Stampa

Kritik dell’apocalisse ordinatrice

on .

Julia Page recensisce Kritik. Prontuario di sopravvivenza all’agonia del capitale (DeriveApprodi)

“No future il cazzo! Mi sono fidato quando dicevano che ci avevano rubato il futuro, invece il futuro è arrivato, mortacciloro!”. Zerocalcare lo dice in modo semplice, ma sì, il futuro è arrivato, ed ha le sembianze del corpo agonizzante del capitale. E sebbene il paesaggio terrestre sia esteticamente ancora abbastanza (ma neanche troppo) distante dall’immaginario post-apocalittico à la Mad Max: Fury Road – lande desertiche e desolate, sconvolte dalle inquietanti tempeste di sabbia rossastra – lo stesso non si può proprio dire per quel che riguarda la guerra per l’appropriazione delle risorse scarse che, nello stesso film, infuria tra corpi mutanti e semi-meccanizzati. 

Crisi ambientale, crisi sociale, crisi geopolitiche – ma anche crisi di un “noi”, quello militante: queste sono le declinazioni dell’«agonia del capitale» su cui Kritik (DeriveApprodi, 2019) propone una riflessione. O meglio, riflessioni varie e variegate – scritte, disegnate, raccontate. E tutte rigorosamente anonime, nella volontà di creare un’«opera collettiva» in chiave anti-autoriale. Se da un lato questa scelta editoriale sembra fare eco al ritorno in auge delle opere anonime (vedi Comité Invisible), l’attuale contesto di semi-immobilismo militante italiano rende questo aspetto un particolare valore aggiunto del libro. E questo perché Kritik si rivolge in primis ai militanti, agli addetti ai lavori nostrani, notoriamente poco ben disposti a guardare al di fuori del proprio orticello – se non per controllare che l’erba del vicino sia meno verde della propria, s’intende. L’anonimato, in questo senso, va a mettere in crisi le pregiudiziali ideologiche e le pigrizie intellettive: ad attirare o respingere il lettore sono le immagini, i titoli, le parole, riportando così l’attenzione sul contenuto e sull’esigenza della riflessione, piuttosto che sull’Indice dei Nomi Proibiti della propria parrocchia (poi si sa, chi nasce tondo non muore quadrato, e via dicendo).

Più che un libro, dunque, un «prontuario», come viene definito in copertina: uno strumento altamente fruibile, grazie ai contributi che spaziano dall’ambiente alla robotica, dallo stato dell’arte del movimento italiano all’«arte al potere», e soprattutto grazie all’imponente e suggestivo progetto grafico. Ma non per questo uno strumento semplice: innanzitutto, perché Kritik è un libro tagliente e provocatorio. Parla alla pancia dei militanti e lo fa irridendone le convenzioni e i tabù – basta sfogliare il libro per notare subito una sezione grafica dedicata a Stalin, “umanizzato” con dei riferimenti anatomici e con la sovrapposizione del busto (lo «Stalin-come-ce-lo-immaginiamo») al ritratto firmato da Picasso nel 1953, quello che causò immenso sdegno nel Partito Comunista per la totale assenza di idealizzazione del leader. Difficile, poi, non provare un comprensibile senso di stizza quando si viene appellati come «compagni di merende» i cui rapporti di coppia, nell’epoca del «cornutismo reale», altro non sono se non una soluzione placebo per la scomparsa del collettivo. Ma dopotutto, la critica dissacrante – a fronte dei fallimenti passati e dell’immobilismo presente – non può riguardare solo i nemici. 

Ed è proprio la critica – verso il «noi» e verso il «loro» – il filo conduttore che lega i contributi, apparentemente frammentari e contrastanti soprattutto a causa della quasi del tutto assente unanimità di pensiero e di riferimenti teorici – ovviamente voluta e in linea con l’anonimato di cui sopra. L’esigenza di critica sembra, tuttavia, emergere da una più generale necessità di ricalibrare l’intervento politico in un contesto in cui le strategie di adattamento e sopravvivenza del nemico sembrano andare più veloci delle nostre (peraltro deboli) capacità di attacco, in cui fatichiamo a mordere sulla realtà, in cui anzi è proprio la realtà ad essere difficile da afferrare. 

Mistificazione, nichilismo pop, de-erotizzazione, devastazione dei territori, progresso tecnologico finalizzato alla prevenzione poliziesca e alla rivoluzione in campo militare: questa la descrizione accurata dell’agonia entro/attraverso cui il capitale riesce a riprodursi, con l’enunciazione di una crisi continua (che sia ecologica, sociale o politica, poco importa) e la fagocitazione della propria necrosi – una specie di immortalità garantita dall’avvicinarsi tendenziale, costante, ma mai definitivo, alla morte. Insomma, uno scenario se non angosciante per i pochi cinici rimasti tra le nostre fila, quantomeno sconfortante. Meglio lasciar perdere tutto, chiudere baracca e burattini, e andarsi a godere gli ultimi anni prima della catastrofe con i propri cari o spuntando progressivamente la lista delle “10 cose da fare prima di morire” (e, in genere, tra quelle 10 cose la rivoluzione non c’è). Eppure, a leggere Kritik non è lo sconforto a prendere il sopravvento, quanto piuttosto un senso di insoluto, una domanda che rimane aperta – e, in effetti, di questi tempi abbiamo bisogno più delle domande che non delle risposte. 

A leggere Kritik si capisce cioè che l’apocalisse non sarà come ce l’hanno raccontata, con il fuoco e le fiamme e i meteoriti e le carestie e le epidemie e gli angeli della morte. L’apocalisse è già qui, forse lo è già da tempo. L’apocalisse vive nell’eterna crisi del capitale, ed è il capitale ad annunciarla, in un misto di terrore e compiacimento. L’annuncia con il finto cordoglio che segue i disastri ambientali. L’annuncia di fronte alle cattedrali che bruciano, invocando la fine della civiltà. L’annuncia «con un’enorme quantità di altre cose non importa quali ma che non si riusciranno mai a prevedere» (p. 134), per stabilire e consolidare ordine e gerarchie, spesso attraverso quel meccanismo perverso ed ideologico, spacciato invece per scienza, che è la responsabilità individuale. Perché se il tempo sta per finire, possiamo star tranquilli che quel poco che rimane non verrà impiegato per l’inversione di rotta. Si tratta, paradossalmente, di un’apocalisse ordinatrice – un caos annunciato che contribuisce a ristabilire l’ordine delle cose. In fondo è questa la grande mistificazione del capitalismo contemporaneo – l’idea che la Storia e con essa il progresso si muovano su una linea retta e dunque ineluttabile, e a passi sempre più veloci, talmente veloci che arriveranno a un punto morto, in un futuro che non sarà il passato di nessuno. 

Ed è qui, però, che entrano in gioco i rivoluzionari – e, aggiungo con un sospiro di sollievo, che Kritik si smarca decisamente dall’ipotetica accusa di essere un libro deprimente sull’imminente fine del mondo e sull’impotenza rivoluzionaria. Questo perché i rivoluzionari non sono abitanti del tempo – almeno, non dal punto di vista della capacità di lettura, di analisi, di intervento. Non possono esserlo, pena il precipitare in quella stessa dicotomia che sta alla base del nichilismo che tanto criticano: o il consumo di esperienza – con una sempre più diffusa e quantomai deprimente sovrapposizione della ben nota e altrettanto fraintesa espressione «riappropriazione dei tempi di vita» (che incarnava il rifiuto della temporalità imposta dalla fabbrica nella vita quotidiana) con il ritiro a vita privata e il conseguente pensionamento dalla politica da parte dei/delle militanti; oppure, specularmente, la fobia sociale mascherata da ascetismo eremitico, che propone di fermare il tempo attraverso l’abbandono dei dispositivi mobili e la sconnessione dai social network, sfumando decisamente l’altrimenti netto confine tra primitivismo e possibilità di uscita dal capitalismo.

I rivoluzionari, invece, parlano di prospettiva e non di futuro, perché è la prospettiva che «affonda le proprie radici nella materialità del presente, di quello che siamo e contro cui cerchiamo di essere» (p. 66). Agiscono nella contingenza senza farsi catturare dalla contingenza, e dunque incidono sulla realtà senza farsi catturare dalla realtà. E questo è possibile solo nella misura in cui concepiscano la rivoluzione e, specularmente, l’apocalisse non come realizzazione di un’utopia (o, specularmente, di una distopia), ma come un atto di realtà, dunque lontano dalle roboanti dichiarazioni di guerra o di vittoria. In questo si incarna la «capacità di creare un nuovo possibile di ciò che il potere dichiara impossibile» (p. 143) – l’agire rivoluzionario, appunto. E lo dimostrano gli esempi riportati nel prontuario, esempi virtuosi di lotte territoriali che sono state in grado di intravedere la possibilità della rottura, tenendo a mente gli schemi rodati per praticarli in modo inedito. In questo senso, le genealogie più o meno esplicite ricostruite in Kritik – la grafica in stile fanzine, i caschi e i passamontagna, i ritagli di giornale come in A/traverso, i punk, Lenin, Genova 2001, “Lo Stakhanovismo” di Stalin – non sono affatto nostalgiche. Anzi. «Con l’identità, l’ideologia o la mera genealogia non si fanno le rivoluzioni» (p. 61), ed è necessario andare avanti – qualcosa in cui, diciamocelo compagni e compagne, difficilmente il movimento italiano brilla. Eppure, «abbiamo forse mai prestato giuramento di fedeltà alla nostra arretratezza? Pare di no, compagni! (ilarità generale)» (p. 41).

E questo, attenzione, non si traduce mai in un invito al becero nuovismo, che appartiene ai rottamatori di sinistra, quanto piuttosto in quello che può essere considerato, forse, l’elemento più interessante – o quantomeno innovativo – di tutto il prontuario, ovvero una velata (ma non troppo) consapevolezza del fatto che quel che siamo, e quel che siamo stati fino ad oggi, deve morire per conquistare l’immortalità. In altre parole: il capitalismo industriale si è trasformato in quello che vediamo oggi non tanto, o almeno non solo, per dei processi oggettivi come la finanziarizzazione, la globalizzazione, e chi più ne ha più ne metta. No. Il capitalismo ha capito che era nella sua stessa forma industriale che si annidava il massimo pericolo per la sua sopravvivenza, ovvero la classe operaia, sua indispensabile e strutturale parte interna e, in quanto tale, al tempo stesso minacciosa presenza antagonista. E quindi ha soppresso, superato, la parte di sé che metteva in pericolo la sopravvivenza del sistema intero. E forse noi dovremmo fare lo stesso: imparare a «metterci in crisi continuamente per divenire quello che siamo sempre stati» (p. 71). E come qualche penna suggerisce in Kritik, è la Termodinamica a insegnarci che nelle trasformazioni reali il disordine non diminuisce mai, anzi tende ad aumentare: è dunque il disordine che dobbiamo cercare, la tempesta che dobbiamo solcare. 

«Spesso mi figuro tutto il mondo a soqquadro e il cielo e il sole e l’oceano e tutti i globi nelle fiamme e nel nulla»: non un dipinto dell’apocalisse, ma lo sfondo del nostro spazio di possibilità.