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Il monologo della vendetta

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Considerazioni di Julia Page a partire da Joker

Su Joker si potrebbero dire tante, tantissime cose - come, in effetti, già in molti, se non quasi tutti, hanno già fatto. Si potrebbe commentare la fotografia, oppure la (meravigliosa!) colonna sonora, oppure ancora l’indiscutibilmente splendida, commovente, struggente performance di Joaquin Phoenix. Ma uno spettatore che si ritrovi a guardare Joker indossando le lenti del militante - a patto, ovviamente, che siano ben calibrate - inevitabilmente si ritroverà a notare ben altro, o almeno a notarlo prima di tutto il resto. Perché Joker - o Arthur? - entra subito in dialogo con una parte recondita di noi stessi, una zona d’ombra dove la nostra natura di militanti entra in contatto con quella di soggettività cresciute, allevate, collocate e martoriate dal e nel capitalismo contemporaneo. Quella parte, cioè, dove più agiscono le contraddizioni, su cui quotidianamente incidono i processi di formazione e, specularmente, di controformazione, ad opera del nemico. E questo dialogo, che segue peraltro il passo dello sviluppo del personaggio, si attiva soprattutto grazie all’immedesimazione - quasi istantanea - con Arthur.

Un’immedesimazione che, attenzione, non si innesta sulla mera proiezione sulla trama del film del proprio vissuto, né tantomeno della propria bandiera ideologica, ma piuttosto sugli elementi strutturanti che gradualmente portano alla nascita di Joker. Prima fra tutti la solitudine. Quella di Joker, infatti, non è una storia fatta di personaggi principali e secondari, di intrecci e di colpi di scena. Anzi, a pensarci bene nel film non “succede” (nella declinazione cinematografico-holliwoodiana del termine) proprio un bel nulla. Quello di Joker è piuttosto il monologo interiore di Arthur: un monologo che, però, conosciamo già a memoria, perché vissuto, in misura e con modalità diverse, sulla nostra stessa pelle. Un monologo che ci parla di violenza strutturale, fisica e psicologica, di abbandono, di esclusione, di patologizzazione, di frustrazione e - udite udite! - di rabbia. Di odio. Di vendetta. Per questo Arthur non ci fa - non dovrebbe farci - pena. Perché a creare il processo di immedesimazione non è una supposta condizione di vittimità di Arthur - che pure è una vittima del sistema capitalistico - ma la sua reazione: la potenza, la crudezza e la brutalità del gesto vendicativo. In altre parole, se a modo nostro siamo tutti un po’ Arthur, riusciamo ad identificarci a pieno con lui solo quando apre le porte a Joker, perché è Joker a spezzare e rifiutare la narrazione perdente di subalternità, di pietismo e di compassione. L’immedesimazione trova cioè il suo cardine nel desiderio di vendetta, e soprattutto nella giustizia, nella sostanziale legittimità dell’azione vendicativa. Quando Joker comincia ad uccidere, non riusciamo a condannarlo, anzi: il ritmo incalzante della metropolitana ci sorprende a mormorare “fallo, ti prego fallo” e a tirare un sospiro di sollievo per quello che dalla controparte verrà sicuramente etichettato come eccesso di legittima difesa.  

Questo significa forse che Joker sia un compagno? Niente affatto. E non è nemmeno un fascista, con buona pace di chi tenta sempre di ricondurre il mondo alle nette e rassicuranti categorie del bene e del male. Perché in Joker sono proprio quelle le prime categorie a saltare. A Gotham City non ci sono più eroi. E per chi è abituato a tifare per i buoni, anche quando siano gli “un-tempo-reietti” portati alla ribalta da una narrazione ideologicamente accattivante, è difficile orientarsi in un mondo in cui tutti sono brutti, sporchi e cattivi. E diciamocelo: tifare per Joker è impossibile. Joker è sporco. Joker è un materiale umano grezzo capace di qualsiasi cosa, al di là del bene e del male, è l’incarnazione di una tragica ironia esistenziale imperniata sulla solitudine - di fronte al padrone, nelle relazioni, nel lavoro di cura, negli affetti. E in questo sta la profonda veridicità del personaggio di Joker, ovvero nella sua sostanziale irriducibilità alla nota e accomodante categoria di “buono”, anche quando si tenti di ricondurlo nelle mentite spoglie di “vittima” - inflazionato strumento con cui, negli ultimi tempi, anche nei cosiddetti “ambiti di movimento” si è provato a ricreare la manichea distinzione tra bene e male. Una distinzione che è innanzitutto divenuta ormai infungibile nei confronti di una composizione che il capitalismo ha impoverito, depredato ed espulso in nome della sua stessa sopravvivenza, salvo poi scaricarvi tutti i costi  - economici, sociali, antropologici e psicologici. Ma, soprattutto, una distinzione che assomiglia a quella reazionaria della controparte quando ci parla di “barbarie”, come categoria contrapposta alla “civiltà” occidentale.

Il punto è invece proprio il disprezzo che un metaforico Joker dimostra nei confronti dei benefici della civilizzazione, del progresso, dell’umanesimo occidentali - proprio perché da quei benefici viene di fatto escluso. È così, allora, che al gesto obbrobrioso della vendetta, inteso come possibilità di fronte a cui non indietreggiare, segue un momento di trasformazione dell’esistente - nel caso di Joker, sì, puramente individuale e assolutamente pre-politico, nonché votato al nichilismo. Il barbaro, chiuso in uno squallido bagno, anziché crollare e chiedersi sconvolto “che cosa ho fatto?” dopo essersi specchiato nella propria mostruosità (come peraltro prevedeva la sceneggiatura originale, e ringraziamo Phoenix per l’improvvisazione che ci ha forse salvato da una grande delusione), inscena una danza elegante, potente, liberata e liberatrice, in cui Arthur decide di lasciare spazio a Joker - ovvero alla vendetta. Barbarie? Tutt’altro. La decadente immagine di un sorriso insanguinato è, al contrario, tutto ciò che ci rimane della civiltà occidentale: una crisi eterna, un tempo precario che trasforma la promessa del futuro in una minaccia e la nostra tragica esistenza in un’ironica commedia. Non è forse ironica la pretesa capitalistica di un sorriso forzato - perché “everything must go” - dal momento che è proprio il capitalismo stesso ad imporre una precarietà deprimente e paralizzante? Così l’ironia, quel sorriso auto-imposto con l’orrore sanguinario, essendo per definizione un eccesso di senso, un altro senso possibile, diviene sospensione (dal sapore nichilista) di qualsivoglia forma di responsabilità soggettiva e individuale verso il mondo così com’è, e dunque dissoluzione del senso di colpa. In altre parole, vendetta.

Il nodo dell’immedesimazione rispetto all’esclusione dai benefici della “civiltà” e nel conseguente desiderio di vendetta, infatti, è proprio quello fa accendere la miccia di Gotham City: “kill the rich”, macchine in fiamme, proteste. E ancora una volta, il rischio di cadere in errore. Pensando che dovremo solo stare in poltrona con i pop corn ad aspettare che un Joker spunti da qualche parte per far nascere un bel movimento di gente agguerrita con la maschera. Perché se non siamo noi a indicare il nemico, se non siamo noi a seminare le direttrici dell’odio dei pagliacci di domani, di Joker che sparano nella metropolitana ce ne saranno - come ce ne sono già stati - ma non lo faranno contro i ricchi, quanto piuttosto verso il basso. Perché se un giorno ci sarà una città data alle fiamme dai clown, o avremo indossato quelle maschere da abbastanza tempo per direzionare quell’odio, o quell’odio avrà già preso una direzione diversa. Una direzione a noi avversa. E invece è solo indossando quella maschera da abbastanza tempo che potremo guardare il mondo bruciare, sorridere estasiati e dire “non è bellissimo?”.