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Dall’autonomia del negativo all’autonomia operaia

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Marco Spagnuolo rilegge Nicola Massimo de Feo

Nicola Massimo de Feo (Barletta 1939-Bari 2002), ha insegnato all’Università di Bari per circa trent’anni. Le sue pubblicazioni di etico-politica più note sono: Riformismo, razionalizzazione, autonomia operaia. Il Verein für Sozialpolitik – 1872-1933 (1992), L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale (1992), La ragione sovversiva. Appropriazione e irrazionalismo in Weber, Sombart, Marx (2000).

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Leggere, a distanza di molti anni, i testi di un cattivo maestro è sempre un esercizio di comprensione di uno stile. In particolare, lo stile di Nicola Massimo de Feo era, e resta, quello dell’anticipazione: «questa è parola magica in Nicola Massimo de Feo, due volte magica, la prima perché anticipazione è tendenza, quindi prefigurazione del futuro; la seconda perché anticipazione è sovversione, cioè capacità di distruggere l’oppressione attuale»(1). Per chi non conosce la figura di questo intellettuale-militante, importante se non centrale nella produzione teorico-politica dell’Università di Bari dagli anni Settanta almeno fino ad inizio secolo XXI, la maggior parte della sua elaborazione si situa nelle sue lezioni. Abbiamo, infatti, poco di scritto cui riferirci, e di solito numerosi sono i casi in cui i suoi testi si scoprono essere interventi in occasione di seminari e/o congressi universitari. Questo carattere, che fa di Nicola Massimo de Feo un vero e proprio cattivo maestro, lo ritroviamo nelle parole di uno dei suoi allievi, Andrea Russo: «si può dire che ogni lezione di de Feo era un obliquo incitamento alla lotta. Non era un porre obbiettivi o programmi, ma ogni volta la messa a punto di una potente macchina da guerra che tutti avrebbero potuto utilizzare per produrre nuove lotte a partire dai propri bisogni»(2). 

Oggi, a distanza di diciannove anni dal suo ultimo lavoro, e a cent’anni dal fantastico 1919 (italiano sì, ma per de Feo innanzitutto tedesco), riscopriamo come questa «potente macchina da guerra» possa essere ancora attuale «per produrre nuove lotte». La maggior parte del pensiero critico contemporaneo tende a dividere, come due momenti separati o mettendoli in alternativa radicale, creazione e distruzione, positivo e negativo. Da un lato, il comité invisible, che esalta il momento dell’evento, a scapito del progetto e del processo rivoluzionari, facendo della distruzione la cifra del comunismo; dall’altro, per esempio, Negri e Hardt preferiscono certamente il momento positivo/produttivo, tendendo però spesso a dimenticare quello della distruzione, il negativo, o passandolo molto velocemente in rassegna. De Feo è stato uno di quei teorici che è riuscito a mantenere sempre insieme i due momenti; in esso appare in maniera evidente che dove si dà produzione si dà anche distruzione, e viceversa. Vedremo, ora, come questo legame si dia tanto sul piano teoretico quanto politico. 

L’autonomia del negativo contro l’autonomia del politico

Sempre più spesso, sentiamo nuovamente parlare di autonomia del politico, soprattutto in questo periodo di «ubriacatura» a sinistra di sovranismi et similia. L’autonomia del negativo è servita per lo più a supportare teoreticamente questo discorso, concretizzato politicamente negli anni, seppur con radici lontane. Ma l’autonomia del negativo apre anche all’opposto di questa mortifera passione per lo Stato, apre cioè alla potenzialità di un progetto rivoluzionario: l’autonomia sociale, la rivoluzione sociale.  

C’è un potente capitolo de L’autonomia del negativo, in cui de Feo incomincia il discorso su sovversione/liberazione a partire da I demoni di Dostoevskij. Commentando il celebre romanzo, ci dà una descrizione perfetta di quanto andiamo chiamando rivoluzione: «come mutamento dell’esistente, la rivoluzione non opera né si realizza come qualcosa di diverso, o alternativo all’esistente, ma come il suo momento fondativo o realizzatore». La rivoluzione non inventa, essa rompe con la temporalità a partire proprio dai possibili «non realizzati» presenti in essa. La rivoluzione è un agire contro la storia, è la violenza umana che si leva contro la barbara «pace» del dominio, del controllo, della ragion di Stato. In essa, «l’azione fuoriesce dalla possibilità di controllo dei soggetti, ed attua da sé tutta la potenzialità distruttiva del rivolgimento sociale che si mette in moto». Qui si dà il «demoniaco» che «esprime questo sfuggire di mano dell’azione sovversiva, che si autonomizza dai soggetti che la pongono in essere»(3). L’impersonalità e l’inevitabilità non sono caratteri di un’epica della rivolta, di una poetica dell’insurrezione, né di uno spirito assoluto della rivoluzione o addirittura di un meccanicismo da assecondare. L’impersonalità si dà nei termini della rottura della gabbia dell’io, del salto in una prospettiva moltitudinaria. L’inevitabilità, poi, non è da intendersi nei termini di un «fatalismo deterministico» che aspetta la rivoluzione nel «momento giusto» (momento che, accomodati sulle poltrone, si pospone di volta in volta, per poi dimenticarsene); essa è invece il prodotto del superamento della soglia di irreversibilità cui la sovversione porta. Non un passo indietro: anche volendolo, sarebbe troppo tardi. 

Ancora un attimo sulla lettura «sovversiva» de I demoni. De Feo passa “in rassegna” gli affetti descritti da Dostoevskij, e in particolare poi la disperazione e l’angoscia. Fermarci un momento su questa descrizione è importante per comprendere la radicale opposizione dell’autonomia del negativo all’autonomia del politico. «La disperazione e l’angoscia […] questa condizione e rapporto contraddittorio, che scopre nella distruzione dello stato presente il movimento di liberazione e di riappropriazione della vita nelle sue infinite potenzialità – il comunismo – radicalizza, nell’estraneità e nell’alienazione, l’antagonismo, la lotta di sé contro gli altri e contro se stesso, distruggendo e liberando nello stesso tempo gli altri e se stesso». Qui, la famosa indicazione di Tronti della lotta della classe operaia contro se stessa trova una sua formulazione “superiore”: il comunismo è una lotta anzitutto contro le resistenze che abbiamo in noi stessi. Bisogna ammazzare prima di tutto il reazionario che è in noi. Di nuovo, il rapporto tra possibili «non realizzati» e reale soffocante; il comunismo è la rottura dell’esistente, dentro e contro di esso. Non c’è, a questo livello dell’analisi, alcun bosco in cui rifugiarsi. Ci sono solo i due lati delle barricate: qua o là. «Liberazione delle possibilità infinite e illimitate di essere e distruzione della sua gabbia, l’io come coscienza ipertrofica, e la disperazione è questo movimento di distruzione e liberazione»(4): nella sovversione la liberazione, nella liberazione la sovversione.

Per tessere la geometria di questa macchina da guerra, de Feo riprende Il catechismo rivoluzionario di Nečaev. In esso, infatti, «l’arte della sovversione, il rovesciamento di tutti i valori, il pensare a colpi di martello, si strumentano all’interno e come progettazione e costituzione organizzata e sistematica della volontà di potenza: violenza e menzogna, dalla lotta alla guerra dispiegata di tutti contro tutti, appropriazione, esercizio della forza, azione diretta e conquista di nuovi territori di libertà e di potere di conoscenza, di scienza, di prassi». Allora, troviamo l’importante differenza tra autonomia del negativo e autonomia del politico. La prima è radicale rottura, salto nel e apertura del possibile, negazione dell’esistente (inteso come possibili realizzati), in ultimo è sovversione; la seconda è conflitto congiunturale, che può essere re-indirizzato in una prospettiva rivoluzionaria così come in una socialdemocratica e riformista. Ricordiamoci che il PCI non negava il conflitto politico, ma esattamente l’antagonismo sociale. Ma qual è lo scarto tra queste due dimensioni dell’agire rivoluzionario? «La volontà di potenza è il principio neceaviano della violenza come principio che anima e regge il divenire della storia e della natura, che regola il legame antagonistico che unisce disperazione e liberazione, angoscia e felicità. Offesa, violenza, sfruttamento, oppressione e appropriazione sono non solo elementi e forme necessarie della vita, “essenzialmente”, ma anche le condizioni e gli strumenti di liberazione della vita, l’“essenza del vivente”, “volontà di vita”»(5). La differenza, ci dice implicitamente de Feo qui, corrisponde a quella tra l’«ultimo uomo» e l’«oltreuomo»: il primo, col suo nichilismo attivo, vuole perire per dar vita all’oltreuomo; il secondo, con la sua volontà di potenza, è continua affermazione, è il «sì». Nell’antagonismo sociale, insomma, vengono affermati appunto questi due elementi – essenza del vivente e volontà di vita

Finalmente, possiamo vedere come funziona il rapporto autonomia del negativo/autonomia del politico. Infatti, «ponendosi come unico e fondamentale strumento della rivoluzione sociale, la rivoluzione politica soffoca l’autonomia proletaria, riproducendo la struttura di dominio della società di classe, riducendo la lotta sociale a lotta politica e l’autonomia sociale all’autonomia del politico». Siamo al centro dell’analisi – sociale e politico sono la forza attiva e la forza reattiva del soggetto rivoluzionario. In altre parole, se l’antagonismo sociale riesce a essere egemonico sul conflitto politico (e a dirigerlo), quest’ultimo può funzionare da catalizzatore e conservatore della produzione politica/giuridica/etica nei vari salti. Qui, de Feo dà un’inedita definizione della volontà di potenza: «l’autonomia del sociale nella molteplicità infinita delle possibilità soggettive ed oggettive, naturali e storiche di sovversione e di violenza molecolari» (6).

Si riscopre, dunque, a questo livello il saldo intreccio tra azione creativa e azione distruttiva nell’agire rivoluzionario. In particolare, il richiamo alla volontà di potenza de Feo non lo fa per caso o per questioni di stile. Infatti, il cattivo maestro mobilita apollineo e dionisiaco, scoprendo come essi siano i caratteri etico-comportamentali delle classi in lotta. Leggiamo: «la sovversione dionisiaca è la lotta di classe proletaria dell’altro movimento operaio, al di fuori e contro la razionalità scientifica e tecnologica della produttività capitalistico-statale: il sabotaggio come forma di lotta specifica contro il dominio tecnologico del lavoro astratto, riappropriazione della vita, della corporeità, dei sensi, della sessualità e del piacere, forme infinite del tempo liberato dal dispotismo del lavoro e del tempo misura del valore di scambio». Sovversione dionisiaca – sabotaggio, riappropriazione, liberazione. Sovversione dionisiaca – «riappropriazione dell’unità infinita di ricchezza di vita – il caos orgiastico dell’eterno ritorno nietzschiano – attraverso la distruzione dell’astratta identità separata e frammentata di soggetto-oggetto, di coscienza e di corpo, di io e di mondo, che sono le contraddizioni dell’etica di dominio che regge e pianifica la razionalità apollinea dello stato presente del valore e del lavoro, che è anche la distruzione di sé come potere separato e progetto di dominio» (7).

Il momento del passaggio dall’elaborazione teoretica al rompicapo strategico-politico è vicino. Il negativo, il sociale, emerge nella sua rottura ma inizia ad affermare: riappropriata la vita, che farne? Su cosa si dirige direttamente la macchina da guerra di de Feo, dov’è cioè il suo punto di traduzione da teoria etica a teoria politica? La risposta ci arriva subito: «al di fuori e contro la forma di valore dello scambio di equivalenti, la sovrabbondanza di ricchezza liberata nella produzione come sistema di reciprocità-socialità-unità diretta di corpi […] emerge e si attua nello scontro sociale e nella lotta di classe tra il proletariato espropriato e il sistema di dominio tecnologico dell’espropriazione e reificazione capitalistica, che si riproduce attraverso la pianificazione sistematica della scarsità, il sistema di violenza del lavoro, il “furto del tempo di lavoro”, assunto a misura di valore della produzione sociale, nonostante e contro l’egemonia diffusa ed emergente dell’autonomia dei bisogni prodotta dalla socializzazione della produzione» (8). L’antagonismo, ancora, si darà sulla ricchezza, sui bisogni, sulla socializzazione della produzione; il negativo, nella sua autonomia, già nella rottura, nel sabotaggio, nella dionisiaca sovversione dello stato di cose presenti, stende la traccia di un discorso di produzione, autovalorizzazione, creazione. 

Moltitudine: nome di un’anticipazione innominata 

Per riprendere il discorso teoretico nella sua potenzialità politica bisogna fare un passo indietro. Esattamente, nel 1985: sette anni dopo il maxi-processo contro l’Autonomia Operaia. La distanza “ravvicinata” e successiva al 1979 non è casuale, né da richiamare esclusivamente perché quest’anno è il quarantennale dell’inizio di quell’infame processo. De Feo, nel 1985, nel pieno della repressione – oltre che, ovviamente, politica e sociale – accademica di quegli anni, in cui si andavano radicando i germi non solo dell’autonomia del politico, del riformismo come unica via, del compromesso storico ormai dispiegato, del pensiero debole, ma anche e soprattutto di una “fine della Storia”, del compimento del processo – de Feo era a Trento per dire, attraverso Weber, che: «lo spazio teorico della razionalità calcolistica, costruito entro lo schema astratto-pragmatico del rapporto tra scarsità dei mezzi e sovrabbondanza dei bisogni, è l’unico e solo mezzo di misurazione-organizzazione-razionalizzazione-dominio – la “sussunzione formale” di Marx – dell’infinita produttività sociale illimitata dell’essere sociale e naturale». Perché, in altri termini, «l’infinita ed illimitata anarchia dei bisogni che Weber sussume nella nozione di “razionalità materiale”, nel tentativo di strozzarne le punte antagoniste e sovversive, neutralizzando l’autonomia politica dei nuovi movimenti e azioni di massa emergenti dell’altro movimento operaio dei lavoratori non qualificati […] che, pur in vario modo, dall’anarchia dei bisogni tentavano di costruire un nuovo programma di rivoluzione sociale» (9). Cosa c’entri questo con la fase storico-politica in cui il cattivo maestro barlettano interveniva, e con quanto stiamo dicendo qui, è presto detto: tutto il pensiero, da quello liberale fino a quello social-democratico, dal campo politico a quello accademico, si mosse all’unisono proprio a partire dalla razionalità materiale. Razionalità del capitale e del mercato mondiale, da una parte; razionalità delle forze progressiste e dello Stato, dall’altra. 

Ma in questo livellamento, anche pratico se pensiamo alle torture e agli arresti di massa di quegli anni, continuavano a levarsi alcune voci, fra cui la sua. L’antagonismo, la possibilità della sovversione, il progetto del comunismo – anche nella repressione più feroce, questi elementi rimangono come eterna “malattia” di quel mostruoso rapporto sociale che Marx chiamò capitale. Il capitale, la sua violenza, il suo progetto di dominio e controllo si danno, infatti, «nella fabbrica, come divisione, combinazione e disponibilità del lavoro “formalmente libero”; nella società, come reticolato microfisico dell’“esercizio del potere di disposizione”, nelle sue forme razionali-legali e non razionali e non legali dell’autorità e del dominio, dell’inevitabile e inconciliabile lotta di interessi, contrasti di bisogni, desideri di potere e contropotere antagonisti, che costituisce la base materiale dell’irrazionalità “politeista” della società civile; nello stato, come esercizio di “violenza legittima”, razionale-legale e irrazionale-illegale, contro il nemico interno, nelle accennate forme istituzionali e contro-istituzionali della microfisica del potere, contro il nemico esterno, nelle lotte di potenza imperialista dello stato nazionale e multinazionale» (10).

I due libri da cui siamo partiti si situano sette e quindici anni dopo questo intervento. Nel pieno di quella fase, che si credeva di transizione e per questo chiamata inizialmente «post-fordismo», in cui si andavano tessendo la governance e le istituzioni della sovranità imperiale, distruggendo la soggettività-operaia occidentale sulla quale poi si sarebbero costruite le successive (il precariato come forma di comando, il lavoro di cura e il lavoro cognitivo come dimensioni egemoniche). Nella transizione dal sistema socialista del capitale al comunismo del capitale, de Feo resta coerente al metodo. E per essere coerente al metodo, deve ora applicarlo alle soggettività, istituzioni, sistemi di dominio, pratiche di sabotaggio, ecc. emergenti. È esattamente quanto fece. 

Nel sistema capitalistico c’è una legge che serve, nella schizofrenia nei termini di razionalità/irrazionalità, al suo mantenimento: non la conservazione, ma la cattura continua dello slancio creativo delle forze antagoniste. Se l’eccedenza non normalizzabile (irriducibilmente rivoluzionaria) viene repressa e distrutta, le punte innovative dell’antagonismo sociale (non raggiunto il punto di irreversibilità dei processi) vengono riassorbite nella macchina di ristrutturazione del sistema. Degli anni Ottanta e Novanta, oggi, la nostra generazione – la generazione post-g8 del 2001 – trova traccia delle presenti sconfitte: passività, morte, consumo, rilancio della schumpeteriana narrazione eroica dell’imprenditore. Sul versante delle lotte, solo morte e distruzione, come se per due decenni non si sia prodotto nulla. Anni Ottanta e Novanta: se dovessimo ricostruire una storia non-genealogica dei movimenti a partire da quanto ci è lasciato, diremmo solo che c’è stata una pausa ventennale tra la sconfitta del 7 aprile 1979 e la “sconfitta” del 2001. Insomma, niente di che, vent’anni di vuoto tra due sconfitte. Invece, de Feo – nella sconfitta – vede in controluce la possibilità di un rilancio, la promessa di una scommessa politica: «e qui l’apollineo – la “volontà di verità, di realtà, di essere”, l’ontologia esistenziale della individualità scissa e frammentaria dello stato presente, lavoro morto, capitale, l’appropriazione dell’avere nella forma e misura dell’esistente dato, la creazione, nel sogno e nella realtà, del principio di produttività e di prestazione, omologazione del valore di scambio, lavoro equivalente come illusione, menzogna e simbolo della volontà di potere, tutte le determinazioni della volontà di potenza, di oppressione e di sfruttamento – si manifesta-appare-si costituisce come forma antagonistica, prodotto e provocazione nello stesso tempo, dell’insorgenza sovversiva sociale, del dionisiaco, dell’unità violenta sulla frammentazione, dispersione e dissolutezza» (11). L’apollineo, lo spirito razional-calcolatore del capitale, il buon senso degli Ottanta, il tradizionale dei Novanta (ricordiamo, ironicamente ma non tanto, che in questi vent’anni ritornò d’uso l’espressione «fidanzati»), possono essere sempre, qui ed ora, rovesciati. Volontà di potenza e strategia politica, insurrezione e sovversione; nuovi tessuti per vecchi telai: «solo non ritenendo il comunismo inevitabile, esso sarà inevitabile» (12). 

Nella sconfitta, militare e politica, del tentato assalto al cielo degli anni Settanta, nello spirito apollineo delle soggettività distrutte nella transizione all’attuale forma del modo di produzione di capitale, nel post-fordismo cioè le nascenti soggettività avevano in sé la possibilità del salto, della rottura, della curva retta. La sovversione «si esprime nelle forme antagoniste della sua esistenza conflittuale, come lotta e guerra di classe e di individui coinvolti nella sussunzione reale del capitale, incanalate nelle forme e meccanismi di integrazione e di distruzione dello stato e dei movimenti che l’attraversano» (13). La moltitudine, quella moltitudine che nel 2001 avrebbe, con i suoi corpi desideri saperi volontà, sfidato i potenti della Terra – eccola qui come possibilità non nominata. Eppure c’è, in tutta la sua potenza. 

Questo è il contesto che precede e rilancia l’anticipazione strategica di de Feo. Infatti, l’introduzione de La ragione sovversiva rende conto di ciò, richiamando ai possibili aperti nella stagione emergente: «il nostro presente è tutto dentro questa condizione, in cui si esprime la forma più significativa del movimento dell’autonomia del negativo dell’attuale sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali: le forze distruttive dell’appropriazione diretta scatenata […] sono anche, nello stesso tempo, le forze della creatività rinnovata di riappropriazione di spazi nuovi e incommensurabili – di vita, di soggetti, di corpi, di desiderio e di piacere che le forme nuove del sapere antagonistico dell’intelligenza collettiva dischiudono» (14). Ancora una volta, ritorna quel dentro e contro che definisce la militanza, lo stile della militanza qual’è la postura operaista. 

Lo scarto, il salto in avanti, la scommessa, si giocano sulle trasformazioni del lavoro. De Feo rilancia la questione, indagando come combinando Weber, Sombart e Marx sia possibile aprire nuovamente spazi di antagonismo sociale e politico. Il lavoro viene «assunto da Weber come “prestazione” (“Leistung”), “impiego di tempo e fatica”, “lavoro immediato”, dice Marx. È il significato proprio del lavoro che, “per motivi sociali”, è definito come “orientato da disposizioni”, “lavoro comandato”, nel senso di Smith, “lavoro salariato”, per Marx. In senso più generale, il lavoro invece appare una “prestazione disponente”, lavoro direttivo, professionale, “vocazione”». Oggi, sappiamo benissimo come il termine «prestazione» di lavoro non sia che un modo per non nominare il lavoro stesso (parliamo, sempre di più, di «prestazione di servizi» anziché di «impiego di tempo e fatica»). Tuttavia, la prestazione si inserisce nella teoria weberiana della razionalità, nell’azione sociale dotata di senso; no, non stiamo dicendo che il lavoro, specie quello di fabbrica ieri, sia un’azione sempre dotata di senso. Infatti, è proprio su questo che de Feo insiste, rovesciando il rapporto razionalità/irrazionalità, dove la prima spettava – in Weber – allo Stato e la seconda all’antagonismo sociale. Invece, qui il piano salta: la razionalità al lavoro vivo, l’irrazionalità al capitale: «se l’appropriazione operaia (socialismo, autogestione,  consigli di fabbrica) è posta sullo stesso piano dell’appropriazione monopolistica, l’espropriazione operaia dai mezzi di produzione è la condizione indispensabile della razionalità economica». Di più, anzi, perché sono proprio «espropriazione operaia e appropriazione capitalistica [a guidare e produrre] l’imprenditorialità come unica “forza rivoluzionaria autoctona di carattere rivoluzionario”» (15). 

Il lavoro vivo non solo può autogestirsi nelle differenti forme di appropriazione operaia, ma anzi può andare più lontano nella sua lotta di liberazione: investire l’imprenditorialità, nell’attacco al sistema del capitale, come forza rivoluzionaria. La forza-lavoro conquista il comando, la direzione – strategia alla moltitudine! Questo, però, de Feo non lo dice… 

Qui siamo arrivati all’anticipazione, alla moltitudine come imprenditore comunista. Negri e Hardt, in Assemblea, parlano appunto dell’imprenditorialità della moltitudine quale potenza strategica di quest’ultima. Arrivano ad affermare lo stesso percorso di elaborazione. Iniziano affermando la combinazione come essenza dell’imprenditore (16), ma perseverano poi nell’obliare la compresenza tra distruzione e creazione, forze attive e forze reattive, dionisiaco ed apollineo. Infatti, quando parlano del passaggio dall’elaborazione teorica alla proposta politica (17), ripetono ancora lo stesso errore: si immaginano un mondo in cui la moltitudine, voilà, già qui ed ora è libera dal comando, la cooperazione completamente autonoma, tanto da potere «organizzarsi e tracciare la propria tradizione» da sé. Il problema non è esclusivamente ontologico, ma innanzitutto politico: perché descrivere uno scenario da transizione quando non siamo neanche lontanamente vicini ad uno pre-rivoluzionario? 

Ciò che sembra mancare a quest’ultima formulazione di Hardt e Negri è quella che de Feo chiamò «unità violenta», cioè la ricomposizione di classe in chiave insurrezionale, pre-rivoluzionaria – in questo caso specifico, insomma, si tratta di vedere se effettivamente ci sono delle potenzialità per un’«imprenditorialità rivoluzionaria». Ora, questo ossimoro serve perché, nel rovesciamento di senso e di comando della e nella parola «imprenditorialità», l’autonomia di classe o si dà su un piano appunto autonomo (completamente autonomo) o non si dà affatto, rimanendo anzi nel terreno di una possibile sussunzione da parte del capitale in chiave ristrutturativa. L’orizzonte strategico dell’imprenditorialità della moltitudine si può dare solo a partire dalla creazione di una razionalità immanente alla moltitudine stessa. Razionalità immanente alla moltitudine: Lukács, nel capitolo sulla legalità di Storia e coscienza di classe, ci avvertì – bisogna rompere il confronto con lo Stato sul nodo legalità/illegalità, formulando la strategia a partire dalla razionalità della moltitudine stessa. Strategia, qui, sembra quasi confondersi con la tendenza (economica in questo caso), ma invece – calata la teoria nella realtà politica e nel piano della militanza – apre a contraddizioni (e quindi alla sperimentazione di nuove pratiche in grado di rispondere ad esse). Dove la teoria si ferma, la pratica deve avanzare.

 

Note

(1) A. Negri, Massimo de Feo. Fra sociologia tedesca e comunismo anarchico, in O. Marzocca (a cura di), La solitudine non è una festa. Il pensiero militante di Nicola Massimo de Feo, Mimesis, Milano 2006, p.69. Questa citazione, così come la prossima di Andrea Russo, proviene da questa raccolta di interventi che si sono susseguiti al “Seminario di studi sul pensiero di Nicola Massimo de Feo”, organizzato all’Università di Bari il 21 novembre 2005.

(2) A. Russo, L’altro movimento operaio di Nicola Massimo de Feo, in O. Marzocca (a cura di), op. cit., p.109.

(3)  N. M. de Feo, L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, Lacaita, Roma 1992, p.234.

(4) Ivi, p.242.

(5) Ivi, p.247.

(6) Ivi, p.249.

(7) Ivi, p.268.

(8) Ivi, p.269.

(9) . M. de Feo, Calcolo economico e anarchia dei bisogni in Max Weber, intervento al “Seminario su Max Weber” all’Istituto Storico dell’Università di Trento del 15 novembre 1985, ora in N. M. de Feo, O. Marzocca (a cura di), op. cit., p.276.

(10) Ivi, pp.274-276.

(11) N. M. de Feo, L’autonomia del negativo, cit., p.271.

(12) A. Negri, Marx oltre Marx, Manifestolibri, Roma 1998, p.126.

(13) N. M. de Feo, op. cit., p.316.

(14) N. M. de Feo, La ragione sovversiva. Appropriazione e irrazionalismo in Weber, Sombart, Marx, Edizioni B. A. Graphis, Bari 2000, p.XXXI.

(15) Ivi, pp.16-17.

(16) M. Hardt, A. Negri, Assemblea, Ponte alle Grazie, Roma 2019, p.188: «L’essenza della combinazione è la cooperazione. Essa richiede, in altre parole, l’istituzione e la ripetizione di nuove relazioni sociali e produttive».

(17) Ivi, p.192:  «mentre la cooperazione si estende sempre più ampiamente lungo il campo sociale in diffusi circuiti policentrici, nuove combinazioni vengono sempre più organizzate e gestite dai produttori stessi. In virtù della potenzialità di riappropriazione del capitale fisso, come abbiamo prima indicato, la moltitudine diventa sempre più autonoma nell’invenzione e nell’implementazione della cooperazione produttiva. Non sono più necessari i generali sul campo di battaglia della produzione sociale: le truppe, per così dire, possono organizzarsi e tracciare la propria direzione».