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Intervista a Nanni Balestrini

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Per ricordare la straordinaria figura di Nanni Balestrini, che ci ha appena lasciato, pubblichiamo l'intervista contenuta nel volume Gli operaisti (a cura di G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, uscito per DeriveApprodi nel 2005)

Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e gli inizi della tua esperienza politica? 

Anche se allora non ero più studente, il ’68 ha rappresentato una svolta nel mio atteggiamento rispetto alla situazione politica. Io avevo intrapreso un percorso culturale prima nell’ambito del Gruppo 63 e poi in una rivista che si chiamava «Quindici». In questa rivista, fatta da letterati, che ha iniziato la pubblicazione nel ’67, c’era già un interesse abbastanza ampio per le questioni di attualità politica: ricordo che c’erano articoli di Pagliarani che aveva fatto un viaggio a Cuba, articoli di Facchinelli, di Manganelli sulla questione dell’aborto; era una rivista di letteratura e di cultura, ma con una tensione agli avvenimenti di attualità. In tutto questo c’è stato appunto il ’68 e i fuochi precedenti al ’68, la morte di Che Guevara, l’occupazione di Palazzo Campana nel 1967 e altri grossi avvenimenti politici. Dopo cinque numeri di questa rivista mensile ne abbiamo fatto uno dedicato al movimento studentesco di Palazzo Campana; Filippini era stato a Torino e aveva portato una serie di materiali, avevamo fatto un grosso inserto autogestito dagli studenti e un manifesto di Palazzo Campana, in un momento in cui non c’era nessuna altra pubblicazione – lo fecero più tardi i «Quaderni piacentini» – che si occupava di dare direttamente la voce agli studenti. Poi nel gennaio del ’68 era venuto da me un ragazzino portandomi dei volantini sulle prime agitazioni dell’università romana, quello studente era Oreste Scalzone! Così abbiamo iniziato a pubblicare i materiali prodotti direttamente da chi costruiva le lotte, avevamo anche contatti internazionali, tra cui l’Argentina, la Francia, Praga. Piano piano questa rivista ha preso sempre più un taglio politico, aveva un rapporto diretto con gli avvenimenti, era diventata una sorta di cassa di risonanza delle lotte che si sviluppavano, e io stesso mi sono trovato ad avere un coinvolgimento sempre più diretto, ho conosciuto molti compagni anche di diverse situazioni che si stavano creando. Nell’autunno del ’69 la rivista ha chiuso poiché una metà di chi la costruiva era molto interessato a ciò che succedeva e a ciò che la rivista faceva, ma un’altra metà non aveva un particolare interesse per la politica. Successivamente ho fatto un’altra rivista che si chiamava «Compagni,» però la situazione stava cambiando poiché nascevano le riviste legate ai gruppi e non aveva più tanto senso il progetto legato a «Quindici», infatti ne sono usciti solo due numeri. Io in quel periodo lavoravo per Feltrinelli, nell’inverno del ’69 dopo piazza Fontana lui è entrato in clandestinità, ma io ho continuato ad avere un rapporto con lui fino alla sua morte, nel 1972. Nel frattempo avevo scritto il libro Vogliamo tutto, che nasce dopo il mio viaggio a Torino nel ’69, durante l’occupazione Fiat, dove ho conosciuto Alfonso e i compagni torinesi, ma esce nel ’71. Intanto era nato Potere operaio, la seduta della fondazione era stata fatta a casa mia a Roma, tra i partecipanti c’erano Negri, Piperno, Scalzone, Daghini, Greppi, Dalmaviva, Bologna. Da lì io mi sono sempre occupato della parte editoriale, ovvero del giornale «Potere operaio», che ha avuto diversi formati e fabbricazioni e dei quaderni «Linea di massa». La redazione era a Milano a casa di Giairo Daghini, ogni settimana con lui e Scalzone andavamo in tipografia a Roma e in un giorno impaginavamo e facevamo il giornale. Una cosa simile è avvenuta anche nel ’76 per «Rosso», in questo caso c’era anche Bifo, che ho conosciuto giovanissimo; nel 1975 sono andato a stare a Milano e ho fatto una casa editrice che si chiamava Area, che era in realtà un consorzio di case editrici nato per mettere in comune delle funzioni che per una piccola casa editrice sono molto costose, come la redazione, le vendite e l’ufficio stampa. Alcune già esistevano, altre erano nate per l’occasione, c’era Libri Rossi, L’Erba Voglio, le edizioni di Aut Aut, Squilibri e altre. Eravamo arrivati a mettere insieme una decina di queste case editrici, ciò permetteva di essere editori senza avere tutte le competenze professionali per farlo, poiché c’era Area che se ne occupava: si occupava dell’impaginazione, della tipografia, dell’ufficio stampa e della distribuzione. Tutto questo si è inceppato a causa della repressione che in quegli anni lì incominciava a essere pesante, io per esempio sono stato perquisito più volte, ma soprattutto, questo si è scoperto un po’ dopo, c’è stato un altro fatto. Nel progetto c’era un altro socio, Luigi D’Urso, amico di Bifo, che era di una famiglia molto ricca, il padre era un importante avvocato. Luigi inizialmente aveva messo dei soldi nel progetto Area e vi lavorava insieme a me e ad altri, ed evidentemente questa cosa dava fastidio, tant’è che una mattina del 1977 a Roma un maresciallo dei carabinieri andò a casa del padre a spiegare che il figlio stava facendo qualcosa di male. I genitori si sono spaventati, hanno preso il figlio, l’hanno mandato all’estero e hanno chiuso il progetto: in realtà inizialmente avevano detto che bisognava fermarsi un attimo e alla fine l’attimo non ha avuto una conclusione e tutto si è bloccato, e tra l’altro loro ci hanno anche perso molti soldi. A quel punto il clima era molto pesante, io ho pensato di fare una rivista che mettesse gli intellettuali di fronte a questa situazione, di fronte a quanto stava accadendo. Nei primi anni Settanta c’era stato un entusiasmo quasi commovente degli intellettuali, quando il gioco ha cominciato a farsi un po’ duro, con la forte repressione e la nascita delle Brigate rosse, hanno cominciato a tirarsi indietro, non tutti, ma certo una parte si è tirata indietro, la ritirata generale è stata dopo il rapimento Moro e nei primi anni Ottanta. Allora ho messo in piedi una rivista che si chiamava «Alfabeta», con un gruppo in cui c’era Umberto Eco, Maria Corti, Leonetti, Rovatti e altri, Gianni Sassi era l’editore. La rivista all’inizio andava bene, si vendeva molto, le persone che ci lavoravano erano molto appassionate al progetto, si riunivano una volta alla settimana, anche se la rivista era mensile. Io a tutto questo non ho partecipato, il primo numero è uscito il 20 aprile, dopo il 7 aprile e io non ero più in Italia. Non sapevo di essere tra le persone ricercate, stavo a Milano, c’erano tre persone non arrestate, uno era Piperno, poi c’era Marongiu che era sulla nave dalla Sardegna all’Italia e poi c’era un terzo che i giornali dicevano di non sapere chi fosse. Io ho comprato un giornale il pomeriggio, una settimana dopo gli arresti, e leggo nel titolo di prima pagina che il terzo ricercato era Balestrini. Ho pensato di scappare immediatamente, sono andato a casa di un amico insospettabile e poi ho raggiunto mia sorella a Courmayeur e vestito da sciatore ho fatto il passo sciando, sono arrivato in Francia e sono andato a Parigi. Mi hanno cercato a Roma a casa di una mia ex compagna, Letizia Paolozzi, ma non è chiaro perché non mi hanno cercato a Milano; alcuni dicono che non mi volevano realmente cercare. 

Puoi approfondire l’esperienza del Gruppo 63? 

Il Gruppo 63 nasce nel 1963 con le riunioni di Palermo in cui partecipano scrittori nati tra il ’25 e il ’35, molti dei quali arrivavano dalla rivista «Il Verri», iniziata nel 1956, di cui io ero diventato redattore. Tra questi scrittori c’erano grandi differenze e disparità, con tipi di scrittura molto diversi, ma avevamo in comune un rifiuto della tradizione letteraria che ereditavamo, la consideravamo superata, vecchia, inutile e soprattutto non rispondente ai tempi che stavano cambiando. Tutto questo avveniva in un periodo di grande trasformazione con il boom economico, in cui l’Italia da paese agricolo improvvisamente diventava un paese industriale, provocando completi sconvolgimenti dell’aspetto sociale, con le grandi migrazioni del Sud al Nord e la nascita di grosse fabbriche a Torino e a Milano. Tutto questo accompagnato da un aspetto molto importante per gli scrittori: la lingua. Nasce la lingua italiana, prima c’erano i dialetti, con la scuola dell’obbligo, che inizia negli anni Cinquanta, con la televisione e con gli spostamenti della popolazione nasce un italiano che non è più il fiorentino. Noi vedevamo una differenza con questi scrittori a noi immediatamente precedenti che parlavano di argomenti di un’Italia che non c’era più, oppure con una lingua che non era più la lingua parlata. Uno scrittore come Gadda, invece, era per noi una voce interessante, così come il primo Ungaretti, Palazzeschi e soprattutto gli stranieri. L’Italia con il fascismo era stata un po’ esclusa dalle grandi letterature europee, perciò c’è stato il bisogno di riprendere i contatti con questi discorsi e questo era il tentativo che stava cercando di fare «Il Verri». L’idea è nata sulla base dell’esperienza del Gruppo 47 tedesco, un gruppo nato subito dopo la fine della guerra; durante la guerra la letteratura tedesca era scomparsa, la nuova generazione aveva deciso di provare a riunirsi cercando di confrontare collettivamente il lavoro individuale. Questo ha prodotto in poco tempo una letteratura straordinaria, noi avevamo rapporti diretti con la casa editrice Feltrinelli che pubblicava questi testi tedeschi e abbiamo messo in piedi lo stesso meccanismo, con le riunioni erano aperte a cui venivano sempre nuovi scrittori. Nel 1967 abbiamo deciso che questo lavoro era finito. Tale esperienza ha avuto uno sfondo politico, ci sono stati alcuni intellettuali come Gugliemi che dicevano che aveva rappresentato per la letteratura un qualcosa di omologo a quello che è stato il ’68 per la formazione e la cultura. 

Tu hai sottolineato il rapporto esistente tra letteratura e movimenti degli anni Sessanta e Settanta, quali similitudini e differenze vedi tra il rapporto in quel contesto e quello nel contesto attuale? 

Negli anni Sessanta noi, con il Gruppo 63, eravamo ferocemente contro quella che si chiamava la letteratura impegnata, pensavamo che l’impegno dello scrittore si dovesse esercitare attraverso la scrittura, la lingua, il famoso saggio di Sanguineti Linguaggio e ideologia dice questo. Gli anni Settanta sono stati anni in cui la letteratura ha dato molto poco, la mia spiegazione personale è che allora la generazione di Oreste Scalzone e Sergio Bianchi era fatta di persone che, se non ci fosse stato il movimento politico, avrebbero fatto gli scrittori, gli intellettuali, ma si sono trovati nell’esplosione del movimento e non hanno fatto i letterati. Anch’io, che ero letterato, negli anni Settanta non ho scritto quasi niente, ho fatto qualcosa, ma poco, perché non avevi il tempo di farlo, non avevi tempo di pensare il presente, quello che accadeva non ti permetteva di fermarti un attimo, lo scrittore deve avere un po’ di distacco e lì non era possibile, non c’era il tempo. Poi ci sono sempre degli scrittori che hanno come carattere un distacco dalla realtà, vivono un po’ isolati, e non è sempre un male, anzi. Anche Manganelli è un grande scrittore che non ne voleva sapere di una partecipazione politica, non firmava neanche un appello, aveva un’idiosincrasia, ma le sue opere, anche se non vi appare direttamente qualcosa che riguarda l’attualità, anzi ne sono totalmente fuori, sono significative lo stesso. Negli anni Settanta c’è stata una mancanza nella creazione letteraria, dopo, soprattutto negli anni Ottanta, c’è stato un grande riflusso, in cui sono venuti fuori tutti i nemici del Gruppo 63. Ancora oggi saltano fuori articoli o libri che accusano il gruppo di aver rovinato l’Italia, di aver fatto cose spaventose, un anno fa Enzo Siciliano ha pubblicato un libro quasi solo per dire questo. Comunque dopo il ’78 l’editoria ha fatto tabula rasa dei libri politici e la generazione che è venuta dopo si è rifatta a quello che è stato fatto prima del Gruppo 63, cioè una poesia che è tornata a essere lirica, comprensibile, dei sentimenti, molto semplice; la narrativa dei romanzi ancora con un taglio tradizionale, improntata sui buoni sentimenti. C’è stato un fenomeno nuovo solo agli inizi degli anni Novanta, con la nuova generazione, che adesso ha circa quarant’anni e inizia a fare qualcosa spontaneamente: nella poesia pensiamo a Genova o a Napoli, con poeti come Voce, Cipollato, Gentiluomo, Cademartori. Loro riprendono a fare una poesia di ricerca, non più con uno stampo tradizionalistico, come quella degli anni Ottanta, si riallacciano anche al Gruppo 63, non per rifare le stesse cose, ma per riprendere lo spirito di ricerca e provare a fare delle cose nuove; anche nella narrativa esplodono contemporaneamente delle sperimentazioni. Si forma anche un gruppo chiamato ironicamente Gruppo 93, nato nel 1991 con l’idea di sciogliersi nel 1993, poi c’era l’esperienza di Reggio Emilia in cui c’era una sorta di passerella per gli scrittori inediti, che potevano leggere i loro testi per discuterli con critici di case editrici, per cercare di supplire al fatto che di norma le cose che si mandano alle case editrici non vengono mai lette. Nel 1995-96 esplode un gruppo di giovani scrittori tra cui Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Rossana Campo, Giuseppe Caliceti, Niccolò Ammaniti, Silvia Ballestra e qualcun altro, scrittori di ottima qualità, tutti diversi l’uno dall’altro, ma tutti orientati alla ricerca, a una scrittura nuova che riprende molto il linguaggio parlato, il linguaggio dei media, del cinema, questa è un po’ la sua caratteristica. 

In tutti i tuoi romanzi hai sempre avuto una grande attenzione a registrare, dar voce ai nuovi soggetti e ai nuovi comportamenti. In qualche modo oggi quale potrebbe essere un Vogliamo tutto dei soggetti che compongono i nuovi movimenti? 

Vogliamo tutto nasce dall’incontro con Alfonso, Gli invisibili dall’incontro con Sergio Bianchi, I furiosi dopo aver conosciuto in Calusca a Milano le Brigate Rossonere, mi piaceva l’idea di raccontare le storie che si raccontavano tra loro. Il libro sulla camorra è anche questo, come gli altri, casuale, ero andato con Sergio ad Aversa per fare una presentazione dell’Orda d’oro in una piccola libreria, poi siamo andati a mangiare la pizza e un giovane che aveva seguito il dibattito ha iniziato a raccontarmi queste storie. Ho sempre cercato di narrare delle storie collettive, attraverso i linguaggi di quei personaggi: invece di descriverli uso il loro linguaggio ed è già una descrizione. Oggi è più difficile, ma senz’altro direi i precari e i migranti: i precari, però, sono sparsi, raccontare la storia di un precario vuol dire raccontare mille storie, non ce n’è una esemplificativa, e anche con i migranti è difficile, sono storie troppo individuali, sono vite che vanno per conto loro.