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I movimenti nelle istituzioni

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Commento di Dario Lovaglio sulle elezioni in Spagna

Chiamando evento storico un passaggio da una fase politica ad un’altra, la sinistra catalana si è finalmente imbattuta in un evento significativo: il partito indipendentista ERC (Esquerra Repúblicana de Catalunya), che non aveva avuto un sindaco a Barcellona dal 1939, è riuscito a vincere le elezioni municipali a Barcellona candidando a sindaco l’ex socialista Ernest Maragall. La distanza dal partito di Ada Colau è stata di poco meno di cinquemila voti, sufficienti a non permettere a BEC (Barcelona en Comú) di potersi confermare al governo della città.

Con un’astensione ridotta a circa cinque punti percentuali rispetto alle elezioni del 2015 (66% di partecipazione), le elezioni municipali consegnano la vittoria all’indipendentismo repubblicano per pochi punti, sufficienti a mutare gli umori della cosiddetta “nuova politica” che fino all’ultimo ha puntato sulla sua candidatura ormai riconoscibile solo grazie al volto di Ada Colau, che nei manifesti della campagna elettorale appariva sempre in primo piano, riducendo il logo del partito a un’appendice poco riconoscibile. L’estremo personalismo del partito, sommato ad un atteggiamento timido rispetto al tumulto del primo ottobre del 2017, ha probabilmente sconfortato un elettorato che piuttosto che un “municipio del cambio” ha visto poche concessioni rispetto all’indurimento della crisi e alle crescenti esternalità dovute dalla “turistificazione” della città. Soprattutto considerando le aspettative rispetto ad una soluzione all’emergenza abitativa, infatti, Ada Colau prima di diventare sindaca era stata protagonista del movimento per la casa nello stato spagnolo. La grande raccolta delle firme di diversi intellettuali internazionali non è bastata alla prima sindaca di Barcellona per strappare la conferma del mandato; in questi quattro anni Ada Colau aveva resuscitato gli animi dei socialdemocratici di tutto il mondo, ma anche e soprattutto quelli dei verdi catalani di ICV che, nascosti sotto la sigla di BEC, hanno potuto governare per quattro anni vedendo raddoppiati i loro seggi rispetto al 2011. 

Nel discorso successivo alla sconfitta, Ada Colau ha comunque ricordato, dopo essersi congratulata con il vincitore, come oggi Barcellona sia in maggioranza una città di sinistra anche grazie a loro. Ad esempio, sia i socialisti che i repubblicani hanno raddoppiato i loro seggi, mentre la sua formazione ne ha perso uno. L’argomento della vittoria della sinistra risulta quantomeno controverso.

Ernest Maragall è il vincitore di questa tornata elettorale: proveniente da una famiglia catalana di notabili, è in politica dal 1960. Senza ripercorrere le tappe della sua storia politica, è sufficiente ricordare il suo ultimo incarico come consigliere alle relazioni istituzionali e alla trasparenza nel 2018 per il governo della Comunità Autonoma della Catalogna post-referendum, presieduto dall’indipendentista conservatore Quim Torra. Nel suo discorso ha ricordato come seguirà i passi verso la Repubblica Catalana cercando l’appoggio di tutte le forze politiche a sinistra per liberare i prigionieri politici e gli esiliati accusati dalla procura di ribellione e malversazione. Sempre nello stesso discorso fa presente una recente telefonata con la sindaca uscente, facendo così intravedere la strada di una collaborazione per la formazione del futuro governo, dato che i seggi di entrambi i partiti non arrivano alla maggioranza assoluta.

Sempre a sinistra, scompare il partito indipendentista CUP (Candidatura d’Unitat Popular), che non supera lo sbarramento del 5%. Nel suo discorso, il nuovo sindaco ha garantito che, nonostante la loro assenza nel municipio, conterà sul contributo della formazione indipendentista.

Stando ai numeri, quindi, sembrerebbe che più che un giro a sinistra ci sia un ritorno al voto per la stabilità; a Barcellona, infatti, dei ventiseimila voti persi da BEC la maggior parte si concentra tra le periferie della città che hanno invece preferito il voto socialista, come del resto è successo nella maggior parte dei municipi spagnoli.

Più in generale, tutte le vittorie delle candidature municipaliste nate nel 2015 sono state battute dai socialisti, tranne che a Cadice, dove il loro rappresentante Kichi si è presentato come indipendente sganciato dalla candidatura di Podemos. Il sogno municipalista che aveva approfittato della forza del movimento degli indignados del 2011 (15M) è evaporato in pochi anni, portando con sé oltre alla crisi della rappresentanza anche quella della militanza politica, avendo sostituito la piazza e lo slogan “nessuno ci rappresenta” con la sempre più burocratizzata funzione dei partiti, sempre costretti alla mediazione e al tatticismo. Infatti, molte delle forze impegnate nelle fila dei movimenti oggi sono alle prese con i propri partiti di riferimento e le loro vicende interne. A Madrid il partito dell’uscente sindaca Manuela Carmena di Más Madrid, nonostante sia il primo partito, non supera la maggioranza della destra, riconsegnando così la capitale spagnola nelle mani del Partito Popolare. C’è grande confusione sotto il cielo: Manuela Carmena sempre più vicina ai socialisti, posizionandosi pubblicamente a favore degli sfratti, si era scissa da Ahora Madrid con Iñigo Errejon – fuoriuscito da Podemos – e dalla sua “composizione di movimento” chiamata Ganemos, che correva con la candidatura di Madrid en Pié appoggiata da Pablo Iglesias, insieme alla corrente trotzkista Anticapitalistas. Madrid en Piè non ha superato la soglia dello sbarramento e, il giorno dopo la sconfitta, Ada Colau manda un messaggio d’amore alla sindaca uscente di Madrid in cui dice testualmente che si tratta della miglior sindaca che Madrid abbia mai avuto. Evidentemente gli sfratti non importano più a entrambe.

Rispetto alle elezioni europee, in Catalogna il partito di Puigdemont Junts per Catalunya (JxC) porta a casa il risultato migliore, offrendo una nuova opportunità per tornare ad internazionalizzare il conflitto catalano in vista del giudizio del Tribunale Supremo di quest’autunno. Mentre nello stato spagnolo si conferma la vittoria della formazione socialdemocratica del PSOE, così come era avvenuto nelle recenti amministrative, con uno scarto di dieci punti percentuali sul PP.

A questo punto vi domanderete perché tante sigle e tanti numeri per dare un senso alla giornata elettorale; cercheremo di ordinare le questioni poste da quattro anni di esperimenti in campo istituzionale per tracciare delle linee che possano individuare delle tendenze in grado di anticipare i tempi e quindi poterli curvare verso i nostri propositi.

  1. La prima considerazione va fatta rispetto alla sconfitta della “nuova politica”: a Barcellona, almeno a giudicare dal risultato, sembrerebbe che BEC sia diventato un partito di servizio per il mantenimento di quei pochi ammortizzatori che sono riusciti a mettere in piedi durante questi anni di governo. Quindi l’ipotesi dell’assalto alle istituzioni messo in marcia dalla intellighenzia spagnola dopo il 15 maggio 2011 sembrerebbe arrivato al suo termine, perdendo sia la ragione della propria esistenza che la prospettiva. Infatti, piuttosto che l’entrata della gente comune dentro le istituzioni, sembrerebbe che l’assalto abbia determinato il processo inverso, ovvero una disarticolazione delle lotte nate e consolidate nel 2011 con un’edulcorazione istituzionale fatta di equilibri, tatticismi e alleanze. Il vero assalto lo hanno fatto le istituzioni sui movimenti grazie a chi fa del vittimismo di sinistra la propria bandiera, giustificando le proprie azioni con le metafore del tetto di cristallo istituzionale che non ne permetterebbe il superamento, diventando loro stessi il nuovo tetto di cristallo da distruggere. Questo concetto viene esaustivamente espresso da un video della campagna di BEC in cui Ada Colau incontra il suo alter ego di cinque anni fa, attivista del movimento per la casa che le ricorda da dove viene. La domanda che sorge è: quale bisogno c’è di ricordare a se stessa il proprio passato? A chi non è chiaro, a chi guarda o a chi mette in scena la rappresentazione della propria autocritica? Una persona elegante e appena uscita dal parrucchiere, davanti a un’Ada non curante del suo aspetto, che porta i segni della lotta per farli vedere a una persona irriconoscibile. Nell’autorappresentazione di questo dilemma identitario si trova la cifra della schizofrenia prodotta dagli effetti della politica istituzionale.
  2. Il conflitto si presenta sotto diverse forme, a volte anche mostruose, dentro questioni ambigue come il conflitto nazionale catalano. Si dirà che quello non era il momento e quello non era il luogo, ma due milioni di persone determinate a confrontarsi con i manganelli della polizia per poter celebrare un referendum non è cosa da poco. È vero, non ci piace l’indipendenza e la formazione di un nuovo Stato-nazione; in Catalogna però non stava avvenendo la formazione di un nuovo Stato ma la sua messa in scena. Non c’era nessun esercito catalano pronto a difendere il suo popolo per la liberazione della Catalogna, anzi l’esercito era stato mandato da Madrid con delle barche da crociera della Warner Bros per dare una lezione di educazione civica a base di manganello ai catalani che volevano celebrare un referendum per la propria autodeterminazione nazionale. Dovremmo quindi porci la domanda se la gente comune sarebbe quella che governa nella piazza Sant Jaume o quei due milioni di persone presi a manganellate. Qui i più accaniti osservatori diranno che era una macchinazione della destra conservatrice, quindi dovremmo aspettare che tutti i desideri trovino una corrispondenza con la realtà per poter alimentare un processo rivoluzionario, come se gli eventi passassero il controllo di qualità della sinistra che distingue i processi rivoluzionari buoni rispetto a quelli cattivi. Ma se invece di insistere sull’ossimorico patteggiamento di un referendum autoproclamato contro lo Stato si fossero cavalcate le ragioni di una critica a un modello di società insostenibile, probabilmente ci saremmo trovati davanti a un vero partito municipalista che avrebbe approfittato del conflitto per costruire egemonia, non per desiderare di governarlo con delle riforme.
  3. Il 15M era nato come una critica radicale della rappresentanza e del bipartitismo. L’occupazione delle piazze si sviluppava nel contesto dei primi effetti della crisi provocati dal PSOE di Zapatero a partire dalla riforma del lavoro del 2010. A grande scala, quindi, la “nuova politica” ha regalato una vittoria schiacciante del partito di centro neoliberale, mentre su piccola scala in Catalogna ha risuscitato la vittoria dell’indipendentismo moderato neoliberale. Possiamo ipotizzare che esista una relazione inversamente proporzionale tra lo svuotamento delle fila dei movimenti sociali e la crescita del voto moderato. Dopo sette anni di ciclo elettorale in Spagna c’è chi festeggia il ritorno dei socialisti, dimenticando che fu proprio un governo socialista il detonatore dell’esplosione delle proteste culminate in scioperi generali e manifestazioni che arrivarono fino al movimento delle piazze del 2011.