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Gli anni che valgono un secolo

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Gigi Roggero recensisce M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (Bompiani, 2018)

M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati è, innanzitutto, un libro da leggere. No, non perché ne parlano tutti. Al contrario, è da leggere nonostante ne parlino tutti. Se poi a parlarne è “Repubblica”, non solo si moltiplicano le cautele e le avvertenze, ma si consolida una certezza: dobbiamo leggerlo in modo completamente differente. Un obiettivo nemmeno troppo celato di Scurati, infatti, è evidenziare l’attualità delle vicende narrate, o meglio la loro precipitazione – immediata o quasi – nella cronaca politica dell’oggi. Qui riceve l’interessato apprezzamento dei think tank della sinistra, qui la nostra lettura probabilmente si discosta dalle intenzioni dell’autore, diverge, prende una rotta diversa. Sicuramente è radicalmente estranea e antitetica all’interesse di “Repubblica” – così possiamo tirare un sospiro di sollievo.

Cominciamo con le coordinate del romanzo di Scurati: M. è Mussolini, il secolo è il Novecento. Titolo bello e ambiguo, perché rischia di trascinare l’intero secolo nella condanna del personaggio del libro. Come se tra il Novecento e Mussolini vi fosse lineare consequenzialità, un rapporto di inevitabile filiazione appunto. Invece di sciogliere l’ambiguità, proviamo a portarla fino in fondo, sondando l’ambiguità e anche l’ambivalenza di M. È infatti ambigua e ambivalente l’epoca in cui il romanzo si colloca, all’indomani della prima guerra mondiale, il grande evento-processo del Novecento. Lì, in quel periodo, succede tutto o quasi: la rivoluzione bolscevica e il fascismo, la crisi della democrazia e la crisi economica, i consigli operai e il “new deal”, che altro non è se non la grande risposta capitalistica alla maledetta paura della rottura sovietica. Differenti, radicalmente differenti, o meglio ancora contrapposte le direzioni prese; simile, molto simile, o addirittura comune la composizione soggettiva che alimenta e rende possibili quelle direzioni.

Da chi è formata, innanzitutto, quella composizione? Da milioni di proletari, operai e contadini che i padroni hanno mandato a massacrarsi per i loro interessi e i loro confini. Nelle trincee non hanno vissuto solo l’orrore della guerra; hanno sperimentato anche la potenza, bella e terribile, estremamente ambigua appunto, di essere parte di un corpo collettivo, di un soggetto in grado di esprimere forza e dominio. Ce lo ha spiegato quel grande reazionario di Jünger, mentre la sinistra non è mai stata capace di andare al di là del piagnisteo sui cumuli di morti. La parola d’ordine dei socialisti italiani “né aderire né sabotare” significa, concretamente, aderire e non sabotare. Piaccia o non piaccia, nella prima guerra mondiale è avvenuta una mutazione antropologica. O la si trasformava in guerra civile, oppure avrebbe preso una direzione contraria. Lenin l’ha capito in anticipo, altri continuano a non capirlo nemmeno un secolo dopo.

Quello che è successo in Italia, Scurati ce lo spiega molto bene. Sotto il cielo delle tempeste d’acciaio, in una guerra che aveva annientato la concezione tradizionale del soldato e fatto deflagrare il massacro tecnologico, nel bel mezzo della morte anonima di massa “gli arditi avevano riportato l’intimità del combattimento corpo a corpo […] avevano riportato l’individualità spinta ai confini estremi”. M., “odiato e odiatore di professione, sapeva che il loro rancore si accumulava, che presto sarebbero stati reduci scontenti di tutto. Sapeva che a sera sotto le tende bestemmiavano i politici, gli alti comandi, i socialisti, i borghesi”. Da aristocrazia di guerra a mucchio di disadattati: così gli arditi diventavano “quarantamila mine vaganti”. Mine vaganti non solo in senso metaforico, perché in un modo o nell’altro sarebbero esplose. È stato M. ad anticipare e direzionare l’esplosione.

I socialisti, asserragliati nelle diatribe ideologiche e chiusi nei ruoli istituzionali, non solo non hanno anticipato e dato direzione, ma non si sono resi conto di nulla. Invece il dopoguerra ha fretta, ci dice Scurati, perché “non si può vivere tutti i giorni con un’apocalisse all’orizzonte”, per cui “ogni giorno è una vigilia”. Mentre i riformisti tentano inutilmente di placare degli animi che hanno smesso di conoscere, i massimalisti continuano ad annunciare una rivoluzione che non hanno il coraggio di fare. A ogni occasione, dopo aver usato toni incendiari, precisano però che i tempi non sono ancora maturi, che scioperi e cortei avranno carattere puramente dimostrativo. Il momento della rottura è sempre “la prossima volta, compagni”, e a forza di rinvii prima o poi arriva qualcuno che non rimanda più e decide di agire. Mai fare appello alla forza se non si decide di agirla. Lo capisce perfino il triste riformista Turati: quando questi appelli verranno presi sul serio, ad accoglierli saranno i fascisti, “cento volte meglio armati di loro”. Tra socialisti e fascisti, così, “si scava incolmabile l’abisso della Grande guerra”.

All’inizio di dicembre del 1919, 156 deputati socialisti prendono posto in parlamento: una forza che, anche sul piano istituzionale, è straordinaria. Se ne stanno però tutti lì, ci dice l’autore, con il naso in aria, a guardare un po’ spaesati e un po’ intimoriti i maestosi fregi che decorano l’aula. Quando entra Vittorio Emanuele III, si alzano in piedi e se ne vanno, sfilando davanti al trono al grido di “viva la repubblica socialista!”. Sembrerebbe il segnale: la legittimità dell’istituzione è messa in crisi, ora si tratta di affondare il colpo. Scurati dipinge la situazione con toni e tinte perfette: “La gioia dura qualche istante. Poco dopo, onorevoli e senatori si accorgono con sgomento di non avere nessun progetto per il resto della giornata. I socialisti hanno conquistato l’Italia ma non sanno che farsene”. E poiché non sanno che farsene, vengono picchiati. E poiché vengono picchiati, proclamano un altro, più o meno inutile, sciopero generale. E poiché lo sciopero generale è ormai più o meno inutile, i fascisti ribaltano la situazione a loro favore. Quello che agli occhi dello storico determinista sembrano necessità oggettive, sono invece ben precise contingenze dentro un processo. Un’occasione persa dopo l’altra, la storia prende una direzione anziché quella opposta.

Le manifestazioni, di massa, pacifiche e perfino immotivatamente gioiose, si scontrano con i raduni dei nascenti fascisti, di minoranza, violenti e inneggianti allo scontro. A ogni assalto fascista, i socialisti rispondono presentandosi come vittime. E il carnefice diventa sempre più forte, molto più di quello che è in realtà. Serrati, leader dell’ala massimalista del Partito socialista, inorridisce di fronte al fatto che “tutto il bassofondo sociale si è armato di rivoltella e di pugnale, di moschetti e di bombe a mano”. Disarmiamoci, smobilitiamo gli animi, in alto le mani!, urla Turati nel novembre 1920, e aggiunge che l’appello è rivolto a tutti. I socialisti di ogni fazione lo faranno, i loro nemici no. E perché avrebbero dovuto? Leggendo il discorso del barbuto profeta di sventure riformista, già suo acerrimo avversario ai tempi della sua militanza socialista, M. viene immaginato da Scurati ridere di gusto: “I capi socialisti blateravano di organizzare la rivoluzione attraverso un esercito di militanti e in verità non c’era nessuna organizzazione. Lui quella gente la conosceva bene, da decenni. Quanto alla violenza, erano e sarebbero rimasti degli avventizi”. Lo avrebbe confermato nel 1921 un altro leader riformista, Rinaldo Rigola: “Dopo la guerra dei capitalisti, abbiamo fatto anche noi la nostra guerra, ma la nostra guerra è una guerra di deboli. Oggi abbiamo la controrivoluzione senza aver fatto la rivoluzione”. E così, i fascisti si trovano a terminare una guerra civile che i socialisti hanno annunciato senza assumersi la responsabilità di combatterla. Del resto, nelle rare, rarissime occasioni in cui socialisti e comunisti non si limitano a piangere e denunciare, ma attaccano e contrattaccano – come avviene a Sarzana – i fascisti sono colti di sorpresa e scappano alla rinfusa.

Scurati segue con attenzione il percorso di Giacomo Matteotti, nella sua testimonianza sacrificale, nella sua impotente coerenza, nel suo ideologico realismo, nella sua sterile predica. Matteotti annota una per una le violenze fasciste, le raccoglie in un libro, giorno dopo giorno sgrana il rosario della violenza fascista davanti a una parrocchia di fedeli sempre più ridotta, stanca, impaurita. Perché quando smetti di fare paura, della paura diventi inevitabilmente prigioniero. Un M. viene inevitabilmente schiacciato dall’altro M. Pensare che esibire la propria vittimità avrebbe sconfitto il carnefice è stato un tragico errore, che del resto è marchio di fabbrica della sinistra – che pure, va aggiunto, di Matteotti non ha mai avuto il nobile coraggio.

Dopo aver detto della tragica farsa socialista, concentriamoci ora su M., che come ben sappiamo dal socialismo proviene. Nel dipingerne la soggettività, Scurati evidenzia come mantenga l’orgoglio dell’appartenenza proletaria: la voglia di vendetta del figlio del fabbro romagnolo, non avendo trovato uno sbocco nella rivoluzione socialista, si esprime altrove. In modo consapevolmente e fin da subito reazionario? Qui l’ambivalenza andrebbe appunto portata fino in fondo, l’autore ci pare lo faccia solo in parte. O meglio lo fa implicitamente, timoroso di non creare equivoci sull’esplicita condanna complessiva del fascismo. Ciò può essere comprensibile nel vivo dello scontro politico, nella lotta mortale con il nemico; a un secolo di distanza, quel timore ci sembra piuttosto inutile. Nel libro, dunque, l’interpretazione del fascismo è piuttosto classica: è il partito della strato di mezzo, l’organizzazione del ceto medio in crisi, la promessa di nuova prosperità per una piccola borghesia destabilizzata. Vitalismo, azione, sprezzo del pericolo e della morte: in questo si risolve secondo l’autore il fascismo, fin dai suoi esordi sansepolcristi. Il racconto di Scurati è, in realtà, ben più ricco della sua interpretazione. La confusione del diciannovismo e del fiumanesimo è ben descritta: dentro vi sono passioni e vissuti estremamente contraddittori, che tuttavia hanno come comune nemico la conservazione dello status quo. In quella conservazione rientra tutto l’arco istituzionale, dai liberali ai socialisti, dai monarchici alla chiesa. Dopo essere scampata per quattro anni ai massacri della guerra, la gioventù non vuole ritornare a quello che c’era prima: alla miseria del già noto, preferisce i rischi dell’ignoto. Anche Fiume è l’ignoto, mentre la retorica socialista è il già noto. In poco più di un mese, la città diventa “un mondo di mondi, il porto franco del ribellismo di tutte le sponde politiche”. Diventa la “città di vita”, un “evento”. 

Ceti medi declassati, ex soldati di guerra che non accettano la mediocrità della pace, operai e contadini antropologicamente trasformati dalle trincee, brave persone prese dal panico e cadute nell’ansia: M., sostiene l’autore, “è stato il primo ad aver capito di poter sfruttare il rancore per la lotta politica, il primo a essersi messo alla testa di un esercito d’insoddisfatti, declassati e falliti”. Bisognerebbe aggiungere che quell’esercito non ha ancora una direzione, solo il processo gliela darà. La radicalità è ancora caotica se non informe, comunque priva di un’aggettivazione definita, quando verrà dato il primo assalto alla sede dell’Avanti di Milano; sarà nelle distese della pianura padana, nell’incontro con gli agrari, che quella radicalità diventerà irreversibilmente reazionaria.

Scurati spiega bene, alla faccia dei repubblichini di oggi (intendiamo quelli del Partito di Repubblica), come solo ex post tutti si siano ricostruiti una verginità rispetto al fascismo. All’epoca i liberali e la grande borghesia, dai politici ai colossi industriali ed editoriali, da Giolitti a Benedetto Croce, da Agnelli, De Benedetti e Pirelli fino al Corriere della Sera, per non parlare degli entusiasti ambasciatori delle democrazie occidentali, appoggiano i fascisti al servizio della reazione e temono i fascisti confusamente partecipi dello spirito rivoluzionario dell’epoca. Quando qualcuno dice che dobbiamo attestarci sul frontismo democratico per evitare il rischio del fascismo, bisogna rispondere che il rischio è già realtà e si chiama, appunto, democrazia. In quella contingenza storica specifica, M. scatena il disordine per farsi garante dell’ordine, agisce l’illegalità per diventare custode della legalità, fa la guerra per gestire la pace. E alla fine sovverte ordine, legalità e pace. Dopo il ’22 i fascisti si pongono la domanda: partito o esercito? M. non ha dubbi: un partito capace di trasformarsi in esercito, e un esercito che diventa partito. Un partito al contempo di governo e di insurrezione. 

L’importante per M. è non farsi mai imbrigliare in nessuno dei due poli. Gli imbelli socialisti, invece, finiscono grottescamente per essere gli ultimi difensori di un ordine e di una legalità che stanno affondando – e che avrebbero dovuto essere loro a far affondare. L’autore osserva correttamente: “Questa situazione lascia al nemico tutte le superiorità: quella dell’offensiva sulla difensiva, quella della guerra di movimento sulla guerra di posizione, quella dell’illegalità impunita sulla legalità scrupolosa, quella della facile distruzione sulla faticosa costruzione, sulla di chi non ha nulla da perdere su chi ha da perdere ogni cosa”. Mentre M. cerca di imparare – pro domo sua – dall’implacabile determinazione e dalla spietata energia di Lenin nel perseguire i fini rivoluzionari, Turati definisce quella del fascismo e del comunismo una “psicologia manicomiale”. Non c’è, a questo punto, altro da aggiungere. 

Dopo aver evidenziato l’importanza del libro, frutto di un imponente e meticoloso lavoro storiografico, torniamo a ciò che non ci convince. Noi non vediamo alcuna immediata precipitazione di quella storia nella nostra storia, di quella che è stata un’epoca in questa che è cronaca. Se si vogliono trarre degli insegnamenti, bisogna farlo in modo per certi versi rovesciato rispetto all’autore. In primo luogo, assumendo una decisiva discontinuità e irriproponibilità di categorie che pure vengono usate per pigrizia mentale, finendo per oscurare più che chiarire ciò che dovremmo provare a comprendere. Così, possiamo dire che il governo attuale è fascista se usiamo questo termine a mo’ di insulto. In questo caso, però, sarebbe meglio definirli pezzi di merda e basta. Non ha senso farlo, invece, se al termine fascista restituiamo tutta la sua densità e complessità storica, necessariamente situata. Attenzione, non perché siano meglio o peggio, non è un problema di scala dell’orrore (così come, lo ripetiamo, a un secolo di distanza dal fuoco dello scontro, si può valutare la complessità contraddittoria di M. dando per scontata l’irriducibile avversità di chi scrive). È un problema politico, cioè di corretta individuazione del nemico per poterlo meglio combattere. E definendoli fascisti, tra l’altro, si finisce per attribuire a questo governo infinitamente più peso, forza, compattezza e blocchi sociali di quanti in realtà abbia. In secondo luogo, l’insegnamento che bisogna trarre è il carattere nefasto della moderazione e della testimonianza vittimistica in un periodo di sconquassamenti sociali e antropologici. Certo, la grande crisi attuale non è la grande guerra di un secolo fa, però indubbiamente ha prodotto una polarizzazione dei vissuti, degli atteggiamenti, delle passioni. Pensare di rispondere a questa situazione sulla difensiva, facendo appello all’umanitarismo e alla smobilitazione degli animi, significa disarmarsi e consegnare al nemico la possibilità di dare una direzione a quello sconquassamento.

Tante, troppe volte si constata come sono andati i fatti e si spiega perché non potevano che andare così. Il reale diventa inevitabilmente razionale. Per noi, invece, il reale è solo una delle possibilità che c’erano, quella che ha prevalso. Bisogna allora capire perché ha prevalso nel passato, per pensare a come nel presente si possano immaginare delle possibilità differenti. Altrimenti i vinti vengono imprigionati definitivamente nella storia scritta dai vincitori. E gli uni continueranno a essere sconfitti, e gli altri continueranno a vincere.