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Il boomerang verde

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Commento di Nicola Carella sulle elezioni in Germania

La politica tedesca è, tra quelle della vecchia Europa, considerata la più refrattaria a cambiamenti. Basti pensare che dal 1949 a oggi, la Repubblica Federale Tedesca ha avuto appena 8 Cancellieri e l'intera vita del Bundestag si è basata sull'equilibrio tra due soli grandi partiti, solitamente definiti “Buergerlische” (letteralmente “borghesi” o “popolari”): l'SPD e la CDU (alleata in Baviera con la CSU). A questo equilibrio si sono aggiunti, nel corso di oltre 60 anni, i liberali dell'FDP, i Verdi, la sinistra radicale della Linke, erede dell'esperienza della DDR, e, recentemente, la destra xenofoba ed euroscettica di Alternative fuer Deutschland. Una rappresentanza politica limitata in un panorama politico quasi immobile, solido almeno quanto l'economia della “Locomotiva d'Europa” e stabile come i suoi titoli di Stato, i Bund. 

Tutto questo almeno fino a qualche mese fa.

Gli ultimi anni del Cancellierato di Angela Merkel, infatti, sono stati segnati da scricchiolii sempre più frequenti e sempre più ravvicinati. A volte agli scricchiolii seguivano esplosioni e crisi politiche, basti pensare al G20 di Amburgo o ai pogrom razzisti di Chemnitz. Esplosioni che venivano riassorbite e liquidate come episodiche.

Le scorse elezioni europee del 29 maggio però hanno segnato la fine plastica e senza appello di ogni illusorio e rassicurante ordine segnando un accelerazione improvvisa in una crisi sistemica della classe dirigente della RFT. Il fatto poi che la Germania sia la nazione più ricca e più popolosa del continente, rende ancora più importante una approfondimento su ciò che sta succedendo a Berlino. Anche perché le dinamiche messe in moto sono sovrapponibili, in modo macroscopico, all'intero quadro politico continentale. Ciò che attende la Germania, al centro di un'Europa post-Merkeliana e sempre più “Macroniana”, può essere previsto a partire proprio dall'analisi della scorsa tornata elettorale. E lo si può fare provando a rendere al meglio una polarizzazione sempre più radicale intorno a linee di rottura sociali geografiche, di classe, genere, nazionalità ed età. 

Ma è bene procedere con ordine nell'analisi.

Innanzitutto il primo dato da prendere in considerazione è l'affluenza elettorale che ha sfiorato il 62 %, in netta crescita rispetto alle precedenti europee, dove votò poco meno di metà dell'elettorato. E' questa una prima anomalia. L'elettorato tedesco ha sempre guardato con distanza alle elezioni europee. Questa volta la mobilitazione in Germania è stata straordinaria, quasi che alle sorti dell'UE fossero delegate speranze per le sorti nazionali. Anomalo era anche il numero dei partiti che si sono presentati: 41 su una scheda lunga quasi 120 centimetri, anche grazie all'abolizione della soglia di sbarramento per eleggere gli oltre 80 parlamentari da mandare a Bruxelles. In questo modo oltre ai partiti presenti nel Bundestag, sono riusciti a eleggere rappresentanti in UE, il partito satirico Die Partei, che ha sfiorato il 6 % a Berlino ed Amburgo e ha triplicato i voti, i “Liberi Elettori” bavaresi, il Partito Ecologista-Conservatore ODP, il Partito della Famiglia, il Partito per la Protezione degli Animali, il Partito dei Pirati e i neoliberali Volt. Questi partiti bene o male hanno eroso consenso ai partiti storici, ognuno pescando in un'area diversa. E' questa complessità che emerge innanzitutto dal voto. Se al Bundestag si contano 6 gruppi parlamentari (appena 4 nella passata legislatura), a Bruxelles dalla Germania ne sono stati mandati ben 13! Questo cambio è avvenuto nell'arco di appena una legislatura e dopo decenni di paludosa fissità!

Ma sono stati i risultati in termini di voti per lista il vero e proprio terremoto.

Per la prima volta dall'unico precedente del 1979, la CDU/CSU e l'SPD, le forze della grossa coalizione, riprodotta in Europa, non hanno la maggioranza; esattamente come a Bruxelles il PSE e il PPE, dopo anni di governo dell'austerity, non hanno la maggioranza nell'Europarlamento.

Osserviamo meglio le percentuali elettorali. 

La CDU di Angela Merkel, con la bavarese CSU del Ministro degli Interni Horst Seehofer, ha ottenuto il 28,9 % dei voti, perdendo il 6,4 % dal 2014. A dire la verità la Cancelliera, che non è più segretaria della CDU da qualche mese, ha mantenuto un profilo defilato in campagna elettorale limitandosi a un paio di apparizioni funzionali solo a lanciare il candidato del PPE alla guida della Commissione, il bavarese Manfred Weber (già comunque respinto da Macron e dal gruppo ALDE, 48 ore dopo il voto).

Ma se i democristiani hanno subito una sconfitta pur rimanendo primo partito, assume invece le dimensioni di storica disfatta il risultato del più antico partito europeo, l'SPD, che perde quasi il 12 % dei voti fermandosi a poco più del 15%. L'SPD non si indebolisce solo in termini assoluti ma perde anche nei suoi storici bacini elettorali, scivolando al terzo, a volte al quarto posto nelle regioni produttive della Ruhr e nelle città-Stato che ancora governa, come Amburgo e Berlino e soprattutto perdendo dopo ben 73 anni il governo della città stato di Brema dove si votava per le amministrative.Se questa doppia debolezza dei partiti di governo è l'eredità di anni di austerità ordoliberale, in patria come in Europa, anche il soccorso politico arriva seguendo traiettorie identiche, a Bruxelles come a Berlino. I liberali dell'ALDE macroniano, diventano infatti la forza irrinunciabile per dare continuità al governo europeo e in Germania, anche se per il rotto della cuffia, la loro declinazione nazionale, l'FDP, pur non andando oltre il 5,4 % spinge una nuova”area di governo” a poco più del 50 %. Anche la sinistra radicale della Linke si ferma al 5,5 % lasciando sul terreno quasi il 2 % dei voti. E lo spettro xenofobo, autoritario, reazionario di Alternative fuer Deutschland, pur guadagnando 3 punti percentuali dal 2014, cioè dal suo esordio politico, non ha sfondato come le destre sovraniste in tutto il continente. La formazione di estrema destra si è fermata all'11 % ma diventando primo partito in due Laend ex DDR, Sassonia e Brandeburgo e nella “capitale nera” dei Pegida, Dresda e secondo partito negli altri tre Laend della Germania orientale. 

L'unico partito che può intestarsi a pieno titolo la vittoria delle Europee in Germania è l'ultimo, presente nel Buendstag, ancora non nominato: i Verdi (Buendnis90/Gruene). La formazione ambientalista è diventata la seconda forza politica federale raddoppiando i propri voti, arrivando al 20% o addirittura al 45 %, tra gli elettori under 33. Oltre ad aver scalzato l'SPD dal suo storico ruolo di alternativa ai conservatori, i Verdi hanno vinto in tutte le principali città tedesche. Sono infatti prima lista a Berlino, Amburgo, Colonia, Lipsia, Stoccarda, Jena, Monaco di Baviera, Friburgo, Mannheim, Muenster, Bonn, Bielefeld,Treviri, Francoforte sul Meno e persino nella città nordorientale di Rostock. Uno shock per i sindaci socialdemocratici e popolari dei principali centri urbani che hanno ricevuto una sorta di lettera di prepensionamento. Un terremoto però in qualche modo già preannunciato un anno fa quando in Baviera, la svolta xenofoba della CSU di Seehofer fu punita dal risultato dei Verdi che levarono, fatto mai accaduto, la maggioranza assoluta al partito cattolico bavarese. Questo primo exploit ambientalista fu, con il solito sornione tempismo, sfruttato dalla Cancelliera per fermare l'opa che il Ministro degli Interni aveva lanciato qualche mese prima sull'area conservatrice, solleticando le pulsioni più reazionarie dell'elettorato e strizzando l'occhio persino ad Alternative Fuer Deutschland. Fu l'ultimo tentativo, nella famiglia ordo-liberale, di sostituire Angela Merkel e la sua linea dell'“estremismo di centro”. Ultimo tentativo ed ennesimo fallimento di una lunghissima serie che accompagna la Cancelliera sin dal suo insediamento nel 2005. Dai ministri di Kohl a De Manzier, da Schauble a Seehofer, la Merkel con la sua “resilienza” ha respinto e cancellato tutta la storica classe dirigente democristiana tedesca. Ma adesso che ha annunciato la fine della sua carriera politica,  l'inadeguatezza dei suoi successori appare drammatica. Una pochezza politica per esempio lampante se osserviamo la neonominata segretaria CDU, Annagrette Kramp-Karrenbauer. Sul suo conto, a titolo esemplificativo basti citare l'episodio più recente che la riguarda. Ad appena una settimana dal voto un giovane Youtubber, Rezo. ha pubblicato sul suo canale un video di 50 minuti dal titolo “Distruggere la CDU”. Nel video il giovane influencer con argomentazioni solide, grafici e citazioni ironiche ha fatto un j'accuse inedito e potentissimo contro il partito al governo. Nel video Rezo ha descritto la CDU come un partito delle elite che ha governato per 29 degli ultimi 36 anni di storia della RFT. Lo Youtubber si è focalizzato soprattutto sulle politiche fiscali, la dismissione del welfare, l'aumento della disuguaglianza sociale, l'industria delle armi, il disastro climatico e le politiche contro i migranti. Il centro democristiano è apparso incoerente, falso e incredibilmente vecchio rispetto alle riflessioni dello Youtubber su automatizzazione, reddito e ambiente. Il video in pochissimi giorni è stato visto dalla cifra record di quasi 13 milioni di spettatori e ha gettato nel panico gli “esperti di comunicazione” della CDU. Dopo annunci di risposte e retromarce, video pubblicati e ritirati, il partito è riuscito a proporre solo una vaga e retorica reazione su file PDF. Ma il peggio è arrivato dopo le elezioni con la rabbiosa reazione della Kramp-Karrenbauer che ha proposto la limitazione dei video elettorali in una sorta di “par condicio” su Youtube in campagna elettorale. Questa reazione di censura invece che l'attesa risposta a Rezo è stata stigmatizzata da tutto il mondo politico tedesco come un tradimento di quella tradizione liberale spesso rivendicata dalla Merkel contro Afd. A giorni dall'infelice uscita la segretaria democristiana è ancora al centro di un shit storm violentissimo. La Kramp-Karrenbauer ha dovuto ritrattare tutto in meno di 24 ore in una conferenza stampa imbarazzante. La tensione criptoautoritaria della destra tedesca quando non riesce a governare i processi sociali si è manifestata in tutta la sua cupezza. Se aggiungiamo che anche il Ministro Seehofer in contemporanea è stato travolto da uno scandalo che riguardava il controllo di polizia di device e media sospetti da hackerare per ragioni di sicurezza, risulta evidente come il dopo Merkel appaia incerto per la governance ordoliberale. 

E non se la passa assolutamente meglio il partner di coalizione, l'SPD, che sta subendo una lenta e dolorosa morte per inedia. La “Pasokification”, come la chiamano i media evocando la maledizione lanciata da Papandreu alla fine dei socialisti in Grecia, sta travolgendo in modo grottesco il partito più antico d'Europa. L'abbraccio mortale di governo, il G20 di Amburgo, le riforme draconiane su lavoro, l'abbandono progressivo della base sindacale e la moltiplicazione, le posizioni spesso a destra della CDU sui migranti e sui principali dossier economici, hanno polverizzato anche il consenso derivato dall'aver introdotto il salario minimo intercategoriale nel precedente governo. In una sconvolgente incapacità di autocritica la dirigenza nazionale dell'SPD va avanti, in particolare nella figura dell'ex ministro al Welfare anti “turisti del welfare” Andrea Nahles; la portavoce SPD ha convocato a tempo di record un voto nel gruppo parlamentare su di sé per impedire alle fazioni furiose per il risultato di organizzare un cambio di leadership. Come finirà non è chiaro ma in appena tre giorni negli organi dirigenti socialdemocratici si è scatenata una guerra tra bande a cui si è unito un redivivo Schultz che non si vedeva dalle scorse politiche. La segretaria Nahles ha rilanciato la propria linea strategica, scaricando le responsabilità della sconfitta su esponenti di governi locali, in particolare nei Laend dell'Est in balia dell'estrema destra e su “errori di comunicazione”. 

Spostandoci poi al di fuori dalla Grosse Koalition, la dialettica tra i liberali dell'FDP e la sinistra radicale della Linke, contrapposizione fortemente evocativa nella Germania post 1989, si è risolta con l'amara constatazione da parte dei dirigenti di entrambi i partiti dell'incapacità di attirare i milioni di voti in libera uscita dalla CDU/CSU e dall'SPD. L' FDP si è distinta per una campagna elettorale in cui ha dimenticato la propria vocazione europeista e ha attaccato Friday for Future, negando il cambiamento climatico e appoggiando le repressioni in Francia contro i gillet gialli.

La Linke invece per circa due anni è rimasta totalmente in balia di una dialettica interna tra un maggioranza europeista e la minoranza interna di Aufstehen, ormai sparita, che si richiamava a suggestioni sovraniste e spesso accusate di xenofobia e nazionalismo che guardavano ad altre formazioni come quelle di Melanchon in Francia e Fassina in Italia. Per recuperare il ritardo la Linke ha dato protagonismo all'esperienza di Sea Watch e ha anche detto qualcosa di meno “old” sui temi ambientali, sui diritti civili e sull'Europa. Come però molte formazioni del GUE/NGL, la formazione della sinistra radicale ha comunque perso consenso, pur guadagnando voti localmente in alcune realtà importanti, come la capitale, dove si è appoggiata ai movimenti sociali contro la gentrification e alle lotte antifasciste, superando l'SPD, che esprime ancora il borgomastro, sempre più precario, Mueller. Persino nella sconfitta però i dirigenti della Linke hanno tirato un sospiro di sollievo per una riduzione del danno territoriale negli ex fortini elettorali della DDR. Qui Afd travolta da scandali su fondi neri e indagini dei servizi segreti, ha sbancato solo nelle due regioni più povere: il Brandeburgo e la Sassonia. Non c'è stato l'atteso exploit negli altri Laend orientali. E se nel Brandeburgo il risultato dell'Afd mette in crisi l'alleanza di governo Rosso-Rosso-Verde, in Sassonia è stato solo il certificare l'egemonia reazionaria della regione di Dresda, di Chemnitz, con la sua polizia travolta da accuse di neonazismo e una galassia di estrema destra di cui i famigerati Pegida sono solo la punta dell'iceberg. La Sassonia è però attualmente governata da una CDU spesso accusata di essere indulgente, quando non connivente, con l'estrema destra e la sconfitta elettorale è in qualche modo un risultato che rinforza ulteriormente la linea politica della Cancelliera. Del resto Afd già da tempo non è più il fantasma che abita gli incubi della governance tedesca e il risultato ottenuto, per quanto preoccupante (che si accompagna in alcuni casi isolati anche ad altri risultati importanti di altri partiti di estrema destra come l'NPD), appare limitato geograficamente e al di sotto dei sondaggi di due anni fa, nel pieno della cosiddetta “crisi dei rifugiati”. L'impressione è che il voto di AfD alle europee sia solo la fotografia istantanea di una parabola comunque discendente. Un voto che rappresenta gli over 40, bianchi, poveri e disoccupati tedeschi, traditi dal governo tedesco e da un'unificazione che li ha condannati (per la seconda volta in 60 anni) come grandi sconfitti della storia del Novecento.

Come dicevamo, quindi, gli unici veri vincitori delle elezioni tedesche sono i Verdi. 

Un partito-araba fenice che dalla sua fondazione nel 1980 ha vissuto almeno 3 diversi cicli di crisi e riforma. Il più profondo e recente, connesso anche al consenso attuale, è arrivato dopo l'infelice esperienza del Governo Schroeder. Il partito erede del movimento studentesco degli anni '70 e delle mobilitazioni antinuclerariste e pacifiste degli anni '80, pur mantenendo in alcuni storici quartieri di Berlino un consenso radicato, pagò nel 2005 le scelte dell'allora segretario Fischer, vice Cancelliere che collaborò con i socialdemocratici alla famigerata riforma del welfare, all'agenda 2010, responsabile di disuguaglianze e del modello Hartz IV, alle politiche aggressive della NATO in Afghanistan. Da quell'infausta esperienza di governo i Verdi hanno resettato tutto e affrontato un percorso di riforma politica e riscrittura programmatica opposto al testardo perseverare dei socialdemocratici e all' autoreferenzialità programmatica della Linke. Dopo la debacle del 2005, con l'inizio dell'era Merkel, gli ambientalisti ripartirono da alcune riflessioni fondamentali. La prima fu il considerare il conflitto ambientale, nel sistema industriale tedesco, un conflitto tra destra e sinistra. Non esiste compatibilità, si legge nelle tesi congressuali dell'epoca, tra il capitalismo a crescita infinita e politiche ambientaliste. Di contro il piano inclinato che via via ha spinto SPD e CDU all'abbraccio politico recente, produceva come reazione esperienze di governo locale anomale con i Verdi come forze fondamentali. Così, dopo il primo governo Nero-Verde di Amburgo nel 2008, il partito entrò in governi locali sempre diversi in diversi Laend. La crisi economica e soprattutto il disastro di Fukujima rimisero poi i Verdi finalmente al centro del dibattito federale. Forti di una nuova classe dirigente cresciuta nelle esperienze di governo locale, i Verdi riuscirono già all'alba del terzo mandato di Angela Merkel ad eguagliare il loro record elettorale di 15 anni prima. Nel frattempo all'interno del partito emersero due linee politiche: una, erede della vecchia guardia, “radicale” e una, definita “realista”, promotrice della green economy e di un approccio più graduale alle sfide che i cambiamenti climatici pongono al capitalismo tedesco. Queste due anime non si sono tuttavia rinchiuse nella dialettica interna esasperata come è accaduto nella Linke ma anche grazie a una struttura “rizzomatica” di organizzazione convivono, anche spesso in modo ambiguo. Sono oggi rappresentate dai due portavoce del partito, un uomo e una donna, entrambi molto giovani: lo scrittore Robert Habeck e l'accademica Annalena Barbock. Con il crescere della xenofobia degli ultimi anni, e la torsione autoritaria della governo di Grosse Koalition dopo i fatti di Francoforte e Amburgo, l'esplodere del Dieselgate, l'aumento della povertà malgrado i positivi dati macroeconomici e il diventare sempre più importante di movimenti glbt, femministi e ambientalisti, da Friday for Future all'Hamback Forst, il Partito si è accreditato senza grossi sforzi come l'unica scelta “omnicomprensiva” contro un sistema ingessato e incapace di rispondere alle sfide del futuro. Le elezioni regionali bavaresi del 2018 in cui hanno fermato la CSU sempre più vicina alle posizioni di Salvini e di Kurz li hanno poi candidati ad unico realistico argine politico alla destra. Sebbene spesso accusati di ambiguità su temi di natura economica, criticati in passato per alcuni finanziamenti ricevuti dalla grande industria e per posizioni di politica estera problematiche (da ultimo l'aver votato, pochi giorni fa, insieme a SPD, FDP e CDU/CSU una mozione parlamentare contro la campagna internazionale BDS, bollata come “antisemita”), il Partito dei Verdi mantiene una permeabilità rispetto ai movimenti sociali e una “flessibilità” teorica che ne fa la fortuna in termini elettorali. Questa permeabilità però lo sta anche rendendo sempre meno compatibile con il panorama politico storico tedesco. Un partito che se da una parte è la sorpresa delle ultime elezioni risulta ancora in transizione, quasi un oggetto in trasformazione, che può persino candidarsi a prima forza politica del paese se il dibattito sarà ancora polarizzato in termini generazionali e verterà ancora su clima, antirazzismo e libertà individuali. 

In questa fotografia sintetica che ci consegnano le elezioni europee in Germania mancano però moltissime considerazioni che, pur non precipitando direttamente nelle urne e nella rappresentanza, influenzano moltissimo il quadro generale e pongono diversi dubbi sul futuro della terza economia mondiale. Le considerazioni si muovono su due assi principali. 

Il primo asse è quello dei movimenti e delle tensioni interne alla società tedesca. Parliamo delle tensioni legate alla Gentrification (a Berlino, dove la rivalutazione immobiliare ha raggiunto il 23% annuo, più della metà della popolazione è favorevole agli espropri), all'aumento di disuguaglianze e working poor  (i poveri sono passati dal 10 al 16 per cento in 10 anni, quasi 13 milioni di persone), l'aumentare di attacchi del suprematismo bianco e antisemiti (oltre 1500 ogni anno), l'insufficienza della legislazione sindacale di ricondurre al paradigma concertativo i nuovi conflitti sul lavoro, l'emersione di un rinnovato protagonismo delle donne, specie migranti, e delle nuove generazioni intorno alle questioni ambientali, gli scandali che travolgano la grande industria e il sistema del credito (a un mese dalle elezioni la Kriminalpolizei ha fatto un blitz nelle sedi centrali di 10 banche a Francoforte per riciclaggio) e inquietanti posizioni neonaziste e islamofobe tra gli apparati di sicurezza statali e servizi segreti. Tutto questo in una società che invecchia e non riesce a rendere sostenibile il proprio modello pensionistico rispetto a una composizione della forza lavoro sempre più migrnate e multiculturale attraversata anche dall'eco delle tensioni geopolitiche (Turchia, Afghanistan, conflitto Israelo/Palestinese, tensioni con Trump e rifugiati siriani per esempio). Come dicevamo però il contesto di queste elezioni si muove tra due assi. Il secondo è quello che si definisce intorno alla fine dei 15 anni dell'era merkeliana. Angela Merkel ha governato la Germania, e i processi europei, facendo della resilienza e della pazienza l'arma per resistere al vertice di un partito e di un'elite, maschile e cinica, storicamente legata a diversi potentati economici, fatta di politici rampanti che ciclicamente hanno messo in discussione la leadership della Cancelliera. Attendendo e approfittando degli eventi, spesso forzando verso veri e propri stati d'eccezione e scandali, la Merkel ha dato a tutti loro il ben servito. Se questo l'ha resa la Cancelliera più longeva della storia tedesca ha creato un vuoto in cui appare evidente che non esistono successori all'altezza. La disastrosa classe dirigente dei Tories inglesi post Tatcher in qualche modo è l'incubo dei conservatori tedeschi che però non riescono a individuare figure autorevoli e preparate. Paradossalmente solo una sorprendente nomina a guida della Commissione, quasi a difendere la governance federale, potrebbe  impedire che la posizione egemone che la RFT ha ottenuto in questi 15 anni non sia persa. Ma oltre a questo problema di gruppi dirigenti la strategia di governo della Merkel ha ciclicamente rinviato la risoluzione di problemi strutturali: un processo di riunificazione mai realmente compiuto, una domanda interna molto debole, un'economia basata quasi esclusivamente sull'export e in ritardo sui processi di ricerca e innovazione, un sistema creditizio non così “austero” come si penserebbe, un ceto industriale refrattario a qualunque riforma in senso ecologico della produzione. Sono problemi sempre rinviati o affrontati in modo marginale. Questi nodi potrebbero deflagrare dopo la fine del Cancellierato nel 2020 sovrapponendosi alle tensioni sociali e politiche che abbiamo individuato prima. Questo è il quadro in cui sta avvenendo la transizione politica più rapida e radicale dal dopoguerra e molti osservatori non nascondono una crescente inquietudine. Se queste preoccupazioni sono fondate o meno lo diranno le elezioni prossime elezioni federale le prime dopo il lungo regno di “Mutti” Merkel.

E' interessante inoltre osservare come l'Europa a trazione tedesca viva esattamente su una scala più ampia i problemi politici della Germania tardo Merkeliana sul piano sociale e su quello della governance. Un PPE, che come la CDU/CSU, è primo partito ma in calo, dilaniato da differenze territoriali e di interessi particolari spesso inconciliabili, senza esponenti di prestigio; un'area Socialdemocratica e Liberale recalcitrante a essere inglobata dal centro ordoliberale. E ancora nel Parlamento Europeo come in Germania l'affermazione dei Verdi, oggetto misterioso per la governance da isolare, ridicolizzare e corteggiare insieme. Questa voglia di allargamento del governo ai Verdi vede in Germania però proprio nella Merkel, che ha posto la data per la decarbonizzazione del paese molto in là, nel 2050, uno dei blocchi maggiori e a livello europeo industrie produttive dell'est (per esempio la Polonia di Donald Tusk e di Kazcynskiu) che vedono i Verdi e il loro programma come fumo negli occhi. 

I movimenti transnazionali, le tensioni sociali e le sfide rimandate sono ancora più direttamente sovrapponibili tra il piano tedesco e quello europeo proprio per una dimensione immediatamente transnazionale delle contraddizioni del capitale globale e dell'eredità del precedente ciclo di governance comunitaria. Le nubi all'orizzonte possono spaventare tutto il ceto politico tedesco ed europeo, comprensibilmente. E una classe dirigente non all'altezza, in crisi di legittimità e spaventata del proprio avvenire verosimilmente, come in Germania, e ancor di più in Francia, non si farà problemi a militarizzare le strade del continente e reprimere qualunque minaccia all'ordine che sparisce. Ma tra i soggetti politici oggi quelli più preoccupati, e a ragion veduta, è legittimo pensare ci siano proprio i Verdi, in una transizione complessa e delicata e in una fase delicata come il ghiaccio sottile. La loro futura vittoria politica potrebbe trasformarsi nella pesante condanna a risolvere tutti i problemi e le questioni che, per troppo tempo, la Germania, e l'Europa a trazione tedesca, hanno nascosto sotto il tappeto. Una sfida di governo molto più pesante di quella del governo federale rosso-verde degli inizi del millennio. Una sfida lanciata da una linea di credito generazionale, di movimenti sociali e da un elettorato sempre meno incline alle mediazioni. Una sfida difficilissima che oggi anche per le loro ambiguità i Verdi non sembrano essere in grado di raccogliere (e non sembrano neanche volerlo). Un boomerang che se reale potrebbe pregiudicare irrimediabilmente ogni futuro per la famiglia ambientalista europea, e purtroppo con loro, anche un pezzo del futuro della vita sul pianeta.

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Nota di aggiornamento

Questo testo è stato scritto a caldo a meno di tre giorni dalla data del voto. Nel giro di una settimana tuttavia, in modo anomalo per la prassi politica tedesca, si è prodotta una drammatica accelerazione. Un sondaggio appena pubblicato conferma che la priorità per i tedeschi è la sicurezza ambientale, il clima, il surriscaldamento globale che supera di gran lunga sia le questioni legate a sicurezza e immigrazione sia quelle legate a economia, integrazione europea, geopolitica e lavoro.

Il sondaggio ribadisce la crescita dei Verdi che appaiono travolti dai movimenti ambientali e da un’opinione pubblica che li sta investendo di un’inedita fiducia a cui è difficile rispondere senza una rottura col quadro della governance locale, federale, europea.

L’SPD nel frattempo sta implodendo in una “notte dei coltelli” di cui ha fatto le spese la Nahles e una parte del gruppo dirigente. Sempre più in crisi di consenso la CDU, che continua a essere bersaglio per le risposte “d’urgenza” totalmente inappropriate alle questioni ambientali.

Sempre più spesso invece una parte di destra della burocrazia, dei servizi e delle polizie democristiane stanno stringendo accordi e alleanze con Alternative Fuer Deutschland, ormai partito regionale che ricostruisce l’identità ferita dei Laend Orientali e si prepara alle elezioni regionali.

In questo quadro i movimenti antifascisti aprono il dibattito proprio sulla Germania orientale e sul significato del voto xenofobo nell’ex DDR, oppure rilanciano a livello federale e territoriale attaccando l’industria carbonifera, la rendita immobiliare e la Volkswagen, costruendo un’agenda per le mobilitazioni future. 

In questo quadro instabile tutti i media guardano al prossimo venerdì, quando ancora una volta la generazione di Friday for Future scenderà in piazza.