Stampa

Il salvinismo è una tigre di carta

on .

Leggendo questo titolo, probabilmente, molti penseranno a un’analisi degli ondivaghi sondaggi che segnalano un calo dei voti per la Lega. Niente affatto. Lasciamo i sondaggi a Repubblica e a Mentana, agli affezionati lettori e spettatori della cronachetta quotidiana. Non solo perché i sondaggi, soprattutto negli ultimi anni, si sono puntualmente rivelati degli strampalati bluff. Il problema sta a monte. Per capire quello che realmente accade nella materialità dei rapporti sociali, dobbiamo distanziare lo sguardo. Lontano dai sondaggi, lontano anche dalle urne elettorali. Fuori dall’opinione pubblica, dentro la composizione sociale, le sue contraddizioni, le sue possibili linee di faglia.

Fin dagli esordi del governo giallo-verde, e poi via via lungo il suo incerto e strambo cammino, abbiamo sostenuto che non vediamo alla base del leghismo dei blocchi sociali e di potere consolidati, quanto piuttosto una combinazione – scrivevamo – tra personalizzazione della leadership, amministrativizzazione del quadro intermedio, liquidità di una base squagliata nel fluttuare delle passioni, fatta di follower e non più di militanti, com’era per il leghismo padano. Anche per questo, e non solo, ogni paragone col fascismo ci sembrava e continua a sembrarci analiticamente inutile, se l’obiettivo è comprendere il nemico per sconfiggerlo, e non semplicemente insultarlo per sfogarsi. Ora, alla luce di quanto avvenuto negli ultimi mesi, possiamo azzardare un’ipotesi: il salvinismo funziona e si gonfia sul breve periodo, per aizzare gli istinti della folla solitaria e soddisfarli mediaticamente; sul medio e lungo periodo, non è in grado di trasformare l’effimero della folla solitaria in una stabile massa di consenso. Il passaggio al partito nazionale è in questo senso fallimentare, a meno che per partito nazionale non si intenda l’estensione geografica a tutta la penisola di selfie e hashtag. Non è neppure escluso che in tempi non troppo distanti proprio lo strato intermedio leghista, quello formatosi in oltre vent’anni nelle esperienze amministrative locali, tenterà di disfarsi di una leadership non più funzionale ed espansiva.

Se ci chiediamo quello che Salvini ha concretamente portato a casa in un anno di governo per i suoi follower, la risposta è presto detta: nulla o quasi. Per coprire l’assenza di risultati tangibili (il cardine del programma economico leghista, la flat tax, è stata accantonata senza nemmeno dare battaglia; che su facebook vengano prima o dopo, gli italiani che stavano male continuano a stare male; i migranti sbarcano con le stesse percentuali che il Pd e il suo gerarca Minniti si vantano di aver raggiunto), lo schema salviniano si ripete in continuazione, e alla lunga stanca: l’attenzione dell’opinione pubblica viene spostata su un annuncio roboante, la Repubblica e i sinistri gridano allo scandalo e al fascismo, il cosiddetto ministro degli interni rivendica l’annuncio e per un po’ si discute di aria fritta. Nel frattempo, crisi, precarietà e impoverimento continuano a colpire duramente. È possibile a lungo andare pensare di soddisfare le vite e gli umori di chi fatica ad arrivare alla fine del mese con la manfrina dei porti chiusi, della legittima difesa, del decreto sicurezza? Evidentemente no. E d’altro canto, perfino in questi mefitici campi, Salvini non è riuscito a inventarsi nulla, perché i democratici che l’hanno preceduto avevano già orgogliosamente fatto il lavoro sporco.

Insomma, questo Matteo rischia di seguire una parabola simile a quella del Matteo che l’ha preceduto. Puntavano a governare in una fase di ripresa economica, rivendendo come opera propria una supposta discontinuità, e invece si sono trovati sprofondati nel baratro della recessione, di fronte a cui le promesse ci mettono poco a mostrarsi per quello che sono, cioè emerite balle. Ironia della sorte, in entrambi i casi le elezioni europee alimentano questo specchio deformante della loro immagine: nel 2014 il Pd renziano superò la quota del 40%, cinque anni dopo la Lega salviniana sembra poter gonfiare il petto con numeri significativi. Ma, si sa, le elezioni europee traggono in inganno, perché più che il consenso reale misurano l’opinione fittizia. E se l’Italia un tempo venne definita un’espressione geografica, la stessa Europa, potremmo dire, è oggi un’ingannevole opinione con effetti maledettamente concreti.

Così, mentre Salvini annuncia in continuazione che la pazienza è finita ed è pronto a rompere con i 5 stelle, la realtà è ancora una volta ben diversa. Nonostante la loro stucchevole insipienza politica, la grottesca guida di Di Maio e il fuoco quotidiano degli organi di informazione, a cominciare dal solito Partito di Repubblica, i pentastellati hanno indubbiamente ottenuto molti più risultati tangibili, benché – all’opposto del loro ingombrante alleato – siano incapaci di comunicarli. Sul reddito di cittadinanza si sono spese le ironie social dei compagni di “movimento”, spesso confinanti con il razzismo e il classismo, sempre suscitate dalla livorosa autoreferenzialità di chi vive separato dalla composizione sociale. Solo chi è geloso delle proprie astruse ricette per l’osteria dell’avvenire che, in vent’anni, non hanno prodotto altro che libri ideologicamente corretti, retoriche identitarie e fantasiose proposte illuminate prive di inchiesta e di rapporti di forza, può sentirsi espropriato dell’idea e non comprendere come qui si apra il campo di battaglia. Un campo, si badi bene, determinato da quella che Raffaele Sciortino definisce “lotta di classe nascosta”, che sostanziano i cosiddetti “populismi” (repetita iuvant: il termine andrebbe abrogato) e con cui ambigue opzioni come i 5 stelle contraggono un debito con cui devono fare i conti, pena perdere la loro ragione di esistere.

E del resto, lo stesso Salvini è sufficientemente furbo da rendersi conto che chi alla fine del mese ha 780 euro utilizzerà il voto che conta, quello delle politiche, per non perderli. Ebbene sì, la crisi della rappresentanza è anche questo, istintivamente è innanzitutto questo. Così il “capitano” si trasforma in capitone e sguazza alla botta di Siri provando a rilanciare sul primo tema che gli passa per la testa, in questo caso la chiusura dei negozi che vendono cannabis. Ancora una volta, Repubblica, sinistri repubblichini e social-compagni seguono il capitone e strepitano il loro paleo-antiproibizionismo. Come dire, al peggio non c’è mai fine.

La carta, reale o virtuale, di cui è fatta la tigre salviniana è  ovviamente quella dei media. Si tratta, in una bizzarra genealogia, della continuazione di una politica del simbolico che fu propria di alcune opzioni di movimento a partire dagli anni ’90, continuata fino alla mera autorappresentazione della sopravvivenza odierna. Non si tratta di tornare a una logora dicotomia tra simbolico e reale, sappiamo bene che il primo termine sta dentro il secondo, lo produce al pari di come ne viene prodotto. Il punto è che, nel salvinismo come in quelle pratiche di movimento, il simbolico si separa, diventa un’avanguardia autoreferenziale che presume di rappresentare la folla solitaria. L’autonomia del simbolico non è distante dall’autonomia della politica istituzionale, anzi ne è diventata la coerente continuazione. Lo abbiamo già detto: non si punta più a formare militanti bensì a eccitare i follower, non si misurano i rapporti di forza nella materialità delle composizioni sociali ma a compiacere le proprie tribù raccogliendo like e retweet, non si sedimentano prospettive di organizzazione collettiva e ricomposizione perché tutta l’attenzione è rivolta all’immediatismo del gesto individuale. Per questo, allora, chi pensa di potersi contrapporre a Salvini giocando sul suo campo, ha già perso in partenza. Disertare la dialettica tra gli autoreferenziali apparati del simbolico, situarsi dentro le linee di contraddizione in tendenza possibili, costruire anche comunicativamente una temporalità autonoma da quella della cronachetta: proviamo a partire da qui, per bruciare la tigre di carta senza nutrire altre, ancor più pericolose bestie.