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La tigre di carta - postilla

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Editoriale su crisi e governo del cambiamento cromatico

Di quello che avevamo da dire sulla crisi di governo, l’essenziale lo abbiamo scritto nell’editoriale di metà maggio. L’essenziale politicamente, l’essenziale per un “noi” da costruire. Ma non c’era ancora la crisi, si obietterà. Per le ragioni illustrate in quell’editoriale (e non solo, ci mancherebbe) quel governo è sempre stato in crisi. Anzi, non vi è in questa fase storica governo che non sia solo governo della crisi, ma al contempo governo in crisi.

A ciò si aggiunga: governo liquido. Ovvero fatto di alleanze non fondate su blocchi sociali, bensì su opinioni e pulsioni. Opinioni e pulsioni non sono irrilevanti, certo; però, per divenire blocchi sociali devono coagularsi intorno a interessi precisi, vettori forti, linee compositive. Questo coagulo, come abbiamo già scritto, non c’è, e le vicende intercorse tra maggio e oggi sono lì a dimostrarlo.

Continuiamo con le facili obiezioni: in quell’editoriale non è contenuta alcuna risposta agli urgenti problemi dell’oggi, cioè governo giallo-rosso sì o no? Confermiamo: non c’è alcuna risposta. Aggiungiamo: non è la domanda corretta, o meglio non è la nostra domanda. Il punto è che questa partita si gioca interamente su un campo che non solo non è nostro – le istituzioni democratiche non lo sono mai, e tuttavia ci sono momenti in cui è possibile intervenirvi per rompere o interrompere, rovesciare o guadagnar tempo. Ecco, il punto è che non è uno di questi momenti. A contendere il governo al capitone vi è una compagine elettorale gassosa, in stato avanzato di evaporazione, e i rimasugli di un partito la cui solidità o quantomeno sopravvivenza è garantita dalle forze economiche che ha finora servito (dall’Unione Europea alle banche). Accettare di giocare su questo campo e con questa temporalità, condividendo minuto per minuto il conto alla rovescia del Partito di Repubblica alla fine delle consultazioni al Quirinale, significa sbagliare completamente il posizionamento. E in guerra, sbagliare da subito posizionamento è il preludio della sconfitta. 

A questo punto fioccano le sinistre obiezioni, sprezzanti e irritate: quindi volete lasciare il paese in mano al capitone? A proposito: ci fa piacere che la definizione di capitone – coniata per la prima volta proprio in quell’editoriale – sia piaciuta, tant’è che da allora viene abbondantemente usata in giro per i siti di “movimento” e anche quelli di sinistra. Non ci interessa la proprietà intellettuale, ognuno ne faccia l’uso che vuole. Ci interessa invece, questo sì, precisare l’uso che ne facciamo noi – il nostro noi ristretto, intendiamo qui. Procediamo per sintesi estrema. Pensiamo che Salvini sia un nemico da combattere? Ovviamente sì. Pensiamo che Salvini sia il nemico numero uno? Ovviamente no. Se avessimo risposto affermativamente a quest’ultima domanda, sostenendo che Salvini sia una forza da abbattere perfino a costo dell’abbraccio mortale con gli altri nostri nemici, il capitone tornerebbe a essere il capitano del popolo che marcia al passo dell’oca. Invece continuiamo a pensare che sia il capitone di un popolo liquido, che al più fa venire la pelle d’oca – ma tant’è, benvenuti nel deserto del reale, non ce n’è un altro finché questo non verrà scomposto e ricomposto in tutt’altra direzione, ovvero in una direzione di classe. Un popolo liquido che oggi c’è e domani non c’è, oggi sta col capitone, ieri con i 5 stelle e domani magari con il Pd, o con un tecnocrate. Benvenuti nella crisi della rappresentanza, fase suprema della democrazia. Anche per questo (oltre che per varie altre ragioni) il termine populismo non ha alcun senso, perché presuppone la solidità del popolo laddove vi è la liquidità dell’opinione pubblica e della folla solitaria.

Vabbè, allora ci volete dire come si combatte Salvini, eh? I nostri obiettori si stanno visibilmente spazientendo. Li invitiamo alla calma del ragionamento rivoluzionario: sapendo cos’è il salvinismo, cioè una tigre di carta e niente affatto una granitica potenza (la sua condotta da pallone gonfiato nella procurata crisi di governo dovrebbe dimostrarlo abbastanza bene), collocandolo nella gerarchia dei nemici, combattendo il PD, scomponendo la folla solitaria e agendo altre linee di forza. La Lega, come spiegato nell’editoriale, è riuscita a combinare differenti livelli organizzativi, catturando così un pezzo significativo della composizione sociale colpita dalla crisi: quel pezzo ci è oggi estraneo, ma non lo è oggettivamente. Lo è quindi per nostra responsabilità e miopia politica. Va quindi destrutturato nella sua forma attuale e riassemblato in una forma contrapposta, ricompositiva e non competitiva. Altrimenti non c’è partita. Continuare a pensare di essere nella pianura padana a inizio anni ’20 o a Weimar qualche anno dopo, significa immaginare la storia come una serie tv di bassa lega, in cui ognuno può credersi su facebook Matteotti, mettersi la coscienza a posto o camuffare la vera e propria malafede (leggi: complicità con il PD e col Partito di Repubblica, e con i satelliti di entrambi). L’antifascismo odierno, in funzione anti-salviniana, nasce già come ordine del discorso della normalizzazione restauratrice: ci obbliga cioè alla scelta tra conservazione europeista e conservazione sovranista, ossia due facce della stessa medaglia. La medaglia del loro dominio, la medaglia della nostra impossibilità di iniziativa. Il campo, lì, è interamente occupato dal nemico. Non aggiungiamo altro, perché sul tema pensiamo di aver già detto abbastanza. 

Ma allora non capite che qua c’è un’emergenza democratica, bisogna costruire una diga! Da un lato, assumere la logica emergenziale vuol dire condannarsi all’impotenza, a essere utili idioti (o, sia detto con più realismo, inutili idioti). La logica emergenziale è quella che il nostro multiforme nemico democratico cerca continuamente di imporci, per spingerci verso il meno peggio. E il meno peggio è sempre il nuovo peggio. Vent’anni di catastrofico anti-berlusconismo, all’insegna dell’avanti miei Prodi, non hanno insegnato proprio nulla? Dall’altro lato, il nostro problema non è costruire dighe, ma direzionare esondazioni. Per farlo, certo, non bisogna essere con l’acqua alla gola. E finché accetteremo la loro temporalità, quella della cronachetta e della scelta istituzionale basata sull’antipatia cromatica, continueremo ad affogare e avere come unica possibilità la scialuppa di salvataggio del carnefice. Finché ci chiediamo ansiosi “e nel frattempo?”, non faremo altro che posticipare l’urgenza di assumerci una scommessa rivoluzionaria complessa e fare da spettatori paganti alla scommessa istituzionale dei nostri nemici. Sia chiaro: non c’è qui alcun discorso sull’affidamento all’oggettività dei processi, all’idea che basti sedersi sulla riva del fiume. Al contrario, bisogna scegliere dove possiamo effettivamente annegare i nostri nemici. Costruire una temporalità autonoma significa dunque non giocare una partita persa (o pensate davvero che affannandovi a tifare giallo-rosso con i vostri amici su facebook state cambiando le sorti del campionato?); significa scommettere sui terreni di potenziale forza, laddove si conquistano posizioni al nemico, si crea rottura, si esce dalla subalternità della scelta tra un nemico e l’altro.

Al momento, al di là di qualche sparuto tentativo, i luoghi in cui siamo politicamente collocati rasentano la marginalità resistenziale, o vi sprofondano dentro. E anche quando delle mobilitazioni ci sono, il noi reale quello del ceto politico (con e senza asterischi) – è ben più un’entità separata che non un soggetto motore. Se poi i nostri obiettori si scandalizzano e vogliono continuare nell’ideologia, proclamando le progressive e magnifiche sorti di movimenti che non ci sono o a cui siamo estranei, non abbiamo alcuna obiezione. Rimandiamo semplicemente alla lettura di quella parte de “L’armata dei sonnambuli” che i Wu Ming ambientano nell’ospedale psichiatrico di Bicêtre: qui di Marat, Robespierre e Saint-Just ce ne sono molti, e continuano a riprodursi anche dopo la loro morte. Ognuno si immedesima totalmente nel personaggio, si accapigliano, protraggono per intere giornate scontri e sedute parlamentari per decidere le sorti del mondo, totalmente incuranti di cosa succeda fuori dai recinti della piccola struttura in cui sono rinchiusi. Se poi si confonde Renzi con Robespierre, Zingaretti con Marat e la Merkel con Saint-Just, che altro aggiungere?

Potremmo, infatti, concederci uno spazio per la gustosa ironia. Viene da sé guardando alla grottesca giravolta di molti sinistri, più o meno vicini, più o meno lontani. Chi fino a poco tempo fa riteneva i 5 stelle come delle camicie brune travestite da plebaglia ignorante, bollando la composizione sociale colpita dalla crisi come ontologicamente reazionaria, costruendo su quel giudizio sprezzante identità e distinzione culturale e di classe, ora invoca una loro alleanza con gli amici del PD all’insegna dell’emergenza democratica. Chissà, magari per ingraziarsi la plebaglia ignorante i novelli Giolitti sono perfino pronti a un bel “viva la diga!”. E ancora: chi dava dei rosso-bruni a coloro che, mantenendo fermo il giudizio sul ceto politico, guardavano alle ambivalenze della composizione sociale dei 5 stelle, ora – nel momento in cui quelle ambivalenze si sono quasi del tutto sciolte – blandisce il ceto politico, mantenendo fermo il giudizio sulla composizione sociale. Come dire: non sappiamo bene che fare, però guardando a questa sinistra gente sappiamo certamente che non fare.

Ma perfino di questa ironia ormai ce ne facciamo poco, molto poco. Siamo ancora attanagliati nella critica di zombie e macerie che ci lasciamo alle spalle, e troppo poco concentrati sulle nuove composizioni caotiche a cui dovremmo guardare. In questa difficoltà a smettere di bastonare il cane che affoga c’è, purtroppo, un dato di realismo. Quegli zombie trattengono nelle macerie energie vive, o potenzialmente vive. E tuttavia, che queste energie facciano una scelta. Qui davvero non c’è tempo da perdere. Con lo stesso punto di vista unilaterale, bisogna guardare da un’altra parte. A quel punto, potremo davvero lasciare che i morti seppelliscano i loro morti.