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Il divenire Tsipras del M5S

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Articolo di Loris Narda sulla fase di crisi globale

Quella che si è formata come nuova maggioranza in parlamento tra movimento 5 stelle è Partito Democratico è stata denominata maggioranza Ursula, riferita a Ursula Von Der Layen che presto diventerà nuovo presidente della Commissione Europea. La Von Der Layen è stata eletta proprio grazie ai voti nel parlamento europeo del M5S ma non quelli della Lega, che alle europee di maggio aveva previsto una vittoria del fronte sovranista europeo. Invece è avvenuto il contrario, che i sovranisti sono rimasti fuori dai giochi, cioè hanno perso, mentre è venuta fuori la nuova commissione europea legata ai partiti tradizionali, cioè Partito Popolare Europeo e Socialdemocratici, che ricalca quella appena finita guidata da Junker. Una commissione che ha gestito la situazione greca di fatto sostenendo la linea dura della Germania, che per poco non ha visto uscire la Grecia dall’euro.

Questa situazione lascerà a Salvini ampi margini di rappresentanza di tutto quel ceto medio declassato che è contro la situazione esistente di cui l’Unione Europea è un pilastro centrale. Una prateria per chi si proclama contro l’ordine costituito, per quanto lo stesso Salvini in questi mesi di governo – a parte qualche urlo durante la trattativa per le procedure di deficit contro l’Italia – alla fine sia venuto sempre a miti consigli accettando la mediazione di Conte.

Oggi c’è infatti un pezzo importante della composizione sociale che non accetta l’ordine esistente, e seppure in modo ambivalente cerca degli spazi che facciano saltare il tavolo del presente.

Diciamo pure che se domani o fra sei mesi dovesse prendere il potere con un monocolore della Lega, Salvini, messo alle strette, non romperebbe l’euro per tornare alla lira, troppo forti sono gli interessi padronali. Questo avverrebbe soltanto se vi fosse costretto da una nuova crisi dei mercati finanziari, in cui lo spread per i titoli italiani salisse ad un livello per cui o la Germania deciderebbe di fare da garante o si aprirebbe uno dei più grandi default della storia.

E proprio di questi nuovi venti di crisi si torna a parlare a livello globale, per una serie di fattori che stanno portando questa nuova fase di conflitti commerciali mondiali. Quello più vicino a noi è sicuramente quello della Brexit, che uno spericolato Boris Johnson sembra voler portare a casa a tutti i costi, anche senza alcun accordo con l’Unione Europea, e che potrebbe aprire scenari davvero poco controllabili. Johnson si appresta a chiudere il parlamento inglese per un mese pur di ottenere questo obiettivo, e ci fa vedere in controluce che a livello globale esiste una tendenza all’autoritarismo incarnata da premier come Modi in India, Duterte nelle Filippine o Trump alla Casa Bianca.

Poi sicuramente c’è la guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti, due potenze forti che rischiano di schiacciare proprio l’Europa molto più debole e molto legata nella sua produzione di ricchezza alle esportazioni. Questa guerra si sta rivelando estremamente difficile da vincere per Trump, e man mano che avanza si mostra come uno sconvolgimento delle catene di lavoro globali, distruggendo quella fase della mondializzazione che potremmo definire espansiva e che, con alterne vicende, è andata avanti da dopo la seconda guerra mondiale fino alla crisi del 2008 (sotto la schiacciante egemonia statunitense). Una guerra commerciale che potrebbe diventare anche una guerra monetaria, di svalutazione ma anche di messa sotto scacco dell’egemonia del dollaro come valuta globale di riferimento, guardando sempre più alla creazione di criptomonete che ne possano insidiare la funzione. Inoltre, gli Stati Uniti potrebbero direzionare la loro guerra anche verso la Germania e la sua produzione automobilistica che è l’infrastruttura manifatturiera del Paese, proprio come minacciato da Trump fin dall’inizio della sua presidenza.

Sono in essere anche le crisi dei Paesi emergenti, con Turchia e Brasile in grossa difficoltà e l’Argentina prossima ad un nuovo default. Senza dimenticare che oggi, dal punto di vista monetario, le banche centrali si ritrovano molti meno strumenti di quelli impiegati nella crisi del 2008, in quanto già messi in campo in quest’ultimo decennio. La Bce ha in pancia un’enorme quantità di titoli di stato, avendo quasi raddoppiato il suo bilancio, e con i tassi di interesse già in territorio negativo da molti anni (situazione che nel passato era stata soltanto emergenziale). Ci sono poi gli scenari di guerra che si vanno intensificando in molte aree della terra, a partire da quello tra India e Pakistan per il Kashmir, fino a quello legato alla Corea del Nord, e all’Iran e Israele.

In questo scenario ci sembra difficile che si apra una nuova stagione riformistica a livello europeo come auspicato da molti sinistri alle nostre latitudini, e rimane invece molto più probabile una mera gestione dell’esistente. A proposito di questo governo poi non va mai dimenticato la parabola di Tsipras, che da attore che avrebbe dovuto scardinare l’assetto europeo si trovò invece a diventarne il garante e il puntello, dopo aver ingoiato un accordo del Fondo Monetario e della Commissione Europea tutto lacrime e sangue. Ebbene, dopo questi cinque anni passati a mettere in atto questo accordo ora ha vinto il partito popolare in Grecia, come a dire che una volta portato nella compatibilità di sistema di Tsipras non se ne sentiva più il bisogno, che a gestire l’esistente, in fondo, sono più bravi i partiti tradizionali.