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Disoccupazione e precarietà viste da Sud

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Articolo di Giovanni Pagano sul movimento dei disoccupati a Napoli e sulla questione del reddito

Premessa

Quando si parla di Mezzogiorno e disoccupazione si scoperchia il vaso di Pandora, le regioni dell'Italia meridionale sono tristemente note per i tassi di disoccupazione tra i più alti in Europa. Questo però non basta a comprendere il contesto nel quale si muovono alcuni storci movimenti di lotta attorno al tema della disoccupazione e della povertà.

I movimenti di lotta per il lavoro o semplicemente “disoccupati organizzati”, come vengono definiti a queste latitudini, hanno una lunga tradizione nella città di Napoli. Per quanto il problema non sia ascrivibile al solo capoluogo partenopeo, in poche altre città del sud sono nati negli anni movimenti che dal basso rivendicavano l'accesso al mondo del lavoro per i disoccupati e gli inoccupati; esempi simili si possono trovare nella tradizione popolare della città di Palermo e in altri piccoli centri meridionali, ma niente che possa essere paragonato alla tradizione napoletana.

Negli anni '70 e '80 si è avuto il picco più alto nella storia di questi movimenti, l'unione tra i settori del sottoproletariato urbano e il supporto di alcuni militanti storici della sinistra rivoluzionaria di quegli anni, favorirono un mix a dir poco esplosivo dal punto di vista del conflitto sociale.

Sono gli anni in cui si sono poste le basi per quella che sarebbe diventata una vera e propria tradizione di lotta, trattata dalla politica e dalla stampa mainstream come un elemento folkloristico, descritta spesso a tinte fosche, ma che in realtà poneva in modo radicale il tema della sussistenza di interi quartieri popolari della città di Napoli.

Migliaia di sottoproletari in quegli anni, dopo lotte caratterizzate da una conflittualità altissima, riuscirono ad aprire percorsi assunzionali nelle pubbliche amministrazioni.

La rivendicazione che si portava avanti non era semplicemente quella della collocazione all'interno del mercato del lavoro, aldilà delle narrazioni razziste che esistono in questo paese, dalle nostre parti il lavoro sfruttato, a nero e sottopagato non manca; quello che da anni rivendicavano i disoccupati organizzati era il diritto ad un esistenza degna, ad un lavoro che avesse tutte le garanzie costituzionali e che non fosse massacrante. La sintesi perfetta fu espressa dalla frase scandita in tutti i cortei ormai da 50 anni: "vulimme o posto" - tradotto per i non meridionali, vogliamo il posto fisso, meglio se in lavori che siano connessi ad attività utili per la collettività, oggi come allora promessa di una stabilità reddituale che il mercato del lavoro non è mai riuscita a garantire.

Gli anni 2000

La tradizione di lotta per il lavoro a Napoli non si è mai esaurita, dopo i primi cicli vittoriosi si è passati ad una vera e propria organizzazione capillare di questa composizione sociale. Nei quartieri popolari, con una maggiore composizione sottoproletaria come Scampia, Soccavo, il centro antico, la Sanità, San Giovanni ecc. ecc., sono nati negli anni spazi adibiti a sede dei vari movimenti di lotta, chiamati anche liste a causa degli elenchi dei partecipanti che venivano utilizzati, cosi come ancora oggi, per segnare le presenze dei disoccupati alle scadenze di lotta che man mano il movimento si dava. Il meccanismo della presenza in piazza, anche se può sembrare rigido e poco "naturale" per una persona che non ha familiarità con certi contesti, rappresenta invece uno degli elementi di trasparenza e autorganizzazione più forti.

Si deve pensare che qui al sud si agisce in contesti dove è sempre in agguato la criminalità organizzata o la mentalità familista, l'ipotesi di poter accedere a posti di lavoro pubblici mentre i tassi di disoccupazione crescono esponenzialmente fa gola a troppi, dalla politica alle mafie. Avere un elenco di partecipati basato sulla presenza alla scadenze di lotta, da la possibilità di sapere in maniera certa chi partecipa al movimento perché mosso da esigenze reali ed evitare che, in vista della conclusione della vertenza, possano arrivare pressioni esterne per l'inserimento di chi non ha partecipato alla lotta all'interno delle liste. Un principio molto basilare di meritocrazia, sintetizzato nella frasi spesso sentita nelle curve degli stadi da calcio: "chi milita merita", senza favoritismi o corsie preferenziali.

Fin dagli inizi degli anni '10 di questo secolo, i movimenti di lotta per il lavoro sono riusciti a dare risposte a migliaia di giovani disoccupati napoletani, attraverso l'accesso ad assunzioni pubbliche e corsi di formazione. Questi movimenti non erano solo un modo per organizzare la richiesta legittima di un salario per far campare i disoccupati e le loro famiglie, ma diventavano veri e propri sindacati degli emarginati, che controllavano anche dal basso l'operato delle pubbliche amministrazioni, in materia di lavoro, formazione e servizi.

Con la crisi del 2008 molte cose sono cambiate anche rispetto a questi movimenti, le finanze pubbliche si sono ridotte drasticamente, la possibilità di immaginare percorsi di assunzioni all'interno della PA è praticamente scomparsa, lasciando il posto al mantra del libero mercato : il lavoro lo creano solo i privati.

In questo contesto anche il mondo dei disoccupati organizzati ha subito gli effetti drastici della crisi, non solo perché ormai le risorse pubbliche qui al sud si sono ridotte all'osso ma sopratutto per il cambio di paradigma all'interno del quale è iscritto il tema della disoccupazione nel meridione.

Se negli anni 70-80 esisteva ancora una programmazione economica nazionale, anche se insufficiente e fortemente discriminatoria nei confronti dei meridionali, si teneva conto dell'esistenza del Mezzogiorno, con la riforma del titolo V della Costituzione questa parola (mezzogiorno) scompare, per lasciare il posto al concetto di Regioni svantaggiate. L'ingresso all'interno dell'Unione Europea ha fatto il resto, con l'introduzione del concetto di politica attiva, dei blocchi assunzionali e del pareggio di bilancio sia per gli enti locali, sia direttamente all'intero della Costituzione.

Per i movimenti di lotta è diventato sempre più difficile rivendicare un posto di lavoro o in alternativa un reddito per poter campare, quando di fronte le istituzioni contrappongono la narrazione della fine dell'assistenzialismo e inaugurano l'austerità.

Repressione e dissenso

Nonostante ciò i disoccupati organizzati hanno continuato la loro lotta, resa ancora più complessa dalle inchieste della magistratura che negli anni ha provato a smontare queste organizzazioni nate dal basso. Decine tra i disoccupati e le disoccupate più note sono state colpite da inchieste giudiziarie che provavano a dimostrare la tesi, sempre smentita dagli stessi processi, che voleva i disoccupati organizzati al soldo della malavita, con la finalità di estorcere posti di lavoro alle istituzioni. La procura di Napoli ha provato più volte a criminalizzare questi movimenti, sottintendendo che la rivendicazioni dei diritti sanciti costituzionalmente, attraverso pratiche di lotta, fosse un'azione criminale. Le inchieste, anche se condite da misure restrittive, blitz in stile antimafia, hanno sempre visto cadere l'aggravante dell'associazione criminale, purtroppo però hanno fiaccato questi movimenti, portandoli al minimo storico per quanto riguarda le mobilitazioni e la costruzione di nuove vertenze.

Oggi

In questi ultimi anni nuovi movimenti di disoccupati si sono affacciati nel panorama napoletano, in particolare il Movimento di Lotta 7 novembre, nato nell'area flegrea per poi estendersi in tutta la città. Come in vecchi movimenti di lotta si è dato negli anni una struttura territoriale, aprendo sportelli per i disoccupati in diversi quartieri, ma a differenza dei movimenti passati il M7N piuttosto che attestarsi su una generica rivendicazione di lavoro, ha messo al centro del suo agire non sola lotta, ma anche la ricerca di fondi pubblici che le istituzioni potessero utilizzare per dare una risposta alla disoccupazione e contemporaneamente creare lavoro che avesse una ricaduta sociale per i quartieri dai quali provenivano gli stessi disoccupati.

A 4 anni dalla nascita di questo movimento molto è stato fatto, ma dall'altro lato le istituzioni locali hanno continuato ad ignorare il problema preferendo la classica strada delle clientele rispetto alle risposte immediate ai bisogni reali.
In particolare la Regione Campania, guidata da Vincenzo De Luca, si è dimostrata impermeabile alle istanze che dal basso i disoccupati ponevano. Fortunatamente le battaglie messe in campo dai 7 novembre hanno trovato nella città Metropolitana e nel Comune di Napoli degli interlocutori più accorti, anche se ad oggi la vertenza è tutt'altro che conclusa.

Un'esperienza simile ai 7 novembre è quella degli Apu, che sta per attività di pubblica utilità, in carico al Comune di Napoli. Mentre per i disoccupati organizzati parliamo di soggetti che sono disoccupati di lungo corso ma anche inoccupati, gli Apu invece sono tutti ex lavoratori ormai senza più ammortizzatori sociali. Per queste categorie l'Unione Europea finanziava bandi regionali per far svolgere a questi lavoratori, alcune ore di lavoro presso gli enti locali, in cambi di un assegno di 580 euro mensili per un massimo di 6 mesi finiti i quali si tornava precari e disoccupati come prima. Al termine di questi progetti, gli APU dei vari comuni della Campania, hanno deciso di mettere in campo un movimento di lotta non dissimile da quello dei classici disoccupati organizzati, rivendicando assunzioni nella pubblica amministrazione e la sospensione delle forme di precariato presso gli enti locali.

Per capire meglio la situazione che viviamo nella regione Campania, basta guardare ai fondi FSE 2014-2020 la voce sulla coesione e lo sviluppo delle aree svantaggiate ammontava a 300 milioni di euro, di questi soldi 200 milioni sono stati spesi dal 2014 al 2018 in politiche attive a cui hanno partecipato migliaia di lavoratori campani ma che si sono tramutate in regali per le aziende che prendevano in carico questi lavoratori. La Regione non pubblica i dati sui posti di lavoro creati, da fonte Cgil (tutt'altro che nemica a De Luca) sappiamo che ad esempio per il progetto Ricollocami, che prevedeva dei tirocini in azienda, dei 4000 partecipati solo 60 sono diventati contratti a tempo indeterminato!

Nel 2018-2020 restavano 100 milioni di euro, da destinare ai disoccupati e agli ex-percettori di ammortizzatori sociali, De Luca ha ben pensato di metterli tutti a finanziare un mega corso-concorso per 18 mesi di formazione presso gli enti locali campani per 10.000 persone altamente formate. Ovviamente con la speranza di essere assunti migliaia di disoccupati o giovani neolaureati parteciperanno in massa, anche se nel bando pubblicato dalla Regione non si parla di nessun obbligo assunzionale da parte degli enti che prenderanno in carico i lavoratori, insomma una bella truffa e milioni di euro sottratti a chi invece ne avrebbe bisogno!

Da questi esempi si evince che la realtà del mondo della disoccupazione meridionale è quanto mai complessa, questi fenomeni di autorganizzazione difficilmente potranno trovare una riproducibilità fuori dal contesto sociale e territoriale in cui nascono. Basti pensare che nella sola città di Napoli negli ultimi 10 anni si sono persi 80.000 posti di lavoro, più di un milione in tutta la Campania, i livelli di crescita alle nostre latitudini si sono dimezzati dopo la crisi del 2008 mentre nel nord del paese sono tornati i livelli di crescita pre 2007.

E' vero che queste forme di organizzazione del sottoproletariato urbano nascono in un contesto di forte impoverimento e scarsità dell'offerta lavorativa, ma va detto che senza il supporto di alcuni attivisti sociali e sindacali, sarebbe impossibile assistere ad un fenomeno di autorganizzazione totalmente spontaneo come fu negli anni 70-80. L'aumentare delle condizioni di marginalità, gli esempi storici di lotta per il lavoro e l'aggiunta del supporto degli attivisti sociali, ha permesso in questi anni la tenuta di questi movimenti, anche se è chiaro che l'intensità non è paragonabile ai cicli di lotta degli anni 70-80-90.

Oggi ci troviamo di fronte a numeri esigui di disoccupati che scendono in piazza, 100-200, contro le 2000 unità che si potevano vedere attivi 15-20 anni fa, numeri che ovviamente fanno la differenza anche nelle ipotesi di successo che questi movimenti possono mettere in campo. 

Sulla flessione dei numeri rispetto alle liste storiche di disoccupati hanno inciso diversi fattori, sicuramente il cambiamento del contesto legislativo ed economico ma non solo, ci sono anche diversi aspetti culturali. Ad esempio le campagne mediatiche contro questi movimenti, accusati di essere composti da un sottoproletariato urbano contiguo alla camorra e che aveva come obiettivo l'assistenzialismo al posto della disciplina del lavoro (sigh! cose se fosse un male). A questo va aggiunto che le nuove generazioni sono poco inclini a intraprendere la strada dell'autorganizzazione per la ricerca di un posto di lavoro, gli effetti del neoliberismo hanno prodotto un sentire comune per il quale la disoccupazione è un'onta da cui stare lontani, se sei disoccupato e non hai forme di reddito ti devi vergognare perché sei tu l'unico responsabile del tuo “fallimento”, insomma non fa tendenza lottare insieme ad altri poveri, per rivendicare un diritto negato.

Altro fattore determinante è sicuramente l'emigrazione di massa, dalla Campania solo negli ultimi 10 anni sono partite circa 650 mila persone verso le regioni del nord, una parte sempre più consistente della forza lavoro qualificata e scolarizzata, che potrebbe fare la differenza in alcune lotte proprio come negli anni '70.

Ci troviamo spesso di fronte a movimenti composti da un sottoproletariato che presenta una media d'età alta (45-50 anni), con una bassa scolarizzazione (licenza media), che ha sempre vissuto ai margini della legalità, che non è riuscito ad emigrare per trovare una vita più dignitosa all'estero. E' chiaro che questo non può essere il soggetto ricompositivo nel mondo del lavoro meridionale, rimane un settore troppo peculiare per costruire modelli organizzativi riproducibili ovunque, ma nella nostra città è un elemento essenziale invece per costruire ponti e alleanze tra diversi settori sociali specialmente nei quartieri popolari. Ogni sede di disoccupati è un presidio di democrazia e autorganizzazione nel quartiere dove insiste, da questi sportelli passano le più svariate esigenze che si portano dietro le composizioni più povere della nostra città, dalla casa al reddito fino alla cura dello spazio urbano e ai servizi.

Più volte i movimenti dei disoccupati sono stati al fianco degli studenti, degli immigrati e dei lavoratori, la loro storia ha sedimentato in quartieri dove il livello di scolarizzazione è molto basso, dei saperi in grado di far sviluppare una coscienza sociale alternativa a quella del modello dominante, basata sul mutualismo e sulla solidarietà contro l'individualismo più totale verso il quale questa società ci spinge continuamente.

E' chiaro che questa composizione si porta dietro tutte le contraddizioni del sottoproletariato urbano di una delle più grandi città del mediterraneo, non ne voglio certamente costruire l'apologia ma spesso nella nostra città, complessa e dove i rapporti sociali tendono all'imbarbarimento a causa delle condizioni materiali di vita, l'agibilità degli attivisti e delle lotte sociali è stata garantita dalla presenza di compagni e compagne che venivano dal mondo dei disoccupati organizzati e che sono diventati veri e propri punti di riferimento per gli emarginati della nostra città.

Reddito di cittadinanza: un pacco o un’opportunità?

In questo complesso contesto arriva la proposta da parte del governo Lega-M5s del reddito di cittadinanza. Non credo sia utile dilungarsi sui limiti di questa misura dal punto di vista teorico, del come sia distante anni luce dal reddito universale che da oltre un ventennio i movimenti sociali di tutta Europa rivendicano. Va però analizzato in quanto fenomeno completamente nuovo all'interno del mondo degli ammortizzatori sociali e del sostegno al reddito per le classi più disagiate della nostra società.

Va fatta una doverosa premessa, una cosa è lo sguardo che si può avere da sud nei confronti di questa misura, altra cosa è la percezione della stessa misura nelle regioni settentrionali; anche se i dati sulle domande di queste prime settimane racconterebbero un paese molto più equilibrato da questo punto di vista, rispetto alle solite analisi antimeridionali lette sulla stampa nazionale.

Abbiamo letto tutti le infelici, per essere gentile, dichiarazioni di Tito Boeri, Confindustria e i alcuni tra i maggiori partiti del paese, sul pericolo che al sud le persone scelgano il reddito piuttosto che lavorare per salari da fame. Nessuno però è riuscito a spiegare perché in un paese dove è scritto nella carta costituzionale che lo Stato è tenuto a rimuovere gli ostacoli sociali ed economici tra i cittadini, si permetta che esistano livelli salariali differenziali tra nord e sud.

La realtà è che quello che i movimenti dei disoccupati in anni hanno gridato nelle piazze oggi balza agli occhi di tutti, i meridionali vengono trattati da cittadini di serie b e questa fa parte della sostenibilità del sistema Italia.

E' chiaro che in questo contesto l'arrivo di 8 miliardi di euro per le fasce più deboli della nostra società è un'opportunità che può dare sollievo a milioni di persone, quando si valuta una misura a mio avviso va contestualizzata nell'ambiente in cui va ad operare. Se la maggior parte dei salari al sud è al di sotto i 780 euro mensili, se il reddito medio procapite annuo è di 18.000 euro mentre al nord supera i 36.000, se i giovani da queste parti emigrano in migliaia proprio per andarsi a prendere quel workfare che si sta per introdurre in Italia, se sotto i 30 anni la paga media mensile di molti lavori a nero è al di sotto dei 600 euro mensile, è evidente che una misura che garantisce per tutti e tutte un livello minimo sotto il quale non è dignitoso vivere verrà percepita dai settori più poveri come positiva. Soprattutto se le precedenti modifiche del mercato del lavoro non hanno fatto altro che precarizzare e impoverire le fasce più deboli.

Per i movimenti di lotta della città di Napoli, e non solo, l'introduzione del reddito potrebbe essere un'opportunità da cogliere, anche se il dibattito a sinistra si è troppo caratterizzato attorno alla retorica lavorista invece di provare a insistere sulla contraddizione che questa misura apre.

Oggi milioni di precari, disoccupati e inoccupati si recheranno ai centri per l'impiego e ai caf per chiedere l'erogazione del RdC, i nuovi movimenti di lotta per il lavoro dovrebbero fare in modo che questa misura arrivi a più persone possibile. Se oggi ci sono soldi per i più poveri, che siano in tanti a percepirli e se non dovessero bastare che lo Stato trovi la soluzione per metterne di più!

Bisognerebbe organizzare sportelli territoriali che diano informazioni e consigli su come rientrare all'interno dei beneficiari, togliendo dalle grinfie dei politicanti di turno questa fetta di popolazione che a volte non sa neanche di trovarsi di fronte ad un diritto che gli deve essere riconosciuto in quanto cittadino/a.

Ovviamente monitorare le domande potrebbe dare l'opportunità di aprire delle vertenze sui potenziali idonei che per motivi diversi non possono percepire il RdC, ad esempio i percettori di Naspi, mobilità o cassaintegrazione nelle annualità 2016-2017, chi ha patrimoni mobiliari di poco al di sopra della somma stabilità dalla legge, ma che comunque vive in condizioni di forte povertà, o i giovani working poor che nell'impossibilità di permettersi un fitto sono ancora residenti con i propri genitori.

Per anni in questo paese si è parlato di precariato, nuove forme dello sfruttamento e nuove povertà senza mai riuscire ad organizzare questa composizione troppo frammentata al suo interno, l'introduzione del reddito insieme all'assunzione a tempo determinato di 6000 navigator, precari anche questi ultimi, potrebbe rappresentare l'opportunità di averli tutti in un unico luogo o quanto meno avere la possibilità che si percepiscano come facenti parte di una sola platea.

Se i movimenti per i disoccupati della nostra città riusciranno a fungere da sindacato dei potenziali percettori di RdC, mettendo a disposizione l'insieme dei saperi che vengono dalle lotte, sarà interessante vedere nei prossimi anni come si applicheranno le famose norme anti-divano, un vero e proprio atto di sudditanza del Movimento 5 Stelle nei confronti delle infame retoriche anti meridionali leghiste, senza che si scateni la rivola nei centri per l'impiego.

Agli attivisti, ai sindacalisti e ai movimenti sociali sta il compito di accettare la sfida e allargare quanto più possibile il conflitto che potrebbe generarsi nei prossimi anni, portando a casa risultati concreti per chi non si è mai visto riconoscere un singolo diritto negli ultimi 30 anni.