dall’Amaca di Michele Serra, su cui alcuni capitoli si soffermano, che sì è fatta strumento della classe dominante anche quando si presenta come “compagna”, nascosta da una felpa col cappuccio, una canna in bocca e rasta nei capelli. Noi non siamo zecche, e non abbiamo un cazzo da ridere nel dirlo.

Attenzione però: quella dei foggiani non un’apologia della stanca retorica da militante di seconda mano, che si riempie la bocca di «Strada», «Quartieri» o «Lotte» ma che attraverso un’adesione acritica, quasi pavloviana, alle comodità dei nostri recinti finisce per isolarsi nuovamente, nella sua strada, nel suo quartiere, nella sua lotta; suoi nel senso della sua testa. I compagni dello Jacob lo dicono chiaramente: quelle cose sono reali e sporche di contraddizioni e nella realtà bisogna viverle, anche criticarle, per capirle.

Concludendo. Attraverso questo mare di cemento è uno strumento prezioso, in questi tempi avari di efficacia, profondità e brillantezza d’analisi, per ripensare noi stessi, alla nostra essenza e attitudine come alla nostra forma comunicativa e al nostro immaginario, capace di rimettere in discussione le certezze che molti danno per assodato per tornare a navigare negli oceani inesplorati che ci si parano davanti. Non possiamo nascondere che questo libro lo sentiamo nostro, in quanto con le dovute differenze legate al territorio e alle strategie, ripercorre un po’ la nostra storia. Forse è per questo che in certe parti del “movimento” non siamo ben visti. Ce ne facciamo una ragione, quello che ci interessa è che come a Modena e in altre città di questo paese, ci sono compagni che hanno il coraggio di ragionare autonomamente e avere la lucidità e la freddezza di analizzare una fase che ci vede in netta minoranza. Ma Lenin ce lo ha fatto vedere, che quando le minoranze non sono minoritarie e sono organizzate, va a finire che scrivono la storia…

Fatto sta che – tra quindici o vent’anni, o forse meno, chi può dirlo? – torneremo ad occupare un posto nell’immaginario collettivo. E verremo ricordati – e torneremo d’attualità – per l’apocalisse che sapremo annunciare. Non per le analisi puntuali, per le inattaccabili disamine, per il controesame del teste; non per la solidarietà, il mutuo soccorso, lo sport popolare. Ma per la capacità che avremo, profeti dispersi e annichiliti, guerrieri dalle armi contate a guardia d’un ridotto di montagna, di vaticinare la catastrofe. Di indicare un nemico oltre la cortina fumogena degli interessi pubblici trasversali. Di evocare […] i draghi del futuro prossimo venturo. Di legittimarci come gli unici padroni del fuoco.