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Cercavo un mare calmo ma ho trovato te

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Anticipiamo uno stralcio delle “Nove buone ragioni per ricominciare da zero” pubblicate su Kritik. Prontuario di sopravvivenza all’agonia del capitale (DeriveApprodi, in libreria dal 12 aprile 2019)

1. Il Movimento non c’è più. Tranquilli, non agitatevi: non ci riferiamo ai movimenti sociali, questi anche negli ultimi anni sono talora emersi, in modo frammentario, sporadico, senza costituire ciclo, con linguaggi, pratiche e rivendicazioni ambigue e contraddittorie. Ma è e forse sempre più sarà così, i movimenti dentro la crisi permanente sono creature mostruose e bastarde. Noi – se questo pronome ha ancora senso, laddove il Movimento non c’è più – queste creature le comprendiamo ben poco, perché non rispondono ai nostri desideri, ai nostri codici, alle nostre retoriche. Anzi, spesso le rifiutiamo, le bolliamo come reazionarie, congratulandoci con noi stessi quando la profezia si autoavvera. Raramente invece proviamo a farci spiazzare produttivamente: è indubbiamente più facile denunciare la bruttezza del mostro per assolverci delle nostre insufficienza, invece che interrogarci concretamente sulle nostre insufficienze per collocarci progettualmente dentro le viscere dell’inquietante creatura.

Allora, il Movimento di cui parliamo e che non c’è più è quello dell’anomalia italiana degli anni ’60 e ’70, dell’intreccio tra organizzazione autonoma e autonomia di classe, tra progetto e lotta, tra gruppi e processi di conflitto. Era davvero, in quella specifica congiuntura, il movimento che abolisce lo stato di cose presente. È quell’anomalia, in senso forte, che ci permetteva negli anni ’80 e ’90 di definirci «militanti di movimento» senza dover dare ulteriori spiegazioni. Ciò non avveniva in altre parti del mondo, dove per movimento si intende semplicemente una mobilitazione che inizia e che finisce, attorno a una rivendicazione circoscritta, e dove il termine duro di militante è sostituito dalla figura liquida dell’attivista. Ora, e non solo da oggi, è chiaro a tutti che quell’anomalia sopravvive solo come identità ideologica, o se vogliamo come gloriosa genealogia. Tuttavia, siccome con l’identità, l’ideologia o la mera genealogia non si fanno le rivoluzioni, è necessario andare avanti. Non per amore del nuovo, parola in sé vuota e priva di senso; ma per l’inutilità della nostalgia, cioè di vestire i panni del morto per non elaborare il lutto.

Dopo la fine del Movimento, c’è solo diluvio, solitudine e disperazione? No, per nulla. C’è l’esigenza di ricominciare. Perché in fondo i militanti rivoluzionari ricominciano sempre. E quando smettono di ricominciare, smettono di essere militanti rivoluzionari.

[…]

4. Il futuro è morto. Sentiamo già il ronzare del rumore di sottofondo: eccoli lì, quelli che blandiscono l’estremismo nichilista. Rilassatevi e provate a ragionare, se ne siete capaci. Il nichilismo, soprattutto nella composizione giovanile, è un dato di fatto. È un problema? Certo, è un problema. Ma questo problema è nelle cose, non nelle parole che descrivono le cose. È il nichilismo prodotto dal capitale e dalla crisi. È il nichilismo della finanza e dei lupi di Wall Street come modello di vita. È il nichilismo delle aspettative non più decrescenti, ma ormai decresciute. Compagni e compagne, se fare davvero inchiesta e non ideologia vi costa troppa fatica, almeno mentre andate al centro sociale o all’università sintonizzate l’autoradio sulle hit dell’estate. «Soltanto per stasera - amore e capoeira», «un domani non ci sarà - un po’ come le storie su istantgram», «questa sera non ti dico no», e via di questo passo. Attenzione, non è la gioiosa conquista del presente del proletariato giovanile, dietro a cui tramontava l’etica sacrificale del partito comunista. E non è nemmeno il no future dei punk, in un misto di rabbia e rifiuto, di disperazione e autoesclusione da una società che andava in una direzione opposta. Questo presentismo è tutto interno alla crisi permanente e alla radicale asimmetria dei suoi rapporti di forza, è la rassegnata consapevolezza che aspettative non ce ne sono e si tratta semplicemente di godersi quel poco che si ha. È un nichilismo passivo, non attivo.

Il problema non è condannare chi brucia tutto. I sinistri fanno così, perché temono che qualcuno prima o poi darà fuoco anche a loro. Il problema è come dalle ceneri organizziamo prospettiva, che è tutt’altra cosa dal futuro, perché affonda le proprie radici nella materialità del presente, di quello che siamo e contro cui cerchiamo di essere. Come assumiamo il fallimento delle prospettive offerte dal capitale in modo attivo e non passivo, cioè come occasione per costruire aspettative interamente autonome. Come assumiamo che la rottura è un processo e non un evento, un volere tutto e non accontentarsi dei margini, autonomia collettiva e non comunità interstiziali.

[…]

6. Non siamo noi a essere estremisti, è la realtà a essere estrema. L’idea tipicamente democratica e di sinistra per cui alla moderazione dei toni corrisponde un allargamento del consenso, è sempre stata politicamente deleteria. È infatti basata su una concezione quantitativa della politica, per cui si guarda ai numeri e non alla potenzialità soggettiva. Tale concezione può essere utile per chi deve prendere voti, è catastrofica per chi le istituzioni rappresentative le vuole distruggere. Oppure è utile per chi vuole riprodurre la propria istituzione, per quanto sfigata e marginale: e ritorniamo alla soddisfazione per i due compagni aggregati. Conflitto e consenso, dicevano una ventina di anni fa quelli che corteggiavano la società civile (brrrr!), che significava: far finta di fare il conflitto al fine di ottenere consenso per se stessi.

Tuttavia, oggi quell’idea è pure falsa, perché la crisi produce una polarizzazione sociale a cui corrisponde una polarizzazione dei comportamenti, delle passioni, delle possibilità. È sempre accaduto così, ci sono fasi in cui lo spazio di contenimento tra rivoluzione e reazione si asciuga; e tra possibilità di mobilitazione in un senso o nel senso opposto il confine è labile e reversibile. Questa reversibilità non dura in eterno: quando si stabilizza, il confine cessa di essere labile. Fino ad allora, vale quello che dice il poeta: dove massimo è il pericolo, là cresce anche ciò che salva. Oggi è il conflitto a contenere in sé il consenso. I reazionari lo hanno capito, «noi» no.

Quando oggi sentite qualcuno che fa appello al frontismo democratico, sappiate che è un nemico. Perché ci è nemico il frontismo, che vuol dire portare acqua al mulino di chi vuole conservare lo status quo. E, soprattutto, ci è nemica la democrazia, straordinario dispositivo di depoliticizzazione e svuotamento della soggettività. La democrazia non nega la possibilità del conflitto, ma lo anestetizza e risolve nei confini del consenso, cioè delle proprie forme di autoriproduzione. Il poeta oggi direbbe: dove la democrazia viene messa in discussione, là cresce anche ciò che salva. Aggiungiamo: dove c’è la sinistra e la democrazia, spariamo senza pietà. Senza lacrime per le rose.

[…]

8. Allora, cari compagni e care compagne abbarbicati alle grottesche certezze della vostra vuota identità, le nostre strade inesorabilmente si separano. Senza polemica, senza astio, senza rancore. Non siete nostri nemici né nostri avversari. Semplicemente, siete inutili. Non proviamo alcuna rabbia nei vostri confronti. Proviamo qualcosa che forse è molto peggio: tristezza e pena. Se abbiamo tempo vi diciamo velocemente addio. Se decidete di sopravvivere, riproducendo quello che siete, non ci incontreremo più. Se decidete di morire per rinascere, sapete dove trovarci: dentro e contro una realtà che basta guardarla per provare odio e voglia di distruggerla.

9. Noi non siamo eterni: dobbiamo morire per conquistare l’immortalità. Dobbiamo metterci in crisi continuamente per divenire quello che siamo sempre stati. È noto che una delle più belle ancorché inconsapevoli definizioni del militante rivoluzionario l’ha data San Paolo: siamo uomini e donne in questo mondo, non di questo mondo. Oggi molti di quelli che ci stanno attorno e a cui abbiamo detto addio hanno scelto di essere il contrario: uomini e donne di questo mondo, non in – e dunque contro – questo mondo. L’individuo è solo, abbiamo detto; ed è sola l’organizzazione ripiegata sull’amministrazione del proprio esistente, abbiamo aggiunto. La consapevolezza delle nostre sconfitte è ciò che ci permette di dare, di nuovo e sempre, l’assalto al cielo. Dietro le vostre retoriche autocompiaciute e trionfalistiche noi vediamo l’accettazione della sconfitta peggiore: la solitudine di chi a quell’assalto ha definitivamente rinunciato. Lo mettete nei vostri siti e lo stampate sulle vostre felpe perché non sta più nella vostra testa e nel vostro agire.

E allora, la solitudine può essere sconfitta solo nella conricerca militante dentro la composizione di classe, cioè dentro il caos, le contraddizioni e le ambiguità che la animano e la frammentano. Dentro e contro. Alimentare di spontaneità l’organizzazione e condurre l’organizzazione dentro la spontaneità. L’autonomia è sempre stata questo: è l’organizzazione che riflette sulla propria spontaneità, è la spontaneità che riflette sulla propria organizzazione. È una scommessa che va alla radice, mettendo in gioco quel (poco) che abbiamo, per poter conquistare quel (tanto) che desideriamo.

Se cercate un mare calmo in cui godervi un’identità ideologica, state alla larga da queste onde. Noi ricerchiamo la tempesta. È inutile scaricare sulla soggettività esistente le nostre insufficienze. Voi che vedete buio pesto ovunque, chiedetevi se non sono le vostre lenti a essere oscurate o a guardare nella direzione sbagliata. Allora, non l’hai ancora capito? Nessuno dorme - c’è il sole anche di notte - l’ho detto mille volte - che tutto può succedere. Siamo pronti per qualcosa di più che una notte speciale?