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È l’ora della vendetta?

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Articolo di Francesco Bedani, Giuseppe Casale e Andrea Rinaldi sull’esperienza del Padrone di Merda

0. Bologna

31 gennaio 2019; un gruppo di ragazzi mascherati si presenta di fronte ad un noto bar di Piazza Verdi. Vengono lette testimonianze di ex-lavoratrici che hanno subito molestie e violenze a sfondo sessuale. Il bar viene segnalato con adesivi recanti la scritta "questo posto ha un padrone di merda".

1 maggio 2019; migliaia di giovani sfilano in corteo per il centro storico bolognese al di fuori delle commemorazioni sindacali, sanzionando diversi locali dove sono note le condizioni di sfruttamento, irregolarità dei contratti, molestie e lavoro in nero.

12 giugno 2019; dopo la segnalazione da parte della pagina Facebook "Il padrone di merda - Bologna" e la conseguente rimozione di un vergognoso annuncio di lavoro da parte di NaturaSì, il bio-presidente dell'azienda è costretto a incontrare le maschere bianche pubblicamente, davanti ai giornalisti, per chiedere scusa e garantire alcuni fondamentali minimi. L'incontro scoperchierà un vaso di sfruttamento in cui emergerà la ratio dell'azienda in termini di lavoro e assunzioni: tirocini e alternanza scuola-lavoro non pagati spacciati per esperienza. Le maschere bianche risponderanno con una vigilanza attiva sui luoghi di lavoro di NaturaSì a Bologna.

9 luglio 2019; durante l'ennesima azione di segnalazione e denuncia nei confronti di un centro estetico della città reo di non aver pagato arretrati da tre zeri ad una ex-lavoratrice, un ragazzo viene arrestato dalla polizia. Le forze dell'ordine si schiereranno a difesa del locale insolvente, palesando una presa di posizione che pende verso i padroncini cittadini e contro chi esige il giusto salario per il lavoro svolto.

(Per la cronaca, vanno segnalate a proposito le prime recenti denunce per alcune delle azioni svolte, a riprova di quanto appena detto, finanche il paradossale sequestro giudiziario della pagina Facebook (!) che raccoglie le testimonianze.)

Questi sono solo alcuni passaggi. Dal 31 gennaio ad oggi, sono decine e decine i bar, ristoranti, pizzerie, pasticcerie, agenzie immobiliari, padroni di casa, b&b, agenzie di servizi, ecc. segnalate e sanzionate dalle maschere bianche organizzatesi attorno alla pagina Facebook "Il padrone di merda - Bologna".

In città l'azione anti-sfruttamento messa in campo da questo soggetto è ormai riconosciuta, nonostante la totale assenza di copertura mediatica, certamente non a caso.

L'intero tessuto economico urbano di Bologna infatti trae i suoi frutti e le possibilità di espansione proprio grazie, innanzitutto, alla grande disponibilità di lavoro precario, instabile e frammentato che l'Università, con le sue decine di migliaia di studenti, le restituisce. Attaccare questo, disegnando una geografia dello sfruttamento, significa ovviamente attaccare una larga fetta del sistema di potere economico cittadino. Media, giornali e politici non sono interessati alla faccenda, anzi, come si è visto quando c'è stata occasione, hanno prontamente attaccato la lotta, consapevoli del rischio che corrono: vedersi sgretolare da sotto i piedi le loro reti clientelari e di gestione politica ed economica della città.

Lavori part-time, lavoretti, lavori da qualche mese, lavori che "questa la mando giù che tanto poi mi cerco un altro lavoro", sono la base su cui si sostiene e costruisce profitto la classe padronale del centro storico bolognese. Negli ultimi mesi l'iniziativa martellante delle maschere bianche ha svelato un sistema ormai socialmente accettato di sfruttamento della forza-lavoro cosiddetta precaria, costruendo una contrapposizione che ha visto la presa di parola di giovani e studenti (fuori da dinamiche di lotta e movimento già sedimentate in città) da una parte, e del recente dispiego di forze di polizia (quando riescono a prevenire l'obiettivo del blitz) dall'altra, pronte a reprimere il lavoro di denuncia portato avanti.

La maschera bianca ha assunto i tratti di un simbolo generazionale, quello della precarietà. Come spiega la pagina Facebook stessa: "la maschera è un simbolo per non personalizzare le nostre azioni, in quanto dietro la maschera ci possono essere tutti e il nostro obbiettivo è moltiplicarci ovunque".

E' solo un inizio, una scommessa, che però ci dice che il Re inizia a sentire freddo anche nell'afosa Bologna dei lavoretti.

0.1. "Ciao, vi contatto per segnalarvi le mie condizioni di lavoro...."

La pagina Facebook del Padrone di merda si presenta così: "Case fatiscenti? Contratti inesistenti? Lavoro a 5 euro l'ora? Ritardi nei pagamenti? Segnala il tuo Padrone di casa di Merda o il tuo datore di lavoro, pubblicheremo la testimonianza e con il tuo aiuto ci vendicheremo insieme! Basta Padroni di Merda!".

Poche parole e chiare che in poco tempo hanno portato ad una pioggia di testimonianze da diverse zone della città di Bologna. Per rispondere al perché di tanto successo andrebbe forse analizzato il contesto, la fase e gli strumenti che una banale pagina virtuale può consegnare nelle mani di chi la utilizza.

Innanzitutto è necessario ripartire da un concetto, parola d'ordine di tante lotte degli ultimi anni, che prende il nome di lavoro precario. Non è così interessante in questa sede descriverne una genealogia e degli elementi costitutivi, quanto invece è estremamente importante individuare come, attraverso questa nuova pratica di lotta, la precarietà abbia assunto, nelle bocche di chi la nomina e nei nervi e muscoli di chi la subisce, un'incarnazione materiale e un volto contro cui battersi. E' proprio questo, in prima istanza, l'elemento di novità che si nota nel progetto "Il padrone di Merda": la capacità di prendere per il collo e riconoscere quella precarietà che per sua stessa natura frammenta e impedisce percorsi di lotta comuni. In questo spazio si è sperimentata la possibilità di riconoscersi in condizioni simili nonostante i luoghi di lavoro, i contratti, le mansioni siano nei fatti diversi. Cosa unisce un cameriere a un'estetista? Un cuoco al lavoro di cura? Come unire condizioni così diverse contro teste molteplici di un'idra che sembra a noi così lontano? Forse proprio iniziando a dare nomi e cognomi, indirizzi e numeri civici, nomi delle insegne. Forse dicendo chiaramente a quanto ammonta la misera paga, qual'è la percentuale in nero, quali le assenti garanzie. Sentirsi raccontare che ciò che subisco in Via Petroni, è lo stesso che subisce una mia coetanea (o meno) in Via del Pratello è un passo per niente banale. E dunque cosa posso fare? Beh, di certo il sindacato o l'ispettorato del lavoro non mi aiutano. Intanto facciamogliela pagare, a questo maledetto padrone di merda.

Se questa è la prassi con cui il Padrone di merda si muove, è necessario, per la lotta stessa, approfondirne gli elementi di analisi che ci pone sul piatto, guardando alle prospettive sotto due lenti: punti di forza e limiti. 

1. Metodo

1.1. Conricerca

Nessuna pratica politica può avere respiro se non è basata sull'analisi della realtà.

Per comprenderla, occorre evitare di cadere in due trappole. La prima è quella di chi dice "basta guardare dentro di noi per trovare gli elementi di tendenza che ci faranno avvicinare alla composizione di classe", soprattutto se dentro di noi abitano l'aridità dell'ideologia, il pantano del merchandising, o troppe sostanze eccitanti o rilassanti, una sorta di auto-inchiesta che porta ad un inevitabile cortocircuito; la seconda è quella di pensare di averla già compresa la realtà.

Il metodo, dicevamo, è la conricerca, che in un solo movimento scarta entrambe le trappole poc'anzi citate. Una buona intervista è sia quella fatta col registratore, seduti al tavolino, sia quella svolta alla macchinetta del caffè dell'aula studio dell'università - da quelle chiacchiere è nata la prima segnalazione alla pagina PDM - oppure sul luogo di lavoro. L'importante è l'uso che di quelle parole se ne vuole fare, l'importante è cosa si intende per intervista, nella sua forma standard in senso sociologico oppure cosa si può produrre attraverso di essa se utilizzata nella sua specificità militante: appunto con-ricerca. Non una semplice interrogazione all'interlocutore, ma un processo collettivo di organizzazione e scambio di saperi tra militante e lavoratore. Nello specifico contesto della segmentazione del lavoro giovanile (ma non solo), è solo ripartendo da questo abc della militanza che si possono fare passi avanti nell'inesplorato mondo della soggettività precaria della crisi. Stiamo parlando del centro stesso del processo di lotta: scandagliare la composizione sociale odierna, a noi ancora lontana e sconosciuta, per costruire contro-soggettività e contro-organizzazione.

1.2. Rovesciamento della narrazione dominante

Un ulteriore ragionamento che pensiamo sia utile condividere è quello del rovesciamento del punto di vista generale.

Dall'analisi delle pagine Facebook come per esempio "Il coinquilino di merda", si è preso spunto per rovesciare l'ordine del discorso. Sarà mica che questo modo di atteggiarsi non faccia altro che dividere gli studenti e le studentesse, i precari e le precarie, e altro non facciano che favorire i padroni per richiedere sempre più tutele e garanzie? Forse che acconsentire a fare casting per soli bianchi, ricchi e magari del nord sia uno strumento di controllo, oltre che a mostrare la faccia razzista dei proprietari, della propria rendita immobiliare? Non è che gli annunci di lavoro in cui i padroni pretendono fedeltà al loro progetto siano da boicottare? Rovesciare quindi. Guardare alla propria parte. In questo caso, la nostra parte è quella di chi sborsa 500 euro per una casa di merda e ne guadagna 400 per un lavoro peggiore.

Si diceva, poco più sopra, di come certe condizioni di lavoro o di affitto, siano oggi ormai socialmente accettate. E' ritenuto normale prendere 5 euro l'ora, senza garanzie, senza straordinari o contributi. Non è certo il lavoro della vita, ma ora questi soldi mi servono, nel futuro andrà meglio. Poi succede che il futuro viene fagocitato dal presente e le prospettive assumono sempre più i toni di una corsa a ostacoli in bianco e nero. E' qui che con la giusta leva il PDM e la sua possibilità di connessione tra esperienze è riuscito - o meglio ha fatto intravedere una potenzialità - a rovesciare lo scenario. Quanto tempo regaliamo per paghe da fame? In qualche modo la pentola a pressione deve sfiatare, ed è ritenuto improduttivo se per farla sfiatare si debbano pagare 600 euro di avvocato per rifarsi di un mancato stipendio di 500 euro. Ma tra il meme e la realtà, il passo è ancora lungo, ed è qui che il PDM ci parla della sua scommessa.

2. Rapporto virtuale-reale

I social sono sempre più pervasivi tanto nella composizione di classe, quanto tra quella di chi vorrebbe combatterne i limiti intrinseci (parliamo dei militanti politici): non si contano più coloro che hanno trasferito la loro militanza sul proprio profilo social. Gli effetti di questo trasferimento si leggono nei libri e negli interventi durante le assemblee: "creiamo un gruppo Whatsapp per tenerci aggiornati, facciamo una pagina Facebook per essere più vicini alle nuove tendenze; le assemblee sono inutili perché creano gerarchie": non si può che dare una parte di ragione a queste affermazioni, ma non si può nemmeno non farne notare i limiti. E' vero, i gruppi Whatsapp sono utili per l'organizzazione tecnica, ma spesso creano una burocratizzazione e una deresponsabilizzazione, perché quello che possono fare tutti e tutte poi non lo fa nessuno. E' vero, i social hanno modificato la velocità della comunicazione, ma è necessario che le soggettività militanti marcino su tempi autonomi dall'accelerazione del capitale: questo significa riappropriarsi del proprio tempo. Il tempo dell'assemblea è prezioso, è il modo di creare il pensiero, è il momento in cui il sogno percepisce la possibilità di trasformarsi in realtà.

Se questi sono i limiti che attraversano la soggettività militante, come immaginare una traduzione pratica di una lotta che si organizza fondamentalmente attorno ad una pagina Facebook. Intanto un passo indietro. Perché allora la pagina Facebook?

Come già si accennava, è sembrato utile andare a collocarsi laddove le persone oggi interagiscono tra di loro, senza inventare un sistema comunicativo che parlerebbe solo a sè stesso e provando a porsi sullo stesso metro di misura utilizzato dalla maggioranza delle persone. Ecco la funzione del social. Ma non è tutto: la funzione del social con i suoi stessi canoni linguistici capace di abbattere il muro di un posizionamento ideologico su una questione che ancor prima del vano scontro politico tradotto nella lavatrice mediatica odierna, assume i tratti del chiaro e semplice scontro di classe. E' piuttosto ovvio aggiungere che le forme di lotta e i linguaggi "da collettivo" siano più un peso che una forza.

Nel percorso del PDM l'antipolitica è un nodo baricentrale che ogni lavoratore e lavoratrice ha prontamente fatto notare sin dalla prima esperienza, da diversi punti di vista: sfiducia tanto verso le istituzioni come i sindacati, l'ispettorato del lavoro e l'INPS, sia contro i partiti politici e le etichette politiche tradizionali.

I limiti del virtuale, si diceva. Salta agli occhi la difficoltà di incarnare la denuncia da social in azione pratica. Il salto tra un TripAdvisor dei locali che vendono lavoro di merda e una piattaforma di lotta è il nucleo del processo, lo scarto da fare. Qui torna la via produttiva della conricerca e del ruolo dell'avanguardia politica da una parte, ma anche la mancanza di una soluzione definitiva e duratura dall'altra. E' su questo piano che il percorso vive di passi avanti e brusche frenate su cui una continua sperimentazione e ricerca teorico-pratica è quantomai necessaria per superarne i limiti. Al problema della virtualità, se ne affianca infatti uno estremamente collegato: l'individualizzazione e la solitudine.

3. Solitudine, crisi della rappresentanza, sindacato

Detto che l'individualizzazione, l'isolamento e la solitudine esistenziale sono dispositivi di controllo e assoggettamento capitalistici, occorre andare più a fondo.

Veniamo da un periodo di lotte dentro e contro la crisi e contro il governo europeo dell'austerità, processo che ha indebolito, se non distrutto, il welfare state, le tutele lavorative e il posto fisso. Il precariato è stato sancito per decreto da Treu, Biagi e Poletti, cosicché la mobilità sociale ha reso l'auto-organizzazione vertenziale impossibile e la crisi della rappresentanza ha svuotato anche gli sportelli sindacali. Il ciclo di lotte dei magazzini della logistica, con i suoi limiti, rappresenta più un'eccezione che viaggia su un contesto e una soggettività estremamente specifica, più che su una potenziale generalizzazione.

Già dagli anni '50 il sindacato confederale ha smesso la sua funzione conflittuale a favore della conciliazione. Se nei decenni successivi è stato uno strumento rivendicativo, lo è stato in un quadro di lotte sociali autonome da esso, che lo hanno spinto nell'arena e suo malgrado costretto a una certa radicalità per essere un mero strumento tecnico, ad oggi spesso impotente anche sul piano del diritto del lavoro: si può dire che il sindacato sia uno strumento essenzialmente di servizi a pagamento, estraneo alla maggior parte dei posti di lavoro, dalla ristorazione al commercio, all'artigianato e agli uffici aziendali e che spesso, difronte a problemi lavorativi fuori dal suo orticello (pochi grandi hub produttivi, uffici statali e pensionati), mercanteggia una costosa tessera e consiglia la resa ai padroni (come testimoniato da più di un lavoratore).

Tale inconsistenza e scorrettezza è percepita dai lavoratori e della lavoratrici: il problema è che se manca l'infrastruttura di lotta manca l'auto-organizzazione, e la spontaneità rimane soprattutto boicottaggio, indisponibilità alla lotta, autocommiserazione o peggio incolparsi di qualcosa di cui non si ha colpa. Dunque, se nella fase ascendente del ciclo conflittuale le vertenze erano uno strumento di sviluppo delle lotte, nella fasi successive le lotte sono diventante finalizzate quasi esclusivamente alla vertenza: il sindacato ha cioè parzialmente cessato di essere uno spazio utilizzato per un processo di contro-soggettivazione per diventare il fine, e per molti la fine, di quel processo. Questo processo lo vediamo nella maggior parte delle lotte lavorative attivate in questi ultimi anni, se il sindacato ha storicamente la tara economicista e vertenziale, oggi vediamo come il confederale addirittura sia arrivato a tutelare più il suo ruolo che l’avanzamento delle condizioni economiche dei lavoratori, basti pensare alla recente contrarietà di CGIL-CISL-UIL al salario minimo, che dal loro punto di vista rischia di depotenziare il potere contrattuale esclusivo dei vertici sindacali. Dall’altro lato il sindacato di base soffre della stessa tara vertenziale che depotenzia la lotta politica (ma la natura del sindacato non è la mediazione di interessi inconciliabili?) e contemporaneamente si trova impotente nel mondo del precariato. Ci si arrovella sul perché e il come, sulle generazioni che non sono più che quelle di una volta ecc.. ma che interesse può avere un lavoratore che ogni due mesi cambia lavoro (non sottovalutiamo che spesso una certa precarietà è una scelta consapevole) nel costruire una vertenza per strappare mezzo euro in più di paga oraria?

Nonostante questo rimane aperto lo spazio tecnico-giuridico, richiesto talvolta dal lavoratore stesso e a volte effettivamente necessario per strappare singole vittorie sul posto di lavoro. Detto che sindacati e ispettorati del lavoro hanno perso il loro appeal (per usare un eufemismo) e la loro funzione, si tratta di riempire quello spazio ordinando gli addendi all'interno del rapporto vertenza/lotta già accennato. Quello che si può chiamare contro-utilizzo dell'aspetto tecnico, con avvocato messo a disposizione a chi si rivolge al PDM, è un aspetto che non va sottovalutato nè esaltato. Riuscire a portare la vertenza nella lotta, e non viceversa, la battaglia tecnica nella guerra politica, dà da una parte segno di forza e autotutela, dall'altra funge da alimentatore dei processi collettivi di lotta contro i padroni di merda. Fare incursione nel campo del nemico, utilizzare (anche) i suoi mezzi attraverso le sue stesse contraddizioni, colpirlo nel portafoglio.

Di fronte a tutto ciò si intravedono i punti di forza delle maschere bianche, che non sono sindacato ma si possono definire "un'agenzia per il conflitto", con la consapevolezza di tutti i limiti che sopravvengono dalla definizione, proprio per rompere la solitudine e l'impossibilità di ribellarsi sui luoghi di lavoro, e per consentire a chi spontaneamente ha la voglia di mettersi di traverso alle angherie padronali, che insieme si può. Stiamo parlando della soggettività della crisi, senza un background di memoria su esperienze di lotta, senza una capacità autonomamente acquisita di far pesare forza contrattuale, seppur anche individualmente.

Non è un caso che i primi a scagliarsi contro l'esperienza del PDM siano stati proprio quei politici di sinistra (vedi Cathy La Torre), spaventati a morte da un processo di lotta che non riconosceva le istituzioni - sindacati, ispettorati del lavoro, ecc. - come argini allo sfruttamento, ma anzi li indicava come responsabili.

Esempio pratico: durante un'assemblea con una lavoratrice per studiare la strategia da attuare nella sede legale, insieme, si è deciso di attaccare in maniera autonoma il modello predisposto dall'ispettorato del lavoro (la conciliazione monocratica) definito come "una presa per fame" e un istituto volto a tutelare i padroni, dal momento che una volta che ci si siede al tavolo, al padrone è data la possibilità di risparmiare una buona somma di denaro mentre al lavoratore è data solo la possibilità di accettare, pena l'attesa di almeno un anno per ottenere (se il giudice del lavoro lo concede) una somma più o meno consona al furto subito.

3. La vendetta

Elemento centrale del PDM è la vendetta, cioè la "voglia di fargliela pagare".

La rabbia, l'odio e la volontà di farla pagare a chi ha costretto i lavoratori ad una marginalità insopportabile ed impoverito parte del ceto medio sono sentimenti nati dalla crisi economica sui quali non si possono chiudere gli occhi; errore peggiore sarebbe additarli come fascisti o da utili idioti. Sono, invece, elementi del ragionamento e di progettualità politica che non possiamo non vedere come strumenti: il punto non è l'odio, ma contro chi l'odio si riversa; non è la paura, ma a chi trema la terra sotto ai piedi. L'idea è trasformare l'odio - concetto che la Lega ha capito benissimo - da guerra tra poveri in odio di classe.

Il dato è diventato eclatante fin da subito. Nonostante all'inizio il PDM non si fosse dotato di una struttura tecnica (un avvocato del lavoro), ciò che spingeva - e spinge maggiormente - le soggettività in lotta era la volontà di andare di fronte al proprio posto di lavoro e attaccare collettivamente il proprio padroncino di merda.

L'elemento della vendetta in loco è anche uno strumento diretto di blocco e boicottaggio della produzione dei padroni, dal momento che durante la lettura delle testimonianze sono parecchi i clienti che si alzano e vanno via. E' successo anche che il presidio ha bloccato la produzione, dal momento che i padroni hanno deciso di chiudere il negozio per l'intera giornata. Durante il corteo del 1 maggio, il bar "Piccolo e Sublime", noto per essere sempre aperto oltre che per molestare le ragazze che lavorano, è stato costretto a restare chiuso. Inoltre, la "shit storm" sui social, ha spesso obbligato i PDM a chiudere le proprie pagine Facebook.

Per portare un esempio pratico, una lavoratrice ha dettato la linea che verrà poi tenuta nella sede legale dell'ispettorato del lavoro affermando che "voglio non meno di quello che mi spetta, piuttosto che dargliela vinta faccio la fame". Quindi come dicevamo non c’è interesse a costruire un cambiamento nelle condizioni del posto di lavoro, ma a distruggere il profitto del proprio ex padrone, che al di là dell’effettiva restituzione del salario non deve “passarla liscia”.

Utilizzare il sentimento di vendetta in una prospettiva processuale di costruzione di lotta e contro-soggettivazione sembra una traccia produttiva, sopratutto laddove vale come sentimento di riconoscimento collettivo. L’infrastruttura di lotta infatti viene vista come uno strumento per raggiungere un fine molto più decisivo della sentenza di un tribunale del lavoro, rendere materiale il sogno di ogni lavoratore che si sente impotente: farla pagare ai padroni. 

4. Chi sono i padroni di merda bolognesi

I primi mesi di lotta del PDM sono stati importanti anche per tracciare una fotografia delle facce dei padroni di merda di Bologna.

Come si diceva la città del consumo e della movida vive saldamente aggrappata alla forza-lavoro dequalificata che la grande istituzione bolognese per antonomasia - l'Università - gli permette costantemente. Bar, Fast Food, locali in genere, soprattutto nella zona universitaria vivono interamente dentro al ciclo studentesco: gli studenti ne sono al tempo stesso clienti e forza-lavoro. A muoverne i fili, un'alta borghesia bolognese storica da una parte, e una conclamata attività legata a 'ndrangheta e camorra dall'altra, con il benestare bipartisan delle forze politiche. Ma è necessario apportare altri due nodi, strettamente legati, che stanno trasformando il volto economico della città: il turismo e il brand della "city of food". Ridondante spendere troppe parole su come questi elementi stiano cambiando radicalmente forma e sostanza della città, sia nell’accessibilità degli affitti, sia nel tipo di modello produttivo, sia nella ricollocazione di classe degli abitanti. Centrale vedere come il discorso sul cibo BIO stia invece costruendo una maschera equa e solidale sui livelli dello sfruttamento. Sono infatti i bio-padroni di merda dal sorriso verde quelli che spesso nascondono le più grandi infamie lavorative. Nella rossa Bologna dunque si disegna un ceto padronale di sinistra che nulla ha da invidiare all'imprenditore di blu vestito.

Va poi segnalata la stratificazione, che dai piani bassi del piccolo locale, porta alle holding di servizi come il caso di M&G (di fatto un’agenzia interinale), che ha scoperchiato un vespaio di carattere nazionale: TFR non pagati, straordinari non pagati, ecc., per una truffa milionaria. Anche questa feccia si è radicata nel mondo dei lavoretti bolognese.

La domanda da porsi sarebbe quindi, a chi fa paura questa azione di denuncia e di lotta contro il lavoro di merda? Ovviamente ai padroni di merda che infestano le nostre città, ma bisognerebbe volgere lo sguardo anche un po' più in alto, guardando all'accondiscendenza del Comune, delle istituzioni politiche e, senza voler essere banali, a quell'organismo in cui viviamo chiamato capitalismo.

In questi mesi la realtà delle maschere bianche si è imposta in un certo discorso pubblico, anche se boicottato dai media, ci sono ben pochi commercianti e padroncini che non conoscono questa realtà. Questo a significare che il metodo ‘ronda’ è funzionale a una polarizzazione del conflitto. Si è instillata una paura reale nei padroni, e se prima temevano una recensione negativa su Tripadvisor che abbassasse la media, oggi temono anche il boicottaggio, il blocco del negozio e la gogna pubblica, un po’ giacobina, che prima o poi li attende. Da una parte il padrone non sa che fare, non sa come fermare i blitz lampo e imprevedibili, dall’altro il dipendente prende coscienza della sua posizione grazie all’esempio vittorioso (e non pietoso-vittimistico) di altri dipendenti. Insomma le maschere bianche si muovono e funzionalmente vanno a “restituire un po’ di terrore, disordine e rumore”.

L'augurio che deriva da quest'esperienza non può che essere la nascita di PDM in ogni città, per mettere in ginocchio questo maledetto mondo del lavoro precario e tornar a vedere le stelle.