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Chi lavora è perduto

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Contributo di Gigi Roggero sul Tinto Brass degli anni '60 (da Il treno contro la Storia)

Bonifacio ha 27 anni, è diplomato e ha trovato un buon posto, come disegnatore in una grande impresa. Accettare o rifiutare? Attorno a questo nodo gordiano ruota il formidabile Chi lavora è perduto di Tinto Brass. Fate attenzione alla data: è il 1963. Considerate il luogo: Venezia, nel Veneto percorso dai tumultuosi processi di fabbrichizzazione e industrializzazione. Lavoro o non lavoro?, si chiede allora Bonifacio osservando le tombe al cimitero. La sua scelta dà il titolo al film. 

Bonifacio non è un militante, i suoi comportamenti non sono dettati da obiettivi esplicitamente politici. Sono militanti alcuni dei suoi amici e conoscenti, comunisti ed ex partigiani, che via via muoiono: li vediamo rinchiusi in una cassa di legno, o dentro le mura di un manicomio. Ma non è il destino peggiore: gli altri, quelli vivi intorno a lui, muoiono nell’accettazione del lavoro, contenti di essere ingranaggi di una società fatta di conformismo e carriere, di preti e psicanalisti, che si trova davanti dappertutto, quando fa il colloquio per l’assunzione, quando accompagna la sua compagna nella Svizzera dei diritti civili per abortire. E in piazza San Marco osserva la povertà soggettiva travestita da felicità di massa: «È permesso solo quello che è scritto sulle guide: fotografare e farsi fotografare, ammirare e farsi ammirare. Fare tutti quello che tutti fanno. Ecco la grande regola democratica». Del resto, pensa, l’hanno scritto anche davanti al cancello di Auschwitz che il lavoro rende liberi. 

Non siamo di fronte a una rituale critica marxista all’alienazione. Il protagonista non è portatore di un’ideologia, come quella propagata dal suo amico Claudio del Partito Comunista, che gli consiglia di accettare il posto, di diventare un onesto lavoratore per lottare contro le ingiustizie del mondo. Il Bonifacio di Brass anticipa invece il rifiuto del lavoro: non solo quello «manuale», ma anche quello «intellettuale». Anticipa una rottura generazionale che diventa rottura collettiva, politica, di classe. Prefigura i comportamenti dell’operaio sociale, quella figura che ha per alcuni anni incarnato una nuova operaietà e che resta l’enigma irrisolto da cui ricominciare. E, seguendo Bonifacio, ricominciamo dalla risposta che dà all’interrogativo che lo perseguita: no, mondo boia.