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Battere il ferro finché è caldo

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Intervista di Commonware a un partecipante alla lotta dei pastori sardi

Ci puoi dire in cosa consiste il vostro lavoro e quali costi dovete sostenere? Come è organizzata la catena di produzione e che ruolo hanno gli industriali? Per quale motivo, quindi, avete iniziato la protesta?

Io affianco la protesta dei pastori per solidarietà, perché ho la fortuna di poter lavorare il latte. Dal 2016, infatti, ho ereditato l’azienda di famiglia e mi sono accorto che l’industriale aveva un potere enorme sul frutto del mio lavoro, per questo ho deciso di non cedere ai suoi ricatti e lavorare direttamente la materia prima. Con molti sacrifici abbiamo creato un caseificio in cui lavoriamo a mano i prodotti e facciamo la vendita diretta a km 0. Gli altri colleghi mungono e successivamente portano il latte ad un centro di raccolta, dove l’industriale della mia zona - non è il caso di Pinna, che è molto lontano da noi, si tratta di un industriale più piccolo che ha la sede in un paese vicino – lo ritira. Funziona così: all’inizio dell’annata ci danno un prezzo provvisorio, promettendo che a saldo ci sarà un prezzo maggiorato, tenendo conto delle spese sostenute e via dicendo. Per esempio: pagano 50 centesimi al litro e poi, a fine campagna, ti danno la differenza. La differenza, però, non è scritta su nessun contratto, non ha nessuna garanzia. Quindi se adesso il latte è pagato 70 centesimi, non hai alcuna garanzia che, a saldo, ti pagheranno ulteriori 30 centesimi per arrivare ad 1euro. Il pastore continua a mungere, a versare il latte, a incassare gli assegni e chi si è visto si è visto. 

Il problema non è solo questo: per dare il giusto valore al latte bisognerebbe abbassare le soglie di produzione, che oggi sono fuori controllo. Un altro problema sono i costi: gli animali vanno curati e trattati bene, bisogna garantirgli un mangime discreto, bisogna integrare perché i pascoli non bastano, sono necessarie proteine, vitamine ecc. In totale ti arriva a costare 3,40 euro al kg, quindi anche dandogli mezzo kg di mangime al giorno sei già sotto il prezzo che poi ti danno. Se il latte non ti copre la spesa di produzione ovviamente ci vai a perdere. Poi molti dei diritti che avevamo ci sono stati tolti: prima facevamo parte di un’associazione regionale allevatori che si chiamava ARA, ora assorbita dalla ORE, che è in tutta Italia, ex ERSAP. Tutti i dipendenti dell’ARA fornivano supporto tecnico di agronomi e di veterinari, non per fare operazioni particolari ma per avere consigli ed, eventualmente, supporto medico, ora questi servizi ci sono stati tolti. Ora dobbiamo chiamare un veterinario libero professionista che vuole più soldi, aggiungendosi alle spese già sostenute. In più ci sono le spese sindacali, tutti i sindacati e tutte le associazioni di categoria lavorano grazie a noi, perché non c’è un documento che venga rilasciato da loro gratuitamente, se non un modello ISEE, che per chi ha la partita IVA serve a ben poco perché non hai tutte le agevolazioni della busta paga di un dipendente. Qualsiasi cosa rilasciata dal sindacato, solo perché possiede il timbro dell’associazione di categoria, ha una spesa di 50 euro che si aggiunge al bilancio aziendale. Un tempo gli affitti dei terreni agricoli erano commisurati al prezzo del latte - es. 100 litri di latte a ettaro, quindi 10 campagne sono 1000 l di latte; se il latte viene pagato 1euro tu paghi 1000 euro di affitto. Ma, visto che il prezzo del latte si è abbassato notevolmente, i proprietari terrieri, volendo guadagnare sulla schiena del pastore, hanno modificato i contratti e hanno deciso loro il prezzo degli affitti del latte. Perciò secondo i loro calcoli noi il latte lo mungiamo per 1euro al litro, mentre in realtà gli industriali lo pagano a 60 centesimi.

Poi bisogna tenere conto anche dei formaggi che i pastori producono direttamente. Il pecorino romano DOP, che viene prodotto, venduto e smerciato, non ha un problema di vendita, ma ci sono i giochi di mercato: a volte l’industriale blocca e aspetta il momento giusto per vendere e chi paga le conseguenze sono sempre l’allevatore e il pastore. In questa trattativa poi si parla solo di pecorino romano, ma i caseifici non prendono in considerazione tutti gli altri formaggi di piccola taglia – DOC perché prodotti dai pastori.. Gli industriali lo comprano direttamente dai pastori per immetterlo nel mercato e lo fanno in grande quantità; per esempio l’ ultimo prezzo di quest’annata è stato di 4 euro al kg, mentre gli industriali lo rivendono, poi, a 19 euro. Il pastore a quel punto è costretto a venderlo, perché deve ricominciare la produzione e si trova i magazzini pieni. Può aspettare che il prezzo salga, ma l’industriale lo compra al momento giusto.
La gente è arrivata alla disperazione e questo è molto grave perché il pastore - che non è un imprenditore agricolo - è svalutato anche culturalmente perché il bagaglio che abbiamo alle spalle viene tramandato da generazioni, un bagaglio che nessun professore ti può insegnare, è un mestiere che puoi imparare solo se nasci e cresci in mezzo alla campagna. Noi ci accorgiamo se una pecora sta per partorire, se ha la febbre, se non sta bene etc., senza avere bisogno di chiamare il veterinario. Io ora ho 30 anni, ma da piccolo il mio passatempo era stare con le pecore e mungerle, se mi chiedi quando ho imparato a farlo non saprei rispondere. Ci sono pastori che conoscono gli astri per verificare i raccolti, i semi, tutti aspetti culturali che si perdono se la figura del pastore compare. Il pastore, poi, è un custode delle terre, perché vigila da incendi, tiene le terre pulite e ordinate, e non è poco. È una cosa di estremo valore che non viene considerata da nessuno, nemmeno dalla politica. La percezione è quella di essere in via di estinzione: ad oggi si tratta di un lavoro degradante, perché lavori 365 giorni l’anno, senza riposo, non ci fidiamo a lasciare le pecore in mano ad altri, le conosciamo singolarmente e conoscendone la genealogia sappiamo quali allevare per ottenere buoni risultati. 

In che modo è partita e come si è diffusa la protesta? 

La protesta nasce dal gesto di un pastore che, stanco di non riuscire più ad affrontare le spese quotidiane perché poco retribuito e vedendo che il frutto di tutti i suoi sacrifici e del suo lavoro non aveva più valore, ha buttato per strada un intero contenitore di latte, ricevendo la solidarietà dall’intero comparto pastorale, che lo ha seguito a ruota. Il gesto ha iniziato a girare grazie ad un video che ha circolato, se lo mandi ad una persona in un piccolo paese poi comincia a diffondersi. È diventato virale, ha contagiato quasi tutti i paesi della Sardegna e da lì è cominciato, attraverso whatsapp e facebook. Da questo gesto sono scaturite tutte le cose che ora stiamo vivendo: la lotta, il ricatto degli industriali, le politiche ancora in atto.

Il problema è che i pastori che non possono produrre formaggio saranno costretti a cedere, qui sta il ricatto: noi siamo costretti ad acquistare mangime, acquistare il foraggio e alla fine sei costretto a cedere al ricatto dei 60centesimi perché se non paghi il mangime non te lo danno, se non paghi l’INPS diventi moroso, se hai una famiglia da mantenere devi incassare anche quei pochi 60centesimi. Puoi resistere una settimana, un mese, ma questa situazione poi ti porta all’esasperazione. Infatti i risultati in 10giorni di trattativa sono stati nulli, perché sanno che il pastore ha bisogno ora di incassare i soldi. 

In che modo prendete le decisioni necessarie per portare avanti la mobilitazione? Fate delle assemblee cittadine?

Ogni paese ha un gruppo su whatsapp dove vengono riuniti tutti i pastori. Inoltre abbiamo una riunione in ogni paese tutte le sere, per capire come si sta evolvendo la questione, come dovremmo muoverci e come farlo in maniera unita. Trovare un accordo tra tutti noi è complesso, quindi ci sono molte riunioni, molti incontri. Poi ciascun paese ha un rappresentante che fa da tramite con le altre cittadine perché parte del gruppo whatsapp di quel paese. Rispettiamo il principio di maggioranza e ci muoviamo di conseguenza. Adesso non sappiamo ancora quali saranno le prossime mosse, ci sono anche cose al di sopra di noi che forse non riusciremo a capire.

In passato hai partecipato ad altre lotte?

È la prima volta che partecipo ad una lotta anche perché io ho fatto una scelta: o sono in grado di dare il giusto valore al mio lavoro oppure non mi sacrifico. Ho scelto di aprire il mio negozio e mi sono attivato perché mi sono accorto che molti miei amici che versano il latte avevano bisogno di un supporto.

Prima hai fatto riferimento ai sindacati, hanno sostenuto le ragioni della protesta o si sono piegati alla volontà degli industriali? Mentre i giornali e i politici?

I sindacati fanno le loro ragioni. Il mio punto di vista è che esso sia ormai il trampolino di lancio per arrivare ai piani alti della politica, quindi tutto quello che viene fatto – non mi riferisco ai semplici dipendenti perché ci sono anche commercialisti e agronomi che lavorano seriamente – ha questo fine. Infatti quando i rappresentanti di un sindacato della Sardegna, la Coldiretti, sono andati a Roma, si sono affiancati non ai pastori, ma al ministro Salvini, che non è neanche il ministro dell’economia. Ma io mi chiedo: come puoi aprire un tavolo di contrattazione con il ministro dell’interno senza quello dell’economia o del lavoro? A questo punto è normale che quando sono andati i nostri rappresentanti li hanno divorati, perché noi non possiamo fare discorsi tecnici, non è la nostra caratteristica. Chi ha favorito alla fine questa vertenza? Gli industriali ovviamente, perché avevano una giacenza molto numerosa nei loro magazzini e la regione Sardegna ha anticipato dei soldi per ritirarla. Il prezzo del latte per gli industriali, ad oggi, non è cambiato affatto perché, se scorporiamo l’IVA dai 72 centesimi, il prezzo arriva a 75 cent. I sindacati perciò non hanno fatto niente, non sono stati in grado di tutelarci. Mi chiedo: ha tanto potere l’industriale o ha poco potere il sindacato? I nostri rappresentanti non sono in grado di reggere un confronto tecnico con questi, quindi alla fine si è punto e a capo. Tutto il latte versato in Sardegna è stato effettivamente buttato, perché noi pastori siamo obbligati a mungere le pecore, sennò non l’avremmo mai fatto. Vanno munte ogni 12 ore, mattina e sera, perché altrimenti si ammalano; una volta munto, in pochi hanno la possibilità di lavorarlo. Con tutto questo latte puoi fare il formaggio qualche giorno, ma si parla di realtà piccole, diventa difficile venderne in grosse quantità. Questa situazione ci sta anche costringendo all’illegalità, perché fare il formaggio senza le opportune certificazioni sanitarie è illegale, quindi non si può vendere. 

Con i giornalisti non vado molto d’accordo, mi è capitato ultimamente di averci a che fare ed hanno boicottato tutto. Ci siamo organizzati in diversi modi per far sentire le ragioni della nostra protesta: per abbiamo fatto anche un consiglio comunale allargato a tutte le scuole e a tutta la popolazione, con i bambini abbiamo fatto il formaggio, gli abbiamo fatto una lezione sulle proteine, sull’alimentazione, sui componenti del latte, mostrando tutto il percorso per ottenere il formaggio. E’ stato un bel gesto perché anche molti dei nostri stessi compaesani erano lontani dalla nostra realtà e non capivano veramente qual era l’importanza, l’unico modo era farglielo vivere e spiegarglielo. Il giorno dopo ho ricevuto una visita da un personaggio politico che voleva venire a fare il formaggio con me ma io mi sono rifiutato dicendogli che non avrei mai permesso che un personaggio politico si impadronisse della scena di questa protesta e potesse speculare su qualcosa che non gli appartiene solo perché ora ci sono le elezioni. Se la politica si fosse interessata prima a questa questione in modo sincero, forse non saremmo arrivati a questi livelli.

Molte delle complicazioni che affrontate quotidianamente sono la conseguenza delle leggi scritte dall’Unione Europea, che non tiene conto della particolarità dei territori a cui vengono applicate...

Noi stiamo soffrendo per queste leggi, fatte dalla comunità europea senza tenere conto delle differenze tra le varie regioni. Noi subiamo le stesse leggi applicate in pianura padana, in Francia o in Germania, ma noi siamo una zona svantaggiata. Per esempio: c’è una legge, chiamata “la legge del benessere animale”, che ti permette di avere un incentivo - 10/12euro a capo - se rispetti alcune regole, cosa impossibile per noi perché abbiamo grandi aziende. Queste leggi ci obbligano ad avere capannoni completamente sigillati, a far dormire le pecore in piena estate sotto i capannoni. Le nostre sono pecore rustiche abituate a stare all’esterno, che stanno meglio quando dormono fuori. Noi invece siamo obbligati a seguire queste leggi, che non rispettiamo perché non siamo in grado di farlo. Queste leggi non sono state studiate per la regione Sardegna, ma da tecnici che l’hanno vista solo dal mappamondo. Ci sono aziende che magari prendono 40-50mila euro a ettaro, altre che ne prendono 100 a ettaro. Il più forte cresce e il piccolo soccombe. È tutta questa situazione complessiva che ha portato alla situazione di oggi, forse anche troppo tardi.

Quale sarà la vostra risposta alle elezioni regionali che si terranno nei prossimi mesi?

Stavamo pensando di non andare proprio a votare, inviteremo tutta la popolazione dando dei motivi validi per non farlo, perché nessuno ci può garantire di avere dei risultati. Questa è una proposta che abbiamo fatto a tutti i paesi della Sardegna, ed è una cosa che ha senso fare tutti insieme.
Il ministro Salvini ha proposto di aumentare il prezzo del latte, portandolo a 72 centesimi. Quale è stata la vostra risposta?

Naturalmente abbiamo rifiutato. Noi pretendiamo 1euro più IVA, loro parlano del prezzo lordo. Se da 72 centesimi scorpori l’IVA, ti ritrovi ancora sotto i 70 cent, quindi non è una proposta che modifica lo stato delle cose.

E se dovessero proporvi il prezzo che chiedete?

Se dovesse essere così noi potremmo anche ricominciare a versare, ma ci sono tante cose che devono cambiare: devono rivalutare tutte le leggi fatte dalla comunità europea che noi dobbiamo subire e che per noi sono una sofferenza; vogliamo un piano apposito per la Sardegna, il controllo degli affitti per fare in modo che siano congrui e non speculativi, vogliamo che eliminino le aziende fantoccio, perché ne nascono tantissime per via dei premi aziendali. Bisogna battere il ferro finché è caldo.