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Il tempo dell’innocenza occidentale è finito

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Recensione di Anna Curcio a Governare la crisi dei rifugiati di Miguel Mellino (DeriveApprodi 2019)

Governare la crisi dei rifugiati è un libro importante che offre spunti imprescindibili per chi studia le migrazioni e il razzismo contemporaneo e soprattutto per chi fa dell’antirazzismo un terreno di lotta. È un libro denso di riferimenti teorici che ripercorrono il ricco background intellettuale dell’autore e richiamano i classici del pensiero anticoloniale, la critica postcoloniale e gli studi culturali (Policing the Crisis, il testo fondativo dei Culturali Studies britannici, costituisce l’ossatura del volume), il Foucault di Bisogna difendere la società e il pensiero di Jacques Lacan. Tra le pagine del libro si ritrovano, inoltre, le influenze del punk rock e dell’elettronica politicizzata, e soprattutto le esperienze politiche maturate all’interno dei movimenti sociali che hanno segnato il percorso politico intellettuale dell’autore. Nella seconda parte il libro discute, in un vero e proprio corpo a corpo, le tesi di Giorgio Agamben e Achille Mbembe, pietre miliari degli studi sulle migrazioni e della critica antirazzista, rinnovando completamente i paradigmi interpretativi che hanno fin qui orientato gli studi del settore. Anche la Ragione umanitaria di Didier Fassin è passato al microscopio, individuando nella sua critica una lettura più morale che politica, che distoglie l’attenzione dalle basi materiali del razzismo con il risultato di portare fuori strada la pratica antirazzista.

Tuttavia, il volume non si riduce alla pur ben costruita disamina critica della letteratura di settore. Mellino prende di petto la “questione europea” già enunciata da Nicholas De Genova per disvelare la “colonialità” intrinseca della Ue come progetto politico ed economico. Andando «al cuore dell’ontologia produttiva del capitalismo neoliberale», si interroga fin dentro la tensione affettiva-pulsionale del soggetto, un soggetto marcatamente segnato dall’esperienza capitalista e coloniale. In questo senso, non si limita ad indagare il piano materiale delle condizioni sociali e produttive, ma scava fin dentro le stesse capacità e attitudini umane. Il risultato è la definizione di un’antropologia negativa che fa piazza pulita del buonismo umanitario tanto in auge nella sinistra istituzionale italiana. Il suo punto è dirimente: «l’aggressività e la virulenza del sovranismo non devono oscurare la “barbarie” dispiegata dalla Ue in precedenza e tanto meno le modalità pienamente razziste del governo europeo della cosiddetta “crisi dei rifugiati”», direttamente riconducibile a una pulsione razziale che affonda le radici nel rapporto storico dell’Europa con i suoi altri “coloniali”.

È proprio dentro questa congiuntura, dove il sovranismo interseca l’ordoliberismo della Ue e il suo trascorso coloniale, che Mellino ci invita a porre la nostra attenzione quando riflettiamo di governo delle migrazioni e razzismo contemporaneo. In questo senso, l’autore ripropone il concetto di un “erma bifronte” («un’unica hydra dalla due teste» scrive) che già analizzavamo in un breve testo di qualche anno fa (La menzogna della solidarietà, pubblicato su Commonware 16 gennaio 2018) per sottolineare la simmetria tra il razzismo sovranista e l’ipocrisia antirazzista della Ue. Non è forse di questa ipocrisia che ci parlano le aperture in tema di migrazioni in Europa di Merkel e Macron o i silenzi della Ue sul “Decreto sicurezza” e il suo bis recentemente varati in Italia? Detto altrimenti, ordoliberismo e sovranismo europeo mostrano una medesima geografia della crisi le cui coordinate disegnano la mappa delle violenza razzista in Europa. Una mappa dai confini mobili, attraversata da «formidabili movimenti di resistenza» e costellata di luoghi, nomi ed eventi tutti segnati dal riaffiorare del volto storicamente più inquietante e al contempo costitutivo dell’Europa: l’enigma razziale della bianchezza post-coloniale che istituisce la costruzione discorsiva dell’Europa come significante di civiltà. Si tratta di un’interpretazione che spiazza completamente le prospettive politiche che vedono nell’Europa di oggi il prodotto “eccezionale” di una involuzione post-democratica. In altri termini, il sovranismo europeo altro non è che l’effetto perverso del “neo-ordoliberismo” di Maastricht e Schengen. Non una rottura, bensì la continuazione con altri mezzi di quel progetto entrato in crisi tra il 2008 e il 2011, negli anni di picco della crisi economica, e poi nel 2015 successivamente, durante i giorni in cui si costruiva la cosiddetta “crisi dei rifugiati”. Da questa prospettiva dunque, ciò che Mellino sembra suggerirci è che la Ue, per come l’abbiamo conosciuta, non è più riformabile, checché ne dicano gli europeisti convinti, anche alle nostre latitudini.

Governare la crisi vuol dire in questo senso – come sin dal titolo il libro propone – governare le migrazioni attraverso la continua criminalizzazione delle popolazioni nere, intese quali elementi alieni all’omogeneità culturale e all’ordine sociale europeo. È la costruzione di specifiche gerarchie razziali di cui il volume propone una ricostruzione genealogica che ripercorre l’intero arco di vita della Ue. La violenza razzista emerge come condizione storica e strutturale di governo delle società europee, come tecnologia istituzionale «di produzione di territori e popolazione» in Europa; al contempo, in uno dei passaggi del volume destinato a suscitare maggiori polemiche, emerge come matrice di quella pulsione di morte (è qui esplicito il richiamo alla necropolitca di Achille Mbembe e agli effetti di de-soggettivazione come morte sociale di Frantz Fanon) all’origine degli attentati di matrice islamica a Parigi, Bruxelles, Londra, Berlino. Nello specifico dei fatti di Parigi del 2015, Mellino sembra non avere dubbi: «si può dire che essi siano stati compiuti dai figli bastardi della Repubblica».

Nel quadro della colonialità intrinseca della Ue, che fa da matrice alla gestione razzializzata delle diverse popolazioni europee, due sono gli obiettivi polemici che il volume solleva – entrambi parlano della politicizzazione del razzismo propria al governare la crisi dei rifugiati, per come il libro la intende. Il primo è il sistema dell’accoglienza suggestivamente messo a critica attraverso ciò che viene definito «sprarwashing», letteralmente lo sbiancare o ripulire il regime autoritario di gestione delle migrazioni tramite l’elemento simbolico umanizzante di un sistema di protezione per richiedenti asilo. Gli Sprar sono in questo senso l’ultimo anello di un sistema di gestione delle migrazioni che resta profondamente segnato dalle gerarchie razziali e dalla cancellazione dell’autonomia soggettiva dei migranti, il fiore all’occhiello del governo italiano delle migrazioni e al contempo il punto di arrivo di una filiera che inizia con i campi profughi in Turchia e Libia e passa per il contrasto militare in mare dei migranti in transito, per gli Hotspot, i Cie, i Cara, i Cas. 

Tuttavia, la critica di Mellino non si ferma qui. È l’intero sistema dell’accoglienza ad essere messo in discussione quale strumento di una nuova forma di accumulazione capitalista, «predatoria» e «per spossessamento», costruita sui corpi di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. In questo senso, l’esternalizzazione e mercificazione della cura propria del capitale neoliberale produce, in tema di governo delle migrazioni, nuove forme di estrazione di valore che interessano tanto una forza-lavoro precaria e ricattabile (ricattata proprio sul piano del richiamo umanitario e alla solidarietà) impiegata nelle Ong e organizzazioni del terzo settore, quanto la definizione di una forza-lavoro servile e subordinata che prolifera nel diverso status di migrante a cui il «diritto d’asilo» (ormai temporaneo e non più permanente) rimanda. Un terreno, mi pare, decisamente proficuo per una pratica antirazzista che voglia affrontare di petto la matrice materiale del razzismo e le gerarchie della razza che definisce. Indica una pratica militante che disegna un comune orizzonte di lotta tra chi lavora nell’accoglienza e chi al sistema di accoglienza è rimandato, oltre e anche contro la mera solidarietà foriera di null’altro che nuove gerarchie.

Ma non è tutto: l’autore riflette inoltre sulla costruzione discorsiva dell’accoglienza tanto a destra, con i richiami ad un presunto allarme sociale e la denuncia di un sistema di business, quanto tra le élite neoliberali e le forze dalla sinistra istituzionale e di movimento, che si appellano a un – mi si lasci dire – astratto principio umanitario. La proposta del volume è di segno inverso e invita a spiazzare l’ordine del discorso, oltre l’emergenzialità dell’accoglienza, per restituire dignità politica e spazi di possibilità per il cambiamento agli stranieri e alle straniere che vivono in pianta stabile in Europa e fanno quotidiana esperienza della matrice razzista e coloniale della società europea. In Italia si tratta di circa 6 milioni di persone che, stando alle statistiche ufficiali e con un rating ben più basso di altri paesi Ue, trovano lavoro prevalentemente in nicchie produttive ad alto sfruttamento e vivono una condizione di profonda segregazione sociale, con solo meno di un terzo della popolazione straniera residente inserita in una rete di relazioni al di fuori dalla propria comunità. Nel primo caso siamo nell’ordine di una drammatica gerarchizzazione lavorativa che descrive le coordinate del razzismo istituzionale, nel secondo di una profonda segregazione sociale che ci parla di un diffuso razzismo quotidiano, due facce di una stessa medaglia che segnano la continuità storica del razzismo in Italia e in Europa.

Il secondo obiettivo polemico del libro prende di petto il nesso perverso tra securitarismo e umanitarismo, ossia tra «delirio securitario» e «ragione umanitaria», nesso che informa il governo della crisi in Europa. La proposta del volume è, in questo senso, quella di leggere nell’etica della compassione e della sofferenza, al fondo della logica umanitaria, l’altra faccia della violenza razzista e della logica di guerra dispiegate lungo i confini esterni e all’interno della Ue. L’ethos compassionevole, scrive Mellino sulla scia di Fassin, costituisce l’algoritmo ideologico dell’enunciazione umanitaria al fondo del governo della crisi dei rifugiati. Tale etica, dunque, emerge dal volume come un’etica del tutto perversa: non solo perché soggetta alla spettacolarizzazione (Mellino ricorda la foto del corpo senza vita di Aylan, il bambino siriano, ritrovato su una spiaggia in Turchia dopo un naufragio, ma si potrebbero ricordare, tra altri esempi, anche le coperte termiche dei soccorsi in mare portate nei cortei antirazzisti, e via di questo passo), «ma soprattutto perché la “ragione umanitaria”, nei suoi effetti concreti di politica di governo, non fa che incrementare disuguaglianza, gerarchizzazione e vulnerabilità anche tra gli stessi migranti». La ragione umanitaria presuppone un rapporto sociale di tipo gerarchico in cui un «soggetto parlante» – in genere bianco, occidentale, “di sinistra” –definisce in modo del tutto arbitrario (e mi si lasci aggiungere con una discreta carica di violenza) il regime di verità e la condizione di un «soggetto subalterno», in genere il migrante razzializzato.

Anche su questo punto Mellino, propone una lettura spiazzante per una parte sempre più ampia del cosiddetto “movimento antirazzista”. L’autore richiama infatti in modo esplicito il Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire per indicare l’umanitarismo come «senso di colpa bianco», come una sorta di «salario psicologico» che andrebbe a compensare la colpa coloniale. Da questa prospettiva il richiamo umanitario, più che in una pratica antirazzista, si risolve nell’autoassolutorio specchiarsi e compiacersi del proprio altruismo, senza mai mettere in discussione la «colonialità intrinseca» europea. È per questo, allora, che l’umanitarismo, seppur largamente dibattuto in ambito accademico e tra le forze di una sinistra progressista, rimane poco produttivo, per non dire deleterio, da un punto di vista politico. E Mellino, controcorrente anche rispetto a molti dei suoi possibili lettori, ne rigetta l’intera grammatica: «c’è una morale perversa e coloniale all’opera nell’apparato umanitario», sostiene con convinzione.

Contro la morale coloniale al cuore della narrazione europea, Mellino fa sua la postura intellettuale di Houria Bouteldja, una della studiose e militanti antirazziste più controverse del momento: smantellare la «buona coscienze bianca» che «confisca l’etica umana» per farsi «fonte della dignità bianca» e parametro del «livello di civilizzazione dei subalterni». Un antirazzismo realmente «di rottura», allora, sarà quello che rompe con l’etica dell’accoglienza e l’umanitarismo che gli fa da sfondo, quello cioè capace di spiazzare e contrapporsi all’ordine del discorso razzista e a quello antirazzista.

«Il tempo dell’innocenza occidentale è finito», dichiara il volume nelle sue battute conclusive. Quando non c’è più vergogna nel definirsi razzisti, non stiamo semplicemente assistendo al fallimento di quel progetto di educazione universale che per oltre cinquant’anni ha orientata la pratica di un antirazzismo più soggettivista che materialista, ovvero intento a considerare il razzismo un vizio ideologico o una patologia sociale e non un elemento strutturante delle società capitaliste contemporanee. Quando il razzismo appare socialmente sdoganato come nel presente, occorre ripensare radicalmente le pratiche e i discorsi antirazzisti. Il tempo della solidarietà umanitaria che riproduce gerarchie e cancella l’autonomia soggettiva è finito. Ripensare la nostra pratica antirazzista è un’urgenza non più rimandabile e Governare la crisi dei rifugiati è un vademecum in questo senso imprescindibile.