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Elogio del fastidio

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Recensione di Steve Wright de L’operaismo politico italiano di Gigi Roggero (DeriveApprodi 2019)

Più di quindici anni fa Gigi Roggero ha contribuito alla realizzazione di un’opera importante che analizzava i meriti, insieme ai molti limiti, di quella tendenza diventata nota come operaismo. Più che un semplice “ismo”, il libro scritto da Roggero insieme a Francesca Pozzi e Guido Borio (Futuro Anteriore, DeriveApprodi 2002) faceva i conti con l’eredità degli opera-“isti”, cioè i militanti le cui esperienze avevano creato uno dei progetti politici di classe più dinamici del dopoguerra in Italia. Per un breve ma decisivo momento degli anni Settanta, i soggetti intrisi di sensibilità operaista hanno avuto un’enorme influenza nel paese – nei movimenti sociali, nel movimento operaio ufficiale, in campo accademico, dalla filosofia o dall’economia politica fino alla storiografia o alla sociologia. Poi tutto è crollato, insieme al grande ciclo di lotte a cui l’operaismo era intrecciato. E quando all’inizio del millennio, all’apice dei movimenti no global, vi è stata una sorta di rinascita di interesse per l’operaismo in alcuni circuiti, si trattava di qualcosa di piuttosto differente, un “post-operaismo” con un rapporto difficile e nel migliore dei casi parziale con ciò che era venuto prima.

Introducendo il libro di interviste intitolato Gli operaisti (DeriveApprodi 2005), Roggero, Pozzi e Borio hanno sottolineato un punto importante: l’operaismo non era “un corpus dottrinario né un unitario soggetto politico”, quanto piuttosto “molteplici sentieri che hanno la propria radice in una comune matrice teorica”. A torto o a ragione, molti di quei percorsi si associano a individui specifici: i più famosi sono Mario Tronti o Antonio Negri. Meno noti, ma non meno importanti, sono gli operaismi associati ad altri nomi, da Sergio Bologna o Romano Alquati a Mariarosa Dalla Costa o Leopoldina Fortunati. E forse la cosa più importante è stato l’operaismo di militanti operai e operaie che, come ci ricordano Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba, era “ben più avanzato della riflessione dei teorici della corrente”, pur rimanendo il meno noto.

Adesso, con L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia, metodo (DeriveApprodi 2019), Roggero si propone di spiegare, con una prosa concisa e accessibile, perché l’esperienza dell’operaismo e degli operaisti può essere oggi importante per una nuova generazione di lettori. Si chiede soprattutto, nella pagina di apertura, “perché parlare di operaismo quando ormai si è consumata da tempo la sconfitta di quel soggetto che sta alla radice della sua definizione, cioè della classe operaia di fabbrica, ovvero il tramonto della sua centralità politica?”. La sua risposta, attraverso sei brevi capitoli e un’intervista conclusiva, è che se l’operaismo è un prodotto del suo tempo, il metodo che ci ha lasciato in eredità – il suo modo di leggere la politica di classe, le questioni poste rispetto alla soggettività di classe, insomma “un metodo e uno stile” sviluppati da una prospettiva partigiana – continua ad offrire qualcosa che va oltre il particolare contesto in cui la tendenza è emersa.

Questo libro sarà utile a parecchie persone. Ai non avvezzi alla traiettoria dell’operaismo offre una chiara panoramica dei momenti centrali dello sviluppo di questa tendenza: dalla crisi di direzione del movimento operaio negli anni ’50, all’incontro con le “forze nuove” della classe operaia alla Fiat e altrove nei primi anni ’60, fino all’impegno di Potere Operaio e di altre organizzazioni nel decennio successivo. A chi è più familiare con questa storia, il libro offre una rilettura dell’operaismo salutare e provocatoria, che sottolinea soprattutto il ruolo della soggettività e dei militanti.

Il primo capitolo traccia la cornice: in particolare gli anni ’50, la fase di crisi del movimento operaio, quando il capitale inizia a sfoggiare un nuovo “miracolo” di sviluppo economico. Il lato nascosto di quel miracolo, ovviamente, erano gli operai (spesso migranti) la cui forza lavoro alimentava questo nuovo ciclo di accumulazione postbellica. Qui incontriamo un certo numero di compagni giovani, insoddisfatti e ricchi di immaginazione, che avrebbero giocato un ruolo cruciale in ciò che sarebbe avvenuto in seguito. Il secondo e il terzo capitolo analizzano i percorsi delle riviste Quaderni Rossi e Classe Operaia, al cui interno rispettivamente Raniero Panzieri e Mario Tronti giocheranno un ruolo centrale nello sviluppo di approcci all’impegno politico alquanto nuovi nell’Italia dell’epoca, che ruotavano intorno all’analisi della composizione di classe, intesa come rapporto dinamico. Classe Operaia ha segnato la nascita dell’operaismo vero e proprio; come Roggero dice chiaramente, la sua eredità era al contempo complessa e ambigua, portando infine a una significativa separazione delle strade dentro il campo operaista.

Tronti ha spesso sostenuto che l’operaismo è finito intorno al 1968. Come dimostra Roggero nel quarto capitolo, tuttavia, c’è stato “un operaismo oltre l’operaismo” che si è esteso lungo gli anni ’70. Semmai, la tendenza è stata rafforzata dalle lotte della fine degli anni ’60: non solo conquistando più militanti (come la maggior parte delle correnti dell’estrema sinistra dell’epoca), ma anche cimentandosi in ulteriori importanti riflessioni sulla composizione di classe. Qui registro il mio maggiore disappunto rispetto al libro, per il fatto che il suo autore non ha dedicato agli anni ’70 tanto spazio quanto ne ha riservato al decennio precedente. Quello che Roggero scrive è utile e informativo, è addirittura affascinante nell’analisi delle riflessioni alquatiane dell’epoca; tuttavia, avrei voluto vedere di più non solo su Potere Operaio o Rosso, ma anche su altri ambienti operaisti dentro e oltre l’Autonomia, ivi compresi progetti più eterodossi come Primo Maggio o Collegamenti. D’altro canto, è forse qualcosa da prendere in considerazione per una seconda edizione…

Se Roggero ha un proprio approccio distintivo all’operaismo, è altrettanto evidente come il suo pensiero sia stato plasmato dall’incontro prolungato con Alquati. Tant’è vero che l’intero quinto capitolo del volume, scritto da Guido Borio, è dedicato alla discussione di questo compagno – “un cane in chiesa” – che continua a essere il meno analizzato delle figure fondanti la tendenza. I contributi teorici di Alquati, formulati e rielaborati nel corso di oltre quarant’anni, sono stati idiosincratici nel senso migliore del termine. Con ciò intendo dire che sono stati spinti dalla necessità di comprendere sia la natura sia il contesto mutevole del processo di ricomposizione di classe, attraverso il quale chi non possiede altro che la capacità di lavorare ha cercato di sfidare le divisioni imposte dal capitale. Non solo Alquati ha giocato un ruolo centrale nello sviluppo di due dei doni più importanti dell’operaismo alla politica anti-capitalista – l’analisi della composizione di classe e il suo specifico approccio alla conricerca – ma ha continuato a perseguire l’esplorazione di questi temi ovunque potessero condurlo, molto tempo dopo che altri li avevano liquidati come “inattuali”. “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti”, aveva già consigliato l’autore de Il Capitale, parafrasando Dante. Nel caso di Alquati, “le genti” sono state prima di tutto il ceto politico della sinistra italiana, che ha in gran parte snobbato il suo lavoro. Sebbene gran parte dei suoi testi successivi possano essere difficili in prima lettura, c’è ancora molto da imparare dalle riflessioni talvolta “fastidiose” di Alquati sulle questioni dell’ambivalenza, della formazione e della soggettività dentro (e potenzialmente contro) il rapporto di capitale. Del resto, come Borio conclude il suo capitolo, “dare fastidio è forse la più significativa qualità di una soggettività rivoluzionaria”.

Il sesto capitolo riprende i contenuti centrali del volume, sostenendo che l’operaismo non può essere trattato come un cane morto: ci torneremo a breve. Innanzitutto, però, vale la pena menzionare l’intervista contenuta nell’appendice del libro, che funziona in parte come sintesi dei temi principali, ma anche come qualcosa di nuovo: è una breve ma vigorosa polemica contro il “post-operaismo”. Tronti una volta disse dell’operaismo che la sua eredità conteneva “molti fiori, pochi frutti”; semmai, questo aforisma può ancor di più valere per il “post-operaismo”. I fautori di questa nuova corrente certamente non sbagliano nel tentativo di dare un senso ai tanti importanti cambiamenti sociali seguiti alla sconfitta dell’operaismo. Però, come indica Roggero, vi è molto più da imparare nel seguire le orme di Alquati, cercando di comprendere le nuove forme assunte dall’industrializzazione del lavoro (compreso il lavoro “intellettuale”), che non in tutti i discorsi degli ultimi venti o più anni sull’“immateriale”.

Senza dubbio, alla fine degli anni ’70 si è rotto qualcosa di molto importante nel modello concettuale operaista. Le prospettive di femministe come Dalla Costa e Fortunati avevano già chiarito che l’aver ignorato il tema della riproduzione era stato un errore fondamentale, ma il problema andava oltre. In particolare, lo schiacciamento delle lotte di massa ha generato la possibilità che il ciclo “ricomposizione/riorganizzazione capitalistica e scomposizione/emergenza di una nuova ricomposizione a un livello più alto di socializzazione”, tanto caro al modo in cui gli operaisti leggono il rapporto tra accumulazione e lotta, non funzioni più. Roggero la mette in questo modo: “La spontaneità organizzata delle lotte operaie degli anni Sessanta non è diventata la spontaneità organizzata dell’operaio sociale, non ha cioè trovato un passaggio di organizzazione adeguato. Quella figura ha continuato a essere sociale ma ha cessato di essere operaio, alla supposta oggettività della composizione tecnica non si è contrapposta la soggettività della ricomposizione politica. La spontaneità e l’organizzazione sono così diventate quelle del nostro nemico. Attorno a quei nodi, in altre forme, ci siamo dibattuti nei quarant’anni successivi”.

Come ha sottolineato Giorgio Ferrari in una recente intervista in occasione di una riflessione sulla storia dell’Autonomia romana, il presente è profondamente diverso dagli anni ’70, quando l’operaismo sembrava essere al suo apice: “è cambiato (quasi) tutto. La composizione sociale; le forme di comunicazione; i bisogni; il controllo del territorio da parte dello stato e della criminalità e (non da ultimo) la soggettività di compagni e compagne”. Se l’operaismo ha una continuità di rilevanza, quindi, è perché alcune delle importanti questioni che si poneva sulla politica di classe rimangono in gran parte senza risposta. Curiosamente, in almeno una parte del mondo – la Cina – il vecchio mantra operaista dell’innovazione capitalista guidata (in parte) dalle lotte operaie sembra essere molto viva.

Nel sostenere che gli elementi chiave del metodo operaista continuano a essere rilevanti, a cominciare dall’analisi della composizione di classe, Roggero si trova in buona compagnia (tra gli altri, vi sono i giovani ricercatori militanti che gestiscono il sito “Notes from Below”). In quest’ottica, L’operaismo politico italiano merita di essere letto insieme ad altri due libri che contribuiscono a delineare un quadro importante per il presente: I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi di Raffaele Sciortino, un altro compagno influenzato dall’analisi di Alquati (Asterios Abiblio Editore 2019), e Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo di Raj Patel e Jason W. Moore (Feltrinelli 2018). Su ciò che la tendenza operaista ci offra oggi nella comprensione della soggettività politica, molti di coloro che un tempo ne hanno attraversato i “molteplici sentieri” sono spesso in forte disaccordo. Roggero ha ragione nel sostenere che la maggior parte degli operaisti non solo puntava a rovesciare Marx contro il marxismo, ma anche Lenin contro il leninismo, soprattutto su tale questione. D’altra parte, alcuni (forse quelli a cui si legano le mie simpatie, come Primo Maggio o Collegamenti) volevano andare oltre Lenin e non solo oltre il leninismo. In un altro breve ma robusto libro (La misteriosa curva della retta di Lenin, La casa Usher 2011) Roggero ha illustrato perché, dal suo punto di vista, prospettive come la mia siano inadeguate. Speriamo che questo dibattito possa continuare, soprattutto in situazioni collettive e praticamente efficaci. Nel frattempo, non sarebbe male che i lettori leggessero almeno per conto proprio L’operaismo politico italiano, prima di esplorare i tanti titoli correlati del catalogo DeriveApprodi.