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Le proteste del 7 ottobre a Rio: “il manifestante è mio amico, se lo toccate toccherete anche me”

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di TALITA TIBOLA e BRUNO CAVA

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Si sentono alcune esplosioni dalla Camera del consiglio municipale: fuochi d’artificio, tutti si esaltano quando capiscono che il bersaglio non sono le persone che manifestano, ma proprio l’edificio. I cori continuano. Applausi. Dalla testa del corteo alcuni già scrivono sulle pareti della Camera: “+ libri, - bombe”, “Fuori Cabral”, “Dov’è Amarildo?”. Le porte vengono sfondate, mentre le guardie dall’interno lanciano gas lacrimogeni e gettano estintori contro i manifestanti.

Contemporaneamente altre persone continuano ad arrivare da Rio Branco, il viale percorso dal corteo a partire dalla chiesa della Candelária lungo un tragitto di quasi due chilometri. Nel momento esatto dell’attacco alla Camera sta passando sul viale un grande gruppo che incoraggia la manifestazione, scandendo a samba: “Oh, Cabral è un dittatore, Cabral è un dittatore”; il coro esalta il senso delle esplosioni, anche se si esprime in un modo differente. Al centro di Piazza Cinelândia, di fronte alla Camera, si accende un falò e si intonano canti. La presenza degli indigeni mostra ancora una volta che l’Aldeia Maracanã[1] resiste. In piazza sono in molti, vestiti di nero saltano e gridano in coro: “Il Mondiale non si farà!”. Da bambini ad anziani, dalla signora che dichiara di essere “nonna black”, a quella che si scusa con i black bloc per avere in precedenza condannato la loro tattica, fino ai giovani in nero che non smettono di gridare: “il professore è mio amico, se lo toccate toccherete me” oppure, specularmente, professori ed altri che intonano: “il black bloc è mio amico, chi lo tocca tocca anche me”.

La marcia è grande, una delle maggiori da giugno a Rio de Janeiro: i notiziari annunciano 3.000 persone, il giorno dopo sono meno spudorati e parlano di 10.000. Un calcolo senza alcuna base, se pensiamo che durante il carnevale questi stessi canali d’informazione sostengono che il medesimo viale, affollato, arriva a contenere quasi un milione di persone. É tale quantità di persone a riempire la strada con manifesti e grida, così come, lungo la marcia, anche i muri sono ricolmi di graffiti: “questa è solo vernice sul muro, il vandalo è lo Stato”, “la donna più bella è quella che lotta”, “l’amore è finito”, “A.C.A.B.” (sigla per all cops are bastards).

Camminando per Rio Branco si può notare una composizione eterogenea della marcia, che nel frattempo non si limita ad invocare diritti civili per il Brasile o a generiche denunce anticorruzione, com’era invece comune nelle grandi manifestazioni di giugno. In nessun momento si è caduti in appelli vaghi “contro-tutto-quello-che-sta-lì”. Non solo la marcia era una delle maggiori da allora, ma è stata anche più organizzata e meno “spontanea”. Un grande differenziale rispetto alle marce giganti di giugno. Il fatto è che le proteste in questi quattro mesi di mobilitazioni intense hanno percorso un lungo arco, raccogliendo richieste, segnali d’indignazione e di rinnovamento, articolando lotte prima più disperse.

Di fatto, le linee guida erano concrete ed incarnate nei soggetti. Dall’inizio del ciclo di proteste in autunno una parte della sinistra brasiliana, all’interno del governo o all’opposizione, ha dimostrato impazienza e persino esasperazione per non essere riuscita a identificare (e ancor meno a controllare) la direzione e il contenuto delle manifestazioni. Ciò ha portato talvolta a un argomento difensivo secondo cui si sarebbe verificata una “svolta a destra”: ciò significa che alla fine dei conti l’effetto delle mobilitazioni sarebbe stato quello di indebolire i governi e le pianificazioni della sinistra, ottenendo appunto una svolta a destra. Se, al fine di smobilitare rivolte e manifestazioni, la classe dominante è solita mobilitare la paura del caos e dello scompiglio per elogiare (e quindi conservare) l’ordine stabilito, questa sinistra ha invece finito per adottare una propria versione della paura, paventando una “minaccia sotterranea e occulta”, il pericolo del “fascismo” che i mascherati rappresenterebbero. Tanto i tradizionali difensori dello status quo, quanto la sinistra che sarebbe (si presume) per la trasformazione sociale, mostrano così un’ostentazione della paura, aderendo immediatamente alla tesi ricattatoria del “meno peggio”. Si mostrano di conseguenza disinteressati alla lettura o ricerca reale delle forze sociali alla base delle proteste, affrettandosi nelle conclusioni e accettando acriticamente le figure mediatiche e manichee secondo cui è più sicuro mantenere le cose essenzialmente come stanno.

Questa volta, però, la manifestazione non ha lasciato nessun margine di dubbio a venire. Il discorso della strada si è polarizzato intorno alla questione dell’educazione, a partire dallo sciopero degli insegnanti e di altri impiegati della rete municipale. Esso non ha mancato di ramificarsi in funzione di gruppi differenti, passando attraverso l’opposizione alle tre sfere di governo (federale, statale e municipale), la resistenza contro la criminalizzazione delle proteste e dei manifestanti, l’affermazione LGBT (“senza trans non c’è rivoluzione!”), la lotta per la casa e contro gli sgomberi, il femminismo (“senza donne non c’è rivoluzione!”), la messa in questione sistematica delle spese e dei progetti per i megaeventi, la lotta indigena, il movimento nero, ecc. Molti striscioni e bandiere – rosse, nere, colorate – coabitavano il viale, a partire dall’organizzazione sindacale o partitica più convenzionale, fino a gruppi autonomi oriundi delle occupazioni del 2011-2012, anarcopunk e fronti autonomisti – tutto questo al suono di tamburelli, canti, megafoni e fischietti. Chi era presente ha riscontrato la positività allegra del movimento, la sua grande forza come una giuntura improbabile di differenze e antagonismi, svuotando quindi qualunque accusa da parte della destra, per la quale si tratterebbe di disordine e nichilismo, e di parte della sinistra istituzionale (principalmente del PT), secondo cui il movimento mancherebbe di direzione politica.

Ma cosa ha permesso una composizione tanto improbabile, al punto che i black bloc sono stati accolti apertamente prima, durante e dopo la marcia dei professori, senza essere isolati?

É ancora presto per bilanci precisi su questo tema, ma è possibile commentare alcuni elementi. Per iniziare, è possibile riconoscere il carattere irriducibile della tattica black bloc in Brasile. Essa è germogliata durante la sequenza della manifestazioni, senza un’ideologia, un centro o una leadership specifiche, come una risposta contingente, un’auto-organizzazione di fronte alle necessità impresse da una realtà di repressione brutale e criminalizzazione permanente. É difficile determinare il livello di riferimento della tattica black bloc brasiliana in relazione alla sua tradizione nelle lotte globali, al di là del nome e degli indumenti. Fin dalle prime grandi marce a metà giugno si è formato un fronte di manifestanti più disposti a resistere alle azioni repressive della polizia. Al fine di non essere criminalizzati da un potere punitivo estremamente eccitato dai media, tali manifestanti hanno iniziato a coprirsi con maschere o magliette avvolte intorno al volto. Più o meno avulsi, variamente composti, essi hanno finito gradualmente col riconoscersi e ad essere riconosciuti come appartenenti ad una frazione più agguerrita, direttamente responsabile dell’autodifesa della manifestazione. L’apertura costitutiva, cioè la possibilità di partecipare per chiunque, ha caratterizzato questa pratica dal principio. Quanto è suggerito è che si è black bloc durante l’azione in quanto tale, in una protesta specifica. Non si tratta di gruppi chiusi. Essa funziona secondo la logica dello sciame: si riunisce per azioni particolari, ma immediatamente dopo si disperde fino alla prossima occasione opportuna.

Diversamente dalla tesi secondo cui i black bloc hanno allontanato altri manifestanti, essi sono stati invece un fattore di sostegno alle proteste di strada nel dare consistenza effettiva alla resistenza. Sono giunti persino a dare ritmo alle proteste quando i numeri iniziavano a diminuire. Assumendo l’esercizio di autodifesa della moltitudine nelle strade e, a volte, arrivando a rilanciare la lotta con attacchi ai simboli del capitalismo, i black bloc si sono attirati l’odio della classe dominante. Capaci di sostenere le proteste per strada anche sotto bombardamento da parte della polizia, essi hanno svolto la funzione di principale sasso nella scarpa del potere punitivo, i cui ingranaggi includono i media aziendali, il sistema penale e le milizie (mafie) che controllano territori, contratti pubblici e servizi. La prosecuzione dei tumulti ha iniziato quindi a minacciare gli affari ultra-lucrativi del mercato immobiliare, dell’industria del turismo, della vendita massiccia di bevande alcooliche in monopolio virtuale.

Evidentemente la tattica black bloc non dispone di una bacchetta magica per poter affrontare uno Stato super-violento e super-armato. In realtà, la sua azione concreta nemmeno si orienta a questo livello dello scontro, nella misura in cui essa dipende totalmente da una grande mobilitazione, in cui è integrata, per poter agire.

Se certo si poteva aspettare il rifiuto dei black bloc da parte della destra organizzata, stupisce invece la rapidità con cui persone e gruppi di sinistra – sia nel governo, sia, in misura minore, nell’opposizione – li hanno scongiurati come loro peggiori nemici. Senza cercare di comprenderli minimamente, spesso con informazioni tratte dalla stampa mainstream, questa sinistra ha oscillato tra la riprovazione per l’essere ribelli senza causa, irresponsabili, ingenui, e l’accusa più grave di servire a “forze occulte”, manipolati e pericolosi per la democrazia. Inoltre si sente, in mezzo alle varie squalifiche, un tentativo di classificarli come “polletti”: persone di classe media senza coscienza politica, mossi da generali pretese anticorruzione o contro la politica in generale, in ogni caso non impegnate a cambiare la società.

Quale non è stato allora lo stupore, quando sono apparsi tra i black bloc giovani della periferia, delle scuole pubbliche, e un timido (ma inequivocabile) sostegno da parte della popolazione povera, specialmente in comunità minacciate di sgombero, sotto il giogo della polizia o semplicemente impoverite. Tale partecipazione dei poveri fra i black bloc può anche valere come spiegazione per il coraggio e la tenacia che essi hanno assunto, continuando a tornare alla testa del corteo. Può apparire assurdo a chi vive negli appartamenti dei quartieri residenziali, ma per molte ragazze e ragazzi mascherati nelle manifestazioni ancora è più sicuro sfidare la polizia in assetto antisommossa e fronteggiare i proiettili di gomma, piuttosto che vivere nelle loro comunità assediate dalle milizie private, dal narcotraffico armato e dalla violenza poliziesca. Nel momento in cui lo sciame si riunisce, i poveri non si sentono isolati, non soffrono della discriminazione e possono sperimentare un “vivere insieme” che è immediatamente personale e politico, come sensazione di appoggio mutuo e produzione di propositi collettivi.

Tutto ciò dimostra l’ampiezza dell’impasse esposta dalle manifestazioni in Brasile. Compresse a destra e a sinistra, sotto intenso monitoraggio e criminalizzate, sorprende come esse abbiano ancora capacità di rinnovarsi, arrivando a proteste con 50.000 persone, come il 7 ottobre. Lì i black bloc erano integrati con i professori, non soltanto ben organizzati, ma apparentemente motivati per continuare a lottare e qualificarsi. Essi possono essere una risposta, o per lo meno il terreno della domanda circa l’uscita da questo vicolo cieco. Questo perché i black bloc sono iscritti nel mezzo di una costellazione di questioni che coinvolgono i poveri, i neri, gli LGBT e altre minoranze che, nell’insieme, sono la maggioranza della città.

La novità del 7 ottobre risiede nell’accoglienza dei professori verso i black bloc e viceversa, il che ha finito per trasmettere un cambiamento di sensibilità contestuale riguardo le manifestazioni, facendole apparire ora come un tutto. Se prima i black bloc esercitavano la loro tattica con l’assenso tacito della grande maggioranza dei manifestanti, ora essi sono divenuti palesemente protagonisti, fianco a fianco con le richieste affermative di diritti. Questa volta tale mescolanza è stata apertamente riconosciuta, generando un effetto di concatenamento di desideri, domande e forme espressive. In seguito allo sgombero dell’accampamento dei professori e di altri attivisti, chiamato OcupaCâmara e avvenuto il 28/9, e alla durissima repressione dell’1/10 a Cinelândia – quando la legge proposta dal prefetto e non voluta dagli insegnanti in sciopero fu approvata a suon di bombe –, molti professori che non volevano essere equiparati ai black bloc hanno percepito che, senza di loro, essi sarebbero stati semplicemente schiacciati dal governo, e poi dimenticati. Se prima credevano che queste tattiche avrebbero potuto pregiudicare i negoziati dello sciopero, essi hanno in seguito realizzato che senza questa forza politico-estetica non avrebbe avuto luogo nessun negoziato, ma soltanto un “rastrellamento” governativo ogni volta più ignorante.

Il 7 ottobre, per la prima volta da giugno, i black bloc sono stati affettivamente integrati agli altri movimenti presenti, e non solamente come braccio tattico della manifestazione. Molti professori hanno non solo ringraziato e incentivato i giovani vestiti di nero, ma hanno formato essi stessi un blocco ibrido: il “Black Prof”. Con scudi neri su cui si leggeva “Truppa di Prof” hanno sospinto la testa del corteo assieme a molti gruppi autonomi di giovani mascherati. Dopo la manifestazione molti professori, alcuni anche del sindacato, si sono pronunciati a favore dei black bloc, smentendo la linea editoriale della grande impresa (e di parte della sinistra istituzionale), che separava i gruppi in base a un manicheismo che oppone i “manifestanti buoni” ai vandali. Il notiziario del giorno seguente, sortendo effetto, si è concentrato quasi esclusivamente sulle immagini sensazionaliste del conflitto con la polizia e delle proprietà danneggiate sul finire della protesta. I fatti non importavano davvero, piegati fino all’assurda ipotesi mediatica secondo cui ci sarebbero stati “infiltrati” nella manifestazione, aventi l’unico scopo di causare “panico” e praticare “violenza per la violenza”.

La grande impresa (e parte della sinistra istituzionale) si sono sforzate di spegnere un accadimento singolare nella storia delle lotte di Rio de Janeiro. Come se non fosse occorsa una marcia di, quantomeno, cinquantamila persone, in un amalgama potente e inedito di soggetti che raggruppava la costellazione di lotte per il diritto alla città. É come se nelle redazioni esistesse un battaglione di giornalisti che aspettano soltanto il momento opportuno per diffondere acriticamente la condanna generale di “atti di vandalismo”, rinforzando i luoghi comuni che, essi credono, rifletterebbero il pensiero dei “lettori medi”. I titoli, le notizie e le colonne si sono limitati a forgiare l’immagine della paura, della bolgia, del caos, per tentare di togliere più gente possibile dalla strada e dividere il movimento.

Chi era a piazza Cinelândia quando è iniziata la repressione della polizia – e ha avuto la sgradevolezza di provare le colonne di gas lacrimogeni e di spray urticante, e di impaurirsi ai primi lanci di bombe e di proiettili di gomma – ha visto qualcosa di molto differente. L’azione dei “facinorosi” e “nichilisti” non sembrava così tanto caotica. Gli obiettivi, inoltre, sembravano selezionati secondo una logica chiara: la Camera Municipale dove giorni prima la polizia aveva massacrato i professori, agenzie bancarie, la facciata dell’edificio del megaimpresario Eike Batista, il consolato nordamericano, alcuni negozi di grandi marche, e così via. Il coordinamento delle azioni era a sua volta evidente, secondo una tattica di sciame il quale si raggruppava e ri-aggruppava mentre i manifestanti si volgevano gli uni agli altri per proteggersi e circoscrivevano prontamente alcuni comportamenti (come attacchi ai piccoli commercianti, o qualunque offesa fisica alle persone). Nulla di tutto ciò appare nelle narrazioni giornalistiche, che non hanno niente a che vedere con il giornalismo degno di nome, stilate sotto misura per muovere gli ingranaggi del potere punitivo e soddisfare l’ansia per la “pacificazione”. La grande impresa (e parte della sinistra istituzionale) non si trovano mai al di là di un vuoto manicheismo, ove i momenti di rifiuto e negatività paiono distaccati da tutto un contesto sociale, storico e politico.

Realmente, chi legge i giornali e guarda la televisione può avere l’impressione che il problema della violenza a Rio de Janeiro sia causato da un manipolo di vandali nichilisti, inebriati dalla propria energia distruttiva. In altre parole, da un “branco di pazzi che distruggono tutto” e tentano di infiltrarsi nei movimenti legittimi. Continua a sembrare che Rio viva un’epoca di pace e prosperità, in cui soltanto gruppi estremisti insistono nell’esprimere gratuitamente insoddisfazione. Essi sarebbero nemici della bella democrazia brasiliana. É davvero una mentalità coloniale in vigore nel XXI secolo, il cui bon ton consiste nell’elogiare e difendere la convivenza salutare fra tutti i soggetti sociali. Secondo questa mentalità oppressori e oppressi dovrebbero camminare tranquillamente mano nella mano in direzione del progresso, che così, da capo a fine, sarebbe migliore per tutto il mondo.

La terribile ironia consiste nel fatto che la violenza è considerata un tabù in una città dove la polizia uccide 500 persone all’anno (la cui stragrande maggioranza è composta da giovani poveri e neri) e ne fa scomparire altrettante, dove un abitante delle favelas può essere sequestrato, torturato e ucciso senza grande commozione. É questa una situazione che proprio le manifestazioni stanno cambiando, come si è visto nella campagna “Dov’è Amarildo”[2] o nell’episodio della carneficina di Maré.[3] In una città in cui il prefetto non ha vergogna di adottare il titolo di “Shock dell’Ordine” per la sua politica di pianificazione territoriale, raccogliendo e bastonando senza tetto, artisti di strada, venditori ambulanti, tossicodipendenti e più in generale chiunque per strada si trovi a violare qualsiasi delibera del consiglio comunale. Questo stesso prefetto è impegnato ad “igienizzare” interi quartieri e a rimuovere brutalmente favelas, espropriandone gli abitanti, al fine di consentire grandi lavori stradali per il Mondiale e le Olimpiadi. É come se la popolazione carioca fosse “pacifica” (mentre al massimo è “pacificata”), a fronte della violenza quotidiana nei trasporti collettivi, nella salute pubblica, nell’istruzione. Solo nel mese di settembre vi furono due rivolte violente a fine giornata, con depredazioni e incendi di treni e autobus.

In questo scenario le manifestazioni significano per molte persone una chance di lottare per la propria pace. La paura, per loro, ha già luogo quotidianamente, ed esse non verranno intimidite da minacce di punizione, se la punizione è la normalità della loro vita. La lotta che il potere punitivo riduce sempre a “vandalismo” è per molti una chance di costruire una pace che non sia pacificazione. Gli Amarildo del Brasile sono anonimi molto prima di qualunque gruppo identificato come tale, molto prima dell’adozione della maschera da parte di Guy Fawkes. Se, alla fine dei conti, Amarildo può avere un nome, è perché i manifestanti si sono conquistati il diritto di nominarlo e, nel suo nome, di continuare a lottare. Amarildo è il nome di molti.

In una realtà profondamente violenta – ove si manifesta non soltanto la violenza traumatica della polizia, ma anche la violenza di classe nei servizi pubblici – è paradossale che il maggior fastidio, persino di una parte della sinistra, continuino a essere le manifestazioni, con alcune vetrine rotte, pareti dipinte, cassonetti incendiati e l’uno o l’altro grande negozio attaccato. Un’unica morte causata dallo stato rappresenta una violenza maggiore. Collocati in prospettiva, violenti e fascisti, alla fine, non sono i manifestanti, di cui è molto chiara la direzione politica del “vandalismo”. Mentre la sequenza delle proteste, più qualificate, si infiamma di nuovo e costeggia la casa di centinaia di migliaia, poche volte fu più attuale la frase di Brecht secondo cui “il fiume che trascina tutto è detto violento. Perché allora non il letto del fiume che lo limita?”.

Il 7 ottobre i professori hanno riconosciuto nei black bloc i loro alunni, per quanto non fossero rigorosamente coloro che frequentano le loro lezioni. Allo stesso modo, i black bloc hanno visto in quei professori i loro propri professori. Gli uni e gli altri hanno insegnato e appreso a vicenda, costruendo così un cammino al di là delle linee settoriali e della tattica black bloc. Questo è un esempio di un comune possibile, un comune nella differenza costruito nelle strade, nelle lotte per creare un’alternativa alla pacificazione della “nuova Rio”, contro un consenso conseguentemente più autoritario e impermeabile.

Il cambiamento di atteggiamento tra professori e black bloc produce per se stesso una trasformazione della sensibilità generale. Una volta riconosciuto che essi compongono un comune di lotte, costoro diventano un segnale potente per una nuova fase delle manifestazioni che si auto-organizza e riqualifica costantemente. Tale cambiamento sensibile potrebbe essere percepito in manifestazione attraverso l’aumento delle magliette nere, l’attitudine “siamo tutti black bloc”, nonché i cartelloni come quello di un manifestante che scrive: “Ho smesso di essere Luther King, oggi sono Malcolm X!”.

Il cambiamento di sensibilità non pone più da parte i black block, ma li vede come qualcosa che “fa” parte, e che contribuisce a costituire la lotta stessa. Questo elemento è percepito anche dal governo, che il 7 ottobre ha cambiato strategia, sottraendosi in un primo momento dalla scena. La polizia lascia che le indignazioni prendano libero corso soltanto per potere a posteriori investire a pieno carico con una nuova serie di criminalizzazioni e intimidazioni, ossia ciò che sta succedendo adesso.

La sfida continua ad essere il persistere nella lotta, a dispetto degli espedienti disperati di chi assiste alle nuove mescolanze e composizioni della città. Come dice una professoressa: “Ora che i giovani sono con noi, perché stiamo facendo di tutto per differenziarci da loro? No! Rimaniamo insieme.”

Per chi era a Cinelândia l’assenza calcolata della polizia è sconcertante. Mentre la passeggiata arriva alla fine di Rio Branco e la Camera municipale è assediata dai manifestanti, si può scorgere uno strano silenzio, al di là della confusione delle esplosioni e degli elicotteri. É il silenzio dell’attesa, che precede una brutalità pronta ad abbattersi sulla manifestazione. Sono i pochi secondi in stato di sospensione, prima che si senta il rumore dei lacrimogeni e delle prime lacrime. É il lasso di tempo in cui ancora possiamo stare insieme. Continuiamo così.

 

* Traduzione di Luca Guerreschi.



[1] Aldeia Maracanã è il nome del villaggio indigeno occupato nell’antico Museo degli Indios, un edificio del XIX secolo situato a lato dello stadio di Maracanã, nel quartiere omonimo. Occupato dal 2006 da indigeni di varie tribù, il villaggio era stato sgomberato a maggio di quest’anno con un’operazione segnata da brutalità poliziesche, in quanto interferirebbe con i lavori di ampliamento dello stadio per il Mondiale 2014. Il locale è stato rioccupato a inizio agosto, nonostante le vecchie abitazioni siano state demolite durante le operazioni di sgombero. Al di là del calendario di attività e del servire come punto di incontro degli indios in transito per Rio de Janeiro, il villaggio lavora all’obiettivo di fondare la prima Università Indigena. Aldeia (R)esiste! è uno dei collettivi organizzati per difendere l’autonomia dell’occupazione, e annovera militanti indigeni e non indigeni nella sua organizzazione.

[2] L’indagine ha rilevato che Amarildo, visto per l’ultima volta mentre veniva portato via di casa su una vettura, fu assassinato dai poliziotti della Unidade Policial Pacificadora (UPP) della favela di Rocinha, in seguito a una sessione di tortura con elettroshock e pratiche di soffocamento. Il corpo non è stato ritrovato. La giustizia ha determinato in prima istanza il pagamento di un indennizzo mensile corrispondente a un salario minimo (R$ 678,000, circa 220 euro) alla famiglia, formata dalla moglie e dai suoi sei figli. Il governo dello stato di Rio de Janeiro ha impugnato il provvedimento al fine di non pagare nulla.

[3] Per lo meno dieci persone sono morte in seguito a una manifestazione sull’Avenida Brasil il 23 giugno 2013. Un sergente del BOPE è stato ucciso dopo aver invaso una favela e, come risposta, il territorio è stato invaso e sottoposto a una “notte di terrore”. Quella notte, centinaia di case sono state perquisite senza mandato del giudice e le persone che le abitavano umiliate e torturate. Il fatto che un poliziotto del Bope è stato ucciso è servito da pretesto “naturale” per la carneficina degli abitanti, alcuni dei quali assassinati per decapitazione.