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Quando l’operaio sociale si è fatto carne

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Gigi Roggero recensisce L’Autonomia operaia vicentina di Donato Tagliapietra

Thiene è un paese del vicentino, a una decina di chilometri da Schio, la piccola Manchester veneta. Negli anni Settanta ha una fiorente attività commerciale, rinomati mobilifici e un settore industriale specializzato. Il territorio non è dominato dalle grandi fabbriche, come nella vicina Schio; è invece un esempio della fabbrica diffusa, dentro cui si forma una nuova composizione di classe: giovane, combattiva, pronta a tutto per non farsi incatenare dal lavoro salariato. È un pomeriggio di primavera a Thiene, quando una terribile esplosione squarcia la vita di tre giovani compagni: Angelo, Alberto, Maria Antonietta, a cui si aggiungerà un paio di mesi dopo Lorenzo, suicidato in carcere dalla vendetta dello Stato, simboleggiata dal 7 aprile e dal volto pcista di Calogero. 

“Esiste un prima e un dopo l’11 aprile 1979”, ci dice Donato Tagliapietra nel suo libro L’Autonomia operaia vicentina. Dalla rivolta di Valdagno alla repressione di Thiene (fresco di stampa per DeriveApprodi, quinto volume dedicato dalla casa editrice a Gli autonomi). Non vi è mai in queste pagine, anche in quelle che più direttamente toccano i nervi scoperti dell’esperienza soggettiva, alcuno spazio per il vittimismo, o per il culto romantico dei martiri. Nel libro di Donato infatti, come viene sottolineato dalla bella introduzione di Elisabetta Michielin, si dichiara giustamente guerra al narcisismo che spesso, troppo spesso inficia le narrazioni dei protagonisti di quella straordinaria fase di lotta, sfociando in una stucchevole memorialistica rivolta al passato. In questo volume, come sempre dovrebbe fare un militante, l’energia è concentrata nel fornire armi di riflessione politica per il presente. Quella che si analizza nel libro é una storia interamente collettiva, a cui hanno preso parte Donato, Angelo, Alberto, Maria Antonietta, Lorenzo e diverse decine di migliaia di compagni e compagne in Veneto e in tutta Italia. Anche quando si raccontano esperienze personali, si respira sempre l’appartenenza a un processo collettivo, di massa e di organizzazione. L’individuo sparisce, o meglio ancora diviene propriamente sociale e politico nella misura in cui rompe con se stesso, cioè con la collocazione e il ruolo a cui è stato consegnato dal sistema dominante.

La storia collettiva analizzata da Donato è quella dei Collettivi politici veneti e, al suo interno ma con la sua specificità, della realtà territoriale vicentina, in particolare in quella porzione di fabbrica diffusa che sta appunto tra Valdagno, Schio, Chiuppano, Marano e Thiene. No, non si tratta affatto delle picaresche avventure di giovani ribelli, bensì di un importante laboratorio politico di sperimentazione delle pratiche di lotta e organizzazione dell’operaio sociale. Questa figura si incarna sotto gli occhi del lettore nella materialità dei comportamenti e delle forme di contrapposizione, nella fuga dalla fabbrica e in esperienze di vita che – dalla musica ai viaggi alla socialità quotidiana – non sono mai consumate individualmente, ma fanno parte dei percorsi di una minoranza massificata, cioè forte e non minoritaria. Scrive dunque Donato: “Lo stile della militanza viene modificandosi alla luce dei nuovi soggetti in campo e del loro conflitto con i nuovi dispositivi produttivi. Il passaggio avviene su un corpo sociale di giovanissimi, compresi in una fascia di età dai 17-18 ai 24-25 anni, fortemente scolarizzata, destinata alla produzione di merci e servizi, ma che rivelerà una fortissima tensione a costruire un quotidiano condiviso odiando la costrizione al lavoro comandato”. Ecco allora che, andando avanti nella lettura, ci viene descritto cos’è e come si forma un militante, cioè una forma di vita che sceglie di rompere con il proprio destino: “Quello che storicamente è lo scalino più carico di tensioni nella vita di una persona – la messa in produzione dentro il lavoro vivo – viene saltato; per la prima volta, anziché subirlo, una generazione si organizza, anche in armi, per sottrarvisi sabotandolo. Decidendo che la liberazione dal lavoro o è per tutti o non può essere per nessuno. È fuori discussione che non avremmo seguito la sorte dei nostri padri, costretti alle otto ore dalla violentissima rigidità di quella che pomposamente è chiamata la ricostruzione post-bellica. E questo come ‘ringraziamento’ per aver saputo sconfiggere fascismo e nazismo. Per noi hanno già dato i nostri genitori!”. Il rifiuto del lavoro, comportamento e pratica di massa, diventa forma della militanza.

Questa nuova composizione soggettiva porta infatti con sé, insieme a bisogni e desideri specifici, nuove domande di pratica e organizzazione. È presto evidente che gli schemi precedenti non funzionano più. Non solo quelli più direttamente legati alla centralità della fabbrica e dell’operaio massa, ormai in fase di declino politico (inutile sottolineare che il Pci, dopo averlo ostracizzato nel picco della sua potenzialità, quando ormai è politicamente sconfitto fa di questa figura una vuota icona da usare contro i movimenti autonomi). Sono logori anche gli schemi di piazza, non fanno più male al nemico, finiscono solo per regalare alla controparte compagni che vengono arrestati e, ancora più, il vantaggio della prevedibilità. Da questa consapevolezza nasce la pratica del controllo territoriale, per rompere il rituale delle scadenze programmate e dettare autonomamente tempi, luoghi e modalità dell’uso della forza. Il battesimo del fuoco è il 9 giugno 1976: circa duecento compagni armati di Padova e del Veneto occupano un quartiere della città, l’Arcella, mentre una ronda pratica gli obiettivi (dall’esproprio dei supermercati all’incendio delle sedi dei fascisti).

È dentro questo passaggio, dall’operaio massa all’operaio sociale, da un progetto organizzativo centrato sulla fabbrica a uno fondato sulla fabbrica diffusa, che si colloca la nascita dei Collettivi politici veneti: “La proposta viene fatta propria da tutte le realtà partecipanti: Rovigo, Vicenza Pordenone e Mestre/Venezia. E viene fatta mantenendo, anzi valorizzando ancor più, la propria specificità territoriale, visto che la proposta organizzativa prevede una piena autonomia delle singole provincie. Nella pratica assomiglia molto a un patto federativo. Non ci chiamiamo Collettivi politici comunisti, oppure rivoluzionari o proletari. No, ci chiamiamo Collettivi politici veneti (Cpv). È un esempio unico nel panorama nazionale”.

La storia dei Cpv è qui percorsa per la prima volta, dall’angolo prospettico dello sviluppo dell’Autonomia vicentina. Il ritmo incalzante della narrazione scandisce il ritmo incalzante della costruzione di una forza collettiva, in cui hanno un peso decisivo le ronde. Ronde contro gli straordinari, ma sarebbe più corretto definirle ronde contro il lavoro sans phrase. Per dirla con Donato, infatti, “già il lavoro ordinario è insopportabile, figuriamoci come dev’essere quello straordinario”. In questa storia il Settantasette è ovviamente un passaggio significativo, ma solo se collocato in un processo che affonda le proprie radici nel prima e va ben oltre. Anzi, in questi territori non è l’apice del conflitto. La continuità del processo organizzativo è più significativa della precipitazione nell’evento.

Fanno parte di questo processo diversi soggetti, che disegnano complessivamente la figura dell’operaio sociale – che, come abbiamo più volte sottolineato, non va mai ridotta a una mera collocazione occupazionale o sociologica, ma indica la possibilità di una tendenza ricompositiva. Operai, studenti, disoccupati e quelli che poi si sarebbero chiamati precari. Un paragrafo del libro è dedicato alla lotta per la casa. Leggendolo, ne possiamo trarre preziose indicazioni anche per il presente. Quella lotta, infatti, produce soggettività militante e contropotere territoriale. La sua trasfigurazione contemporanea in una logica assistenzialista e di erogazione di servizi, peraltro poveri e sfigati, non dipende solo dall’avvenuto ribaltamento dei rapporti di forza a favore del nostro nemico: descrive il ribaltamento del militante in attivista, della ricerca del conflitto nella ricerca del consenso, del contropotere in rinuncia all’esercizio del potere.

Quando si parla di una molteplicità di soggetti sociali bisogna precisare. Oggi si pensa che il problema sia semplicemente sommare una pluralità di settori e identità, è questa in soldoni la cosiddetta intersezionalità che dalle accademie americane ha pervaso le accademie di “movimento”. L’autonomia, al contrario, non è mai la somma algebrica delle autonomie, perché ricomposizione significa assumere fino in fondo le contraddizioni e i conflitti interni alla classe, ovvero porsi il problema non di accettare i soggetti così come sono dati nella gerarchia capitalistica, ma processualmente di trasformarli, rovesciarli, sovvertirli. Costruire un soggetto che ancora non c’è, e che non può che essere contro quello che attualmente siamo. Donato lo spiega in modo preciso: “Non ci è mai interessato seguire le mille autonomie, donne, studenti, ecc. come non ci interessa organizzare un settore dopo l’altro, crediamo che l’unica possibilità di far vivere il comunismo nella quotidianità sia la forza ricompositiva del programma che solo può unificare i mille strati sociali su bisogni e pratiche comuni”. Conseguentemente, può concludere sostenendo che “l’Autonomia non è mai stata uno spazio organizzativo rigido e chiuso, ma piuttosto un metodo che permette di attraversare con il conflitto di classe le contraddizioni che lo sviluppo del capitale porta con sé quotidianamente”.

La robusta appendice finale del libro è preziosa, perché consente il confronto diretto con testi, documenti e volantini prodotti nella straordinaria esperienza che il libro analizza. Qui, come nel resto del volume, possiamo trovare la differenza fondamentale rispetto alle ricostruzioni degli anni Settanta fatte dai militanti delle formazioni combattenti, in cui la soggettività operaia e proletaria tende a sparire, o a diventare un feticcio ideologico i cui fili sono tirati dall’eroismo di avanguardie separate. Attenzione, il punto non è affatto la questione delle armi o dell’uso della forza (Donato ricorda che “tra il ’76 e l’80 si registrano in Veneto più di cinquecento atti di ‘uso ragionato della forza’”). Il punto è che, in un completo rovesciamento delle pratiche di Marx e Lenin, nel marxismo-leninismo delle organizzazioni clandestine la lotta armata diventa la strategia. Per gli autonomi al contrario l’uso della forza, declinata sul piano dell’illegalità di massa, è sempre uno strumento per la costruzione e l’esercizio del contropotere. L’operaismo si incarna qui nei comportamenti dell’operaio sociale: al partito la tattica, alla classe la strategia. L’autonomia è davvero, in queste pagine e in questa storia, l’organizzazione che riflette sulla propria spontaneità, e la spontaneità che riflette sulla propria organizzazione.

Va detto infine che quell’esperienza non è stata priva di limiti, senza i quali non riusciremmo a comprendere quella che possiamo chiamare – con due avvertenze – una sconfitta. Prima avvertenza: è stucchevole pensare che i progetti politici siano sconfitti semplicemente dalla repressione, come purtroppo si indugia a fare nelle ricostruzioni di autogiustificazione politica. Seconda avvertenza: sconfitta significa sempre, per i militanti e per chi – come Donato – non ha confinato la militanza a una fase giovanile della propria vita, fare tesoro dei limiti nelle singole battaglie per reimpostarci dentro la guerra. La sconfitta è un’eredità importante quanto quella costituita dalle ricchezze, dagli avanzamenti, dalle parziali vittorie. Per poter affermare con Donato, senza le fantasticherie dell’utopista e con la tranquilla intransigenza del militante: “Vinceremo”.