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La servitù cooperativa

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A partire dalla propria esperienza lavorativa L’anti-sociale illustra le forme di lavoro e di vita dentro l’industria della riproduzione 

“La notte dell’indifferenza, dell’arroganza, della superficialità che si esprime in un linguaggio aggressivo, a volte perfino volgare, si infittisce sempre più”. Così inizia il biglietto di auguri che la cooperativa in cui lavoro dona ai suoi dipendenti, redatto e firmato dal prete fondatore dell’impresa sociale. E continua: “Se qualcuno esprime pietà, viene bollato come ‘buonista’, un neologismo che dà piena cittadinanza solo al tornaconto personale e dei gruppi di interesse. Altri valori diventano clandestini”. Il ritmo si fa sempre più incalzante: “Per accrescere all’infinito i nostri profitti, con consapevole ipocrisia, continuiamo a devastare le case altrui”. Il lessico anti-salviniano e il riferimento polemico all’attuale governo – fatto peraltro da chi di profitti se ne intende alla grande – è ormai del tutto esplicito: “Chi fugge dal degrado invivibile da noi provocato viene chiamato con divertita ironia ‘migrante economico’. Non ci basta fare delle vittime, bisogna colpevolizzarle e punirle. Il Natale svuotato dalle luci dei supermercati, trasformato in una sagra consumistica [si tenga conto che il regalo aziendale elargito consiste in buoni spesa della Coop], muore nell’insensibilità dei più, nonostante l’impressionante crescita tra noi delle forme del disagio, di cui pochi si prendono cura, e che altri provvedono, con più successo a convogliare in una rabbia verso tutto e tutti”. Olè! Non può ora mancare, in chiusura, l’appello ai buoni sentimenti: “Lasciamoci abbracciare da Lui e cominciamo a rivivere e far rivivere”.

Queste cose non sono nuove. Alcune settimane prima, partecipando a un corso di formazione per neo-assunti, il prete-manager le aveva espresse con ancora maggiore chiarezza e vigore retorico: viviamo in un’epoca buia per colpa della Lega e dei “partiti sovranisti finanziati da Trump e da Putin”, dobbiamo “difendere l’Europa” e “aiutare le vittime”. Chi lo deve fare? Innanzitutto noi, le cooperative, “il soft power” alternativo al potere degli arrabbiati, l’unico in grado di far rispettare le regole e non farci precipitare nel caos del conflitto. L’appello, in questo caso, non è a Gesù bambino e a farsi abbracciare da Lui, ma a costruire un fronte democratico e anti-razzista che permetta di farli trionfare questi benedetti buoni sentimenti, che più prosaicamente significa dare più fondi alle imprese del “soft power”. Sottinteso: qui “accrescere all’infinito i nostri profitti” non è così peccaminoso, perché è per un nobile ideale. Il loro.

Queste parole, del resto, non mi sono affatto nuove. Ogni giorno le vedo espresse, con retoriche nemmeno troppo diverse e talvolta perfino con meno veemenza, sulle bacheche facebook di molti compagni (scusate, volevo scrivere compagni e compagne: nel “movimento”, così come nell’industria del sociale, il politically correct è tutto). Allora, i casi sono due: o è in corso un processo di straordinaria radicalizzazione delle cooperative e del terzo settore, o è in corso un processo di straordinaria deradicalizzazione dei compagni. Tertium non datur. Metto a disposizione la mia esperienza lavorativa, nella sua banale quotidianità, per capire quale dei due processi stia avvenendo. Abbiate perciò la pazienza di seguirmi nel “segreto laboratorio” della produzione del sociale, sulla cui soglia sta scritto, per continuare a parafrasare Marx: vietato l’ingresso se non per il business.

 

La mia giornata tipo nella comunità terapeutico-riabilitativa per tossicodipendenti in cui lavoro è più o meno la seguente. Arrivo in struttura per strisciare il mio badge e sentire una voce macchinica che mi augura una buona giornata. Essendo tra gli ultimi arrivati è piuttosto raro che qualcuno dei colleghi mi saluti, sono tutti troppo impegnati. In realtà qui dovrei dire soprattutto colleghe, in questo caso non per omaggio al politically correct di cui sopra, ma perché l’unità produttiva è composta quasi interamente da operatrici, a partire da chi la dirige. Allora, in cosa sono così impegnate colleghe e colleghi? Mi avvicino, ascolto le discussioni. Talvolta sono su aspetti personali, gossip potremmo dire. Però attenzione, nell’industria del sociale il gossip ha una sua funzione, serve a cementare quello spirito relazionale che è qui immediatamente spirito aziendale. Il gossip domina anche nella terribile chat whatsapp (la cui immagine è un cuoricino), in cui sono stato inserito obbligatoriamente e obtorto collo: per il 70-80% vengono scambiati messaggi apparentemente inutili ai fini lavorativi, foto delle vacanze, aforismi da baci perugina, battute scontate, ironie nei confronti degli utenti medi (per esempio sulla loro ignoranza e su come si esprimono) ed elogi degli utenti modello, quelli che sono grati alla struttura e pronti a fare la spia nei confronti degli altri. Questi messaggi aprono lunghe conversazioni, che intasano la memoria dei cellulari; qualche volta mi è capitato di fare delle domande su questioni rilevanti per il lavoro, rimaste senza risposta. Dopo un po’ ci ho rinunciato.

A questo punto mi chiederete, legittimamente, se non sono io il problema, oppure se non ho un atteggiamento paranoico. Lascio ovviamente aperte entrambe le possibilità, però guardando quello che avviene con gli altri non credo che ce la possiamo cavare così. Infatti, la relazione orizzontale e paritaria assunta come caratteristica ideologicamente fondante l’equipe è in realtà tutt’altro che orizzontale e paritaria. È una relazione, al contrario, fortemente gerarchizzata; tuttavia, la gerarchia è mistificata esattamente da quelle pratiche di rapporto che qui descrivo e dall’idea secondo cui condividiamo la stessa mission (questione decisiva, su cui ritornerò in seguito).

Si può vedere all’opera tale mistificazione relazionale subito dopo l’entrata, quando l’equipe fa la propria riunione. La direttrice parla e dà i giudizi sui singoli casi o sul modo di operare in generale. Teoricamente ognuno ha la possibilità di esprimersi e dire la propria, anzi vi è una sorta di ingiunzione a farlo, un’ingiunzione alla relazionalità coatta, pena apparire disinteressati. Il punto è che chi si esprime deve farlo per confermare quello che è stato detto dalla direttrice, o comunque ponendo questioni addomesticate che rafforzano la bontà delle valutazioni e delle decisioni già prese. Il risultato di questo modo di operare è logicamente prevedibile: se i vertici sbagliano, l’intera equipe sbaglia. L’organizzazione non ha forme di correzione interna, perché non vi è alcuna reale dialettica; a ciò si aggiunge che tali decisioni risentono spesso degli umori e delle simpatie della direttrice, ovviamente mai esplicitati o anche solo tenuti in considerazione, occultati da una sorta di oggettiva neutralità attribuita al ruolo e all’esperienza.

Esperienza è un altro termine-chiave per comprendere la gerarchia mistificata nel credo della relazionalità. Grosso modo come dentro una caserma, la gerarchia all’interno dell’equipe è determinata innanzitutto dall’età di servizio. Ciò può non essere del tutto immotivato, se la variabile esperienziale fosse una delle componenti di valutazione del peso di chi parla: invece è la sola o quasi. Chi ha conoscenze, competenze, titoli e appunto esperienze maturate altrove non ha la stessa possibilità di parlare di chi da anni invecchia nella struttura. Anzi, tali conoscenze ed esperienze rischiano di essere scambiate per arroganza e supponenza: ma come, noi siamo qui da una vita e tu, ultimo arrivato, vuoi insegnarci come si fanno le cose? Zitto e fai gavetta.

Essere lì da una vita, tra l’altro, non sempre è una scelta, come invece viene fatta passare, a costo di raccontarsela. Allora, la componente della frustrazione esaspera la gerarchia sostanziale dentro l’equipe, con atteggiamenti di nonnismo nei confronti degli ultimi arrivati. Questi si esplicano nella scarsa o nulla considerazione, dal saluto fino alle questioni poste durante l’equipe. E laddove la relazionalità è un elemento fondante, la regolazione dell’accesso alla relazione è un modo per punire o rendere la vita difficile a operatori che non sono in linea con l’equipe, cioè con ciò che i vertici decidono (il cosiddetto mobbing non dovrebbe essere qualcosa del genere?).

Facciamo un altro esempio: secondo il contratto collettivo nazionale (che pure fa schifo quanto a tutele per i lavoratori), le vacanze e i giorni di riposo – frutto dell’accumulo delle ore di lavoro – dovrebbero essere concordati tra operatori e direzione. Ciò non avviene per nulla. Una volta ogni tot, per scaricarmi l’accumulo e impedirmi di chiedere dei giorni di riposo in periodi ambiti, la vice-direttrice mi ha dato delle brevi vacanze in momenti per me completamente inutili. Non solo: quando ho provato a chiedere anche solo dei singoli giorni, mi sono stati negati e sono stato esposto a pubblica reprimenda, segnalando sul sistema telematico delle consegne che questo tipo di richieste è proibito. Il concetto è stato sottolineato con il maiuscolo e con tanto di punti esclamativi. Ovviamente direttrice e vice-direttrice tengono per loro i periodi migliori di vacanza, senza dover chiedere nulla a nessuno se non a se stesse. Avendo visto una collega che accennava a lamentarsi della cosa, ovviamente in privato, le ho dato ragione, riportando quanto è successo a me in più occasioni in appena pochi mesi, facendo addirittura riferimento ai diritti previsti dal suddetto contratto collettivo nazionale (per quanto, lo ripeto, non sia un simpatizzante né dei diritti né del contratto collettivo nazionale). A quel punto, quasi stupita e infastidita, si è bloccata e ha precisato che il modo di operare della direzione non è sbagliato in generale, è semplicemente sbagliato nel suo caso, perché lei è lì da vent’anni. Come dire: non stiamo parlando di diritti, bensì di privilegi legati all’anzianità di servizio. Tu che sei qui solo da qualche mese, taci e non ti intromettere in faccende che non ti riguardano, ovvero in faccende che ci sbrighiamo tra noi anziane dell’equipe.

 

Chiamerei questo sistema fondato sulla mistificazione relazionale maternalismo. Ciò non solo e nemmeno tanto perché, nelle cooperative, sono soprattutto donne a lavorare come operatrici e spesso ricoprendo ruoli di potere. Alcuni dirigenti della cooperativa in cui lavoro sono uomini e sono altrettanto maternalisti, così come altrove esistono donne che esercitano il paternalismo. Il motivo principale di tale definizione, dunque, è che questo sistema mette a valore, dal punto di vista del comando sul lavoro vivo, dell’estrazione di plusvalore e della riproduzione allargata del capitale, quelle caratteristiche che sono state storicamente attribuite alle donne (relazionalità, cura, facoltà timiche, emotive, ecc.). Il padrone paternalista usa il bastone e la carota, è estremamente duro e si mostra magnanimo se ti comporti bene; il padrone maternalista, caratteristico dell’industria del sociale, ideologicamente aborre il bastone e ti accarezza spingendoti alla relazionalità, usando questo dispositivo come continuo occultamento delle gerarchie aziendali, dei rapporti di produzione e di potere.

Anzi, gerarchie, produzione e potere sono parole tabù. Non siamo un’azienda, siamo una famiglia. Se noi che ricopriamo ruoli di responsabilità sgridiamo te, operatore in formazione, è per il tuo bene, lo facciamo con affetto relazionale, è un dovere, così come faremmo con i figli piccoli. Anche lavoratore, in realtà, è parola che non può essere pronunciata, e non parliamo dell’altro grande rimosso – il salario. Quello che noi facciamo è la cura degli altri, un’opera sociale, una scelta di vita, una mission. Il vero e solo salario è quello psicologico, che consiste nel riconoscimento e nelle carezze che la Grande Madre comunitaria ti dà per le tue buone azioni, per il tuo spirito di volontaria abnegazione, per il fatto che non ti lamenti mai.

Questo occultamento del ricatto salariale, del resto, riflette anche il sentirsi ceto medio degli operatori, in quanto figure concrete della mediazione sociale, portatori di uno status e, appunto, di una mission riconosciuti. Un’appartenenza soggettiva che ha sempre meno a che fare con la condizione economica e le mansioni effettivamente svolte. Anzi, se si guarda alla busta paga di 1.200 euro scarsi e all’attività banale, routinaria e alienante quotidianamente svolta, lo stridore è netto.

Dire che fare l’operatore sociale è una scelta di vita non è solo una retorica, magari stucchevole, però priva di conseguenze. Al contrario, le conseguenze sono maledettamente concrete e quotidiane. Al momento dell’assunzione, firmando il contratto, tu accetti un codice etico e un codice deontologico, di cui ovviamente non ti fanno prendere visione se non a distanza di mesi, quando il responsabile dell’ufficio personale spiega in cosa consiste. Innanzitutto, si accetta come “vincolante” quella che viene chiamata la “filosofia” della struttura, cioè le sue norme di comportamento. Tali norme non riguardano solo l’ambito lavorativo, ma più in generale la forma di vita. Dunque, bisogna attenersi a determinate condotte e precetti morali: ovviamente non fare uso di qualsiasi tipo di sostanza, non bere in prossimità del turno di lavoro, se possibile non bere proprio. Il responsabile del personale tiene qui a spiegare che l’alcol, non essendo una sostanza illegale, non può essere del tutto proibito ai dipendenti; però, se un operatore venisse visto in giro in condizioni di alterazione, è passibile di licenziamento. Perché, sostiene come se fosse la cosa più naturale del mondo, “dovrebbe essere lui stesso a riflettere sulla sua condotta e capire che non è adeguata alla scelta di vita dell’educatore”. Non solo: se tu vedi o vieni a sapere che un tuo collega trasgredisce queste norme, in qualsiasi ora del giorno o della notte, sei obbligato a denunciarlo ai vertici della struttura, affinché possano prendere i provvedimenti adeguati. Il codice prosegue così, enumerando condotte etiche obbligatorie degne di un regime teocratico. Del resto, questa è la “filosofia” della struttura: se vuoi salvare le anime degli altri, devi farti salvare innanzitutto la tua.

Voi direte, cari lettori: ma sì, sono sciocchezze che fanno ridere, comunque non c’è di che preoccuparsi. Vi sbagliate. Nei pochi mesi che lavoro qui ho già assistito a un vero e proprio processo, durato alcune settimane, contro alcuni operatori accusati di trasgressione (erano usciti tra di loro, una volta addirittura con un ex utente della struttura, formando quello che è stato giudicato un “gruppo trasgressivo” di cui i vertici erano all’oscuro). Lo Stato etico è così intervenuto, spiegando con durezza l’errore, minacciando velatamente di licenziarli, costringendo gli imputati alla confessione e alla reciproca delazione, con tanto di lacrime e pentimento. Solo dopo diverso tempo la Grande Madre ha riaccolto i figliol prodighi, ma che l’esempio resti imperituro nelle teste e negli animi degli operatori. La Grande Madre può accarezzarti con comprensione, ma può anche allontanarti con ignominia dal suo seno. Per certi versi nell’industria della riproduzione sembra fare capolino la santa inquisizione, solo che questa volta dalla parte del giudice morale, insieme ai preti, ci sono anche le ex streghe.

 

Ancora due parole sulla struttura matriarcale. Nella chat del lavoro, nei giorni a cavallo della manifestazione di “Non una di meno”, la direttrice ha fatto circolare una serie di slogan femministi, concludendo con l’invito allo “stato di agitazione permanente”. Immediatamente le colleghe si sono profuse in emoticon e cuoricini, mentre la mia fantasia volava al momento in cui con lo stesso slogan bloccheremo quella maledetta fabbrica della riproduzione.

Il femminismo rivendicato dal maternalismo comunitario è quello delle donne che hanno preso in mano il potere, esercitandolo in modo diverso dagli uomini, ancorché per gli stessi fini. Determinando il passaggio dal patriarcato al matriarcato, appunto. È il femminismo di chi bolla come maschilista qualsiasi accenno degli utenti al desiderio e all’impulso di una sessualità che viene quotidianamente repressa (in comunità non solo non si possono avere rapporti di intimità, ma è un tabù parlarne). Alcune settimane fa, più o meno negli stessi giorni della manifestazione di “Non una di meno”, nelle riunioni di equipe si è cominciato a parlare in tono allarmato di un possibile rapporto di eccessiva simpatia tra un’utente donna e un utente uomo. La proposta è stata quella di impedire che stessero insieme se non negli spazi del panopticon comunitario. Alle timide obiezioni mosse da una neo-assunta, dopo che le madri della comunità si sono riprese dallo sbigottito stupore per il suo prendere parola senza confermare quanto indicato dai vertici, hanno con pazienza spiegato alla sprovveduta “operatrice in formazione” il suo errore. Questa donna in passato ha subito violenza, quindi la sua ricerca di un rapporto con un uomo è in sé patologica. Come dire: la vittima non può avere comportamenti e pulsioni autonome, costituiscono comunque effetti perversi e inconsapevoli di ciò che l’ha resa vittima. E la vittima per definizione non può parlare e pensare per sé: la Grande Madre è qui per questo, per parlare e pensare in nome delle pecorelle smarrite.

La stessa sessualità ritorna, in forme mistificate, in frequenti atteggiamenti delle operatrici ai vertici della struttura, ad esempio quando parlano di ragazzi giovani con frasi del tipo “quello lo voglio io”, “litigherò con le altre per essere la sua operatrice”, ecc. Niente di esplicito, sarebbe tutto sommato meno preoccupante. Il problema è che queste pulsioni, probabilmente inconfessate anche a loro stesse, sono sublimate nel linguaggio terapeutico e in un perverso desiderio di essere la madre salvatrice.

 

Ritorniamo alla riunione di equipe. Ascoltando le cose su cui non sono d’accordo, le valutazioni a mio modo di vedere erronee, per carenza di informazioni, per impostazione dolosa dell’intervento terapeutico, per simpatia o antipatia nei confronti dei singoli utenti, mi pongo la domanda: parlare o portare fino in fondo l’alienazione? Ho alcune volte tentato la prima strada: i colleghi si sono voltati dall’altra parte, oppure mi hanno interrotto con un sorrisetto accompagnato dall’immancabile necessità di ricordarmi che “sei un operatore in formazione”. Dunque taci, o meglio parla per dire di sì. Definirti “operatore in formazione” non significa che il sistema ti fornisca gli strumenti formativi o anche solo informativi per consentire il tuo inserimento negli ingranaggi lavorativi; serve solo a farti continuamente capire qual è il tuo ruolo di subordinazione e che l’accesso alla relazione è gerarchicamente ordinato. Non resta allora che la seconda strada, portare fino in fondo l’alienazione, che se riuscisse non sarebbe poi così male. Mentre la catena di montaggio va, io mi scindo: lascio lì il corpo per marcare la presenza e portare a casa il salario, sottraggo e libero il cervello per pensare a come fargliela pagare, a questi e agli altri padroni. Il problema è che la materia prima che sta sulla catena di montaggio sono delle persone, le cui forme di vita – se si esclude la tossicodipendenza, che odio per motivi opposti a quelli dei vertici della cooperativa e che illustrerò in seguito – sono più simili alla mia di quanto non lo siano quelle degli altri operatori “missionari”.

Mentre rifletto sulla strada da percorrere, dopo che la riunione di equipe si è prolungata oltre ogni ragionevole tempo tra gossip, battute sprezzanti sugli utenti e continuo chiacchiericcio approvato dalla direttrice che fa tanto spirito di corpo, siamo giunti alla pausa pranzo. A cucinare sono ovviamente gli utenti, così come sono gli utenti a pulire la struttura, a fare i lavori necessari al suo mantenimento, a fare gli accompagnamenti in auto, a svolgere tutte le quotidiane mansioni che consentono alla comunità di stare in piedi. Anche quando non c’è niente da pulire, devono pulire lo stesso: disciplinarli alla regola astratta è ritenuto dall’equipe molto più importante del contenuto concreto della regola. In questo senso è significativo il cosiddetto G.I., acronimo di General Inspection, un turno generale di pulizie tanto accurate quanto completamente inutili. Il prete-imprenditore, ridendo di gusto, ne ha spiegato l’origine: agli albori veniva fatto come forma punitiva, i trasgressori di qualche regola venivano rasati a zero e dovevano girare con un cartello al collo con su scritto “io sono un disonesto”. È altresì evidente che il lavoro non pagato che gli utenti quotidianamente fanno è una straordinaria riduzione dei costi, ovvero un aumento dei profitti per la cooperativa. Ma questo argomento scandaloso – a questo punto l’avrete intuito – non può nemmeno essere pensato.

Mentre mangio le pietanze che gli utenti realizzano a partire da una qualità dei prodotti estremamente scadente, rifletto su un semplice dato: degli 80 euro che il Sert dà alla cooperativa per ogni utente (diventano 120 per le doppie diagnosi, cioè quelli che hanno anche certificazioni psichiatriche), per i quattro pasti della giornata viene stanziato per ognuno di loro all’incirca 1 euro e mezzo. Basta vedere i loro corpi gonfi e gli esami del sangue per capire che ne risentono e che un percorso terapeutico dovrebbe garantire anche una buona qualità del cibo. D’altro canto, sono le stesse cose che mangiamo noi, e anche il mio corpo e i miei esami del sangue cominciano a risentirne. Si tratta solo di un esempio, ancorché significativo. Se sommiamo tutte le spese (inclusi i nostri magri salari) comprese in quegli 80 o 120 euro a testa moltiplicati per i circa 40 utenti che popolano la comunità, ci rendiamo facilmente conto che il business del sociale frutta parecchio.

 

 

Eccoci agli utenti, dunque, alle anime e alle vite da salvare, gli oggetti della mission degli operatori. Diciamo oggetti in senso letterale, perché vanno innanzitutto privati della propria soggettività per essere plasmati: per cosa? Per accettare le regole della società costituita: la riproduzione è qui, immediatamente, produzione e riproduzione di attori sociali normalizzati, accettanti lo sfruttamento capitalistico, obbedienti e subordinati. Mano a mano che si va avanti con questo lavoro, infatti, si capisce che in realtà la tossicodipendenza non è la questione centrale dell’intervento terapeutico. La direttrice, confortata dal parere “scientifico” delle figure dei consulenti professionali (psicologa, psichiatra e psicoterapeuta, su cui ritornerò in seguito), ripete spesso che ciò che dobbiamo fare capire ai tossici è questa cosa qui: “non è il mondo che fa schifo, siete voi che fate schifo”. A ciò si aggiunga che gli utenti sono una buona materia, perlopiù inerme, su cui sfogare l’inconfessabile frustrazione che spesso gli operatori accumulano per il proprio lavoro e forse anche per la propria vita.

Gli utenti devono allora rispettare le regole non perché migliorino la loro vita in comune, ma semplicemente perché sono regole, cioè decisioni di un’autorità che non ammette discussioni e repliche. Nei confronti di tale autorità devono mostrare amore figliale: “noi siamo i vostri genitori, quindi abbiamo il dovere di punirvi quando sbagliate” viene loro ripetuto. Sono chiamati “ragazzi”, anche quando hanno 50 o 60 anni, per rendere chiaro il processo di infantilizzazione a cui sono sottoposti in modo esplicito. “Vanno fatti regredire”, ci ripete come un assioma il consulente psichiatra. Ritornando bambini possono così essere reimpostati: è un vero e proprio tentativo di costruire un “uomo nuovo”, non contro bensì a favore della riproduzione dei rapporti sociali esistenti. Procedendo nel percorso, cioè passando dall’infanzia all’adolescenza e verso l’agognata maturità che solo in pochi potranno raggiungere, i “ragazzi” andranno a fare volontariato e tirocini, ossia lavoro gratuito e semi-gratuito: questi passaggi sono obbligatori, perché devono dimostrare che si stanno riabilitando all’accettazione dello sfruttamento.

Anche i rapporti tra di loro devono essere riprogettati. Chi viene dal carcere deve abbandonare i propri codici etici, innanzitutto la nemicità verso l’infamia. Dentro la comunità, al contrario, bisogna denunciare gli utenti che commettono delle infrazioni, comunicandolo immediatamente agli operatori o, ancora meglio, dentro gli incontri collettivi. Si badi che queste denunce raramente riguardano l’eventuale introduzione di sostanze dentro la struttura, ma quasi sempre il venir meno a un turno di pulizia, oppure l’aver preso un caffè in più di ciò che è consentito, o aver mangiato fuori orario, piccolezze di questo genere, il che porterà a delle punizioni esemplari. Periodicamente gli utenti devono compilare una “lista colpe”, cioè degli atti di autodenuncia rispetto alle proprie “trasgressioni” e di denuncia verso quelle degli altri. Il risultato di questo meccanismo delatorio è che si rafforzano quelle caratteristiche di individualismo estremo e di opportunismo nei confronti dell’autorità costituita (se io mi canto il mio compagno e lo faccio punire ottengo un premio) che sono proprie della soggettività del tossicodipendente. Anzi, l’utente servile e opportunista è il modello comunitario, quello che permette la gestione della struttura e dà soddisfazione agli operatori, adulandoli. Così come l’operatore servile e opportunista è il modello per i vertici dell’industria del sociale.

Di conseguenza, è escluso qualsiasi processo di autorganizzazione, attraverso cui gli utenti potrebbero confrontarsi collettivamente su come reimpostare delle norme di vita in comune: ciò farebbe fare dei passi in avanti importanti nel combattere la dipendenza, ma è proprio la dipendenza al comando che la struttura vuole rafforzare. Anche la gestione della struttura gli utenti potrebbero svolgerla in autonomia, che viene loro negata per una paranoia di controllo. A un tipo di droga ne viene semplicemente sostituito un altro: la droga della normalizzazione. L’uso di sostanze non è infatti per nulla alternativo rispetto all’accettazione: è anzi l’altra faccia dell’accettazione. Ci si droga non per rifiutare l’ordine costituito, bensì per sopportarlo e riprodurlo. Allora, se si volesse costruire un reale percorso di lotta alla dipendenza, bisognerebbe rovesciare il diktat imposto dalla struttura: dovete combattere le sostanze non per accettare il mondo così com’è, ma per essere finalmente liberi di combatterlo. Bisognerebbe, cioè, rovesciare la cooperativa.

 

Prima di proseguire, sorge spontanea una domanda: perché utenti e operatori, almeno per ora, non si ribellano? Metto insieme le due categorie non a caso, perché – pur a partire da ruoli diversi – lo strato inferiore degli operatori (quelli appunto definiti “in formazione”) è trattato come gli utenti: vanno disciplinati e normalizzati alla vita comunitaria, senza dar loro possibilità di critica, e al contempo ingiungendo loro di parlare bene della Grande Madre amorevole. Ora, per provare a dare delle risposte alla domanda, vi è sicuramente un ricatto originario. Per i lavoratori questo ricatto si chiama ovviamente salario, parola come già detto impronunciabile ai fini di mantenere l’ipocrisia della mission e della scelta di vita. Per gli utenti che vengono dal carcere il ricatto è costituito, va da sé, dal rischio di ritornarci. Per gli altri “ragazzi” il ricatto è morale: sono entrati in comunità a partire dalle proprie storie di fallimento, hanno contratto un debito con la famiglia e con i propri affetti che devono tentare in qualche modo di risarcire, ancorché sia inestinguibile – cosa che viene loro ricordata di continuo. Se provano a lamentarsi di quello che fanno in comunità, delle imposizioni a cui sono sottoposti, perfino del cibo scadente o scaduto, oppure di muri pericolanti, letti che traballano o auto scassate e ben poco sicure, devono sempre ricordarsi da dove vengono: dallo schifo, quindi zitti e obbedire.

Tuttavia, queste spiegazioni non sono ancora sufficienti se non le mettiamo in relazione a quello che abbiamo chiamato sistema maternalistico. In questo sistema devi continuamente denudarti, esternare le emozioni, abbandonarti alla relazione con la Grande Madre, ovvero fidarti ciecamente di lei. La Grande Madre in certi momenti deve punirti, per il tuo bene, però è quella che ti accoglie, ti accarezza, ti riconosce. Ecco, proprio il bisogno di riconoscimento è un meccanismo fondamentale che rende maledettamente difficile il conflitto. Al padrone paternalista, quello che si presenta con la frusta, non è facile contrapporsi per un problema di rapporti di forza, però appena puoi fregarlo e sottrarti lo fai con grande piacere. La padrona maternalista non la freghi perché è da lei che dipende il riconoscimento, la relazione diventa dispositivo di potere, di dipendenza appunto. Non solo: la relazione spesso non ti fa nemmeno individuare il nemico, perché lo occulta e mistifica in una fitta coltre di ipocrisia, in un’avvolgente velo di dolce comando, in un morboso abbraccio che ti soffoca, legandoti con un filo invisibile che ti incatena. Ecco il “soft power” di cui parla il prete-imprenditore.

Nel sistema comunitario, del resto, il rapporto tra operatori e utenti è sempre giocato sul crinale dell’ambiguità. Da un lato, nelle parole dei vertici della struttura e dei consulenti professionali, vengono continuamente utilizzate, in modo esplicito o implicito, riferimenti bellici. “Ogni giorno siamo in guerra, dobbiamo essere tutti compatti nel punirli e raddrizzarli” dice con pathos un’operatrice. Oppure, sostiene il consulente psicoterapeuta, “l’ufficio è come un fortino: gli operatori devono difendere i confini e respingere l’assalto degli utenti”. La mission si arma, il soft power necessita dei lessici dell’hard power. In fondo, il succo è che noi resteremo sempre noi, e loro resteranno sempre loro. Noi siamo ciò che loro devono diventare, e tuttavia loro non potranno mai essere come noi. Loro ci devono essere grati, cosicché saranno sempre dipendenti da noi.

Dall’altro lato, gli utenti sono anche l’oggetto della ricerca di riconoscimento da parte dell’operatore. Quel riconoscimento è infatti un salario psicologico che completa o sostituisce il salario reale, che spinge l’operatore ad accettare un lavoro di merda e a riprodurre una logica perversa. Bisogna mantenere la distanza terapeutica, declama il codice deontologico; e tuttavia, la direttrice gongola di fronte alle carezze metaforiche degli utenti che fingono di riconoscerla come la Grande Madre autorevole e indispensabile. Ovviamente l’atteggiamento degli utenti nei confronti delle gerarchie è dettato da evidente strumentalità e opportunismo, il che – come già detto – fa parte del comportamento tossicodipendente. Se l’amministrazione della cooperativa nominasse a direttore il gatto che circola nel cortile, o un totem, la riverenza degli utenti sarebbe molto simile. È cioè mera autorità, senza alcuna autorevolezza. La direttrice ha una condotta non troppo dissimile con lo strato inferiore degli operatori (quelli denominati “in formazione”, appunto), che sono così più vicini alla posizione degli utenti che non a quella degli altri operatori. Se si comportano bene vengono premiati, ammessi cioè nella comunità di affetti della famiglia; se si comportano male, viene loro espressa la delusione genitoriale – “noi ci siamo fidati di te e ci hai fatto questo, non ho parole”. Sappi però che la grande famiglia è buona, e siamo pronti ad accogliere il figliol prodigo. A questo punto, dopo aver confessato le proprie colpe e giurando di non farlo più, la pecorella smarrita ritorna all’ovile, pronta a obbedire ancora di più per riconquistarsi l’amore materno.

Insomma, più ancora che la paura dell’operatore di essere licenziato, o dell’utente di essere allontanato dalla comunità, il punto principale di blocco che per ora impedisce o rende difficile la ribellione e dunque la lotta è il terrore di deludere chi ti ha accolto con affetto e fiducia. Il problema centrale è dunque il ricatto relazionale. Finché non si rompe questo ricatto, rifiutando la relazione come dispositivo di incatenamento, non si riuscirà a mettere realmente in discussione questo sistema di sfruttamento e servilismo. Forse si può addirittura azzardare che, nell’industria della riproduzione, il rifiuto della relazione è una condizione necessaria del rifiuto del lavoro.

 

Al contrario, i momenti catartici di pentimento e riammissione nella relazione comunitaria sono perlopiù affidati alle supervisioni con le figure di consulenza professionale a cui ho prima accennato. La “supervisione relazionale” si tiene una volta al mese, dopo pranzo. Il supervisore, uno psicoterapeuta lautamente ricompensato, passa un paio d’ore a dire delle banalità davanti a un tablet, che io continuo a pensare gli serva per vedere il suo conto in banca che cresce di minuto in minuto mentre si svolge la farsa. Invita a parlare dei problemi che ci sono, che più prosaicamente significa: come si comportano i lavoratori. Allora i vertici, direttrice, vice-direttrice o altre figure chiave del matriarcato comunitario, cominciano a distribuire lodi e rimproveri, nei momenti più tesi e difficile la responsabilità è interamente scaricata sugli operatori accusati di lagnarsi in continuazione, di andare a lavorare con il muso, di non marciare compatti come dovrebbero. Silenzio intimorito, riflessione sulle proprie condotte, confessione delle colpe proprie e degli altri. Ancora una volta, il sistema utilizzato con gli utenti è pari pari quello utilizzato con i lavoratori. Ho assistito a cose talmente imbarazzanti che diventa difficile raccontarle. Taglio corto: fiumi di lacrime, pianti e singhiozzi che accompagnano la confessione. Le prime volte faticavo a crederci. Ancora oggi, nei frequenti casi in cui avvengono, mi chiedo se lo facciano apposta per conservare il proprio posto di lavoro, oppure se piangano spontaneamente. Mi fa orrore la prima ipotesi, temo ancora di più la seconda, perché significa la piena interiorizzazione della servitù e della sottomissione.

Nei rarissimi casi in cui un lavoratore osa dire o alludere a qualche problema, in modo estremamente allusivo e cauto, vi è dapprima scompiglio, poi il tentativo immediato di individualizzare il problema: “stai sul tuo vissuto”, intima lo psicoterapeuta, come dire “non provare a sollevare questioni che non ti devono riguardare”. Qualche tempo fa un’operatrice – nel sottobosco dell’informalità e lontano dai luoghi ufficiali – si è lamentata per alcune settimane della sua situazione, del fatto che non ce la faceva più, dei rapporti con i colleghi e delle responsabilità della direzione. Orecchiato il clima, la Grande Madre comunitaria è intervenuta. Dapprima, nelle supervisioni, il problema è stato riportato alla stanchezza dopo anni di onorato servizio. Il salario è ancora una volta parola vietata: nonostante questa operatrice riportasse informalmente le difficoltà economiche che la costringevano addirittura a un secondo lavoro (fare le pulizie a casa di studenti fuorisede), tutto ciò è stato risolto nella parola magica del burnout. Allora, ecco la soluzione: la Grande Madre è così misericordiosa da spostarti in un’altra struttura più vicina a casa, così potrai cominciare una nuova esperienza. Da parte dell’operatrice addio a qualsiasi accenno di conflitto, tutto dimenticato, tutto risolto sul piano individuale. Sulla chat ringraziamenti e cuoricini a go-go.

Le supervisioni relazionali sono dunque spazi, oltre che di accusa verso i lavoratori e confessione di colpe, anche di individualizzazione e patologizzazione del potenziale dissenso. Se avverti un problema questo non dipende da qualche responsabilità della struttura, ma al contrario dipende da te: dal tuo stress personale, dalla tua inadeguatezza, dalla tua mancanza di esperienza. Non siamo noi, direzione, che dobbiamo risponderne, ma sei tu, lavoratore, che devi pensare a cosa c’è che non funziona dentro di te. Rifletti, confessa, espia: e le braccia della Grande Madre torneranno ad avvolgerti con rinnovato affetto.

Per certi versi, potremmo dire che la supervisione è una sorta di sussunzione aziendale dell’autocoscienza. Il partire da sé, qui, diventa una pratica di autocolpevolizzazione, una forma apparentemente orizzontale ma gerarchicamente ordinata che serve per non individuare mai il nemico, per introiettare il senso di colpa e rendersi disponibili alla delazione, del proprio comportamento e di quello dei propri colleghi.

Al termine di questa autoinquisizione di gruppo, bisogna ricompattare lo spirito comunitario. E allora, la direttrice – chiaramente già d’accordo con lo psicoterapeuta, che può così continuare a osservare in santa pace il conto corrente levitare – tira fuori il coniglio dal cilindro: alzatevi tutti in piedi, facciamo insieme mindfulness e meditazione, chiudete gli occhi, distendete i muscoli, abbandonatevi alle mie parole di pace e di giustizia. Inizialmente pensavo stesse scherzando, ma le facce terribilmente serie e gli occhi diligentemente socchiusi di colleghe e colleghi mi costringono a fare i conti con la dura realtà: purtroppo è tutto vero. Dopo svariati e interminabili minuti, in cui pensavo si fosse toccato il fondo, mi devo ancora una volta ricredere. La direttrice propone che tutte le mattine si reciti in coro, collettivamente, la filosofia della comunità, scandendola parola per parola, e affidando agli utenti il compito di inciderne le principali massime sulle porte e sui muri. Quando negli anni ’90 leggevamo del modello Toyota, con gli operai che prima di cominciare a lavorare cantavano l’inno aziendale, pensavamo che il Giappone fosse fortunatamente lontano. Oggi è qui, davanti a noi, dentro l’incubo dell’industria della riproduzione.

 

La lunga giornata di un operatore, qui descritta in modo sommario, non finisce certo qui. Ci sono infatti le “supervisioni sui casi”, cioè sugli utenti, con uno psichiatra. Costui possiede una clinica privata dai lucrosissimi profitti, che guarda caso manda i propri pazienti proprio alla comunità di cui lo psichiatra padrone è consulente. Prima di addentrarci nel merito di questa supervisione, vale qui la pena di completare il quadro dei consulenti professionali con il profilo della psicologa, appartenente a una famiglia dell’alta borghesia ex Pci e ora Pd, che grazie alla sua affiliazione politica e alla stirpe parentale ha occupato posizioni di potere nei Sert regionali. (Per rassicurare i sinistri che, arrivati a questo punto, tenteranno ancora di dire che “mica tutte le cooperative sono così, stai generalizzando, esistono quelle con un vero spirito ecc. ecc.”: la psicologa, oltre a rimarcare a ogni piè sospinto la propria collocazione politica, cita Basaglia ben più di quanto il prete-imprenditore citi Dio.) Avrete già capito, cari lettori e care lettrici, come si completa il cerchio: anche la psicologa incanala gli utenti dei Sert verso la comunità di cui è consulente. Pubblico, privato, privato sociale: il business passa attraverso linee familiari e personali, in cui a fare rendita e profitto sono sempre gli stessi. La famiglia comunitaria diventa sacra famiglia castale.

Torniamo alla supervisione, complementare all’altra nella patologizzazione dei comportamenti di utenti e operatori, di eventuali forme di dissenso o di potenziale devianza dalle regole stabilite. Tale patologizzazione comunitaria riceve qui una formalizzazione pseudo-scientifica, fondata su un freudismo da supermercato. È un assioma che il tossicodipendente abbia dei problemi irrisolti con i genitori, in particolare con la madre. Ergo, gli operatori e soprattutto le operatrici devono suturare questi buchi affettivi. Da qui in avanti, è tutto un etichettamento. L’eroinomane è un “falso sé”, come se esistesse un sé vero e come se il povero Goffman con la sua teoria delle maschere fosse vissuto invano. Il cocainomane ha “una struttura di personalità narcisistica”, sostiene con noncuranza il tronfio psichiatra gongolando nell’ascolto delle sue parole. Una delle etichette più divertenti è quella di “anti-sociale”, appiccicata d’ufficio a chiunque sia transitato dalla galera o delle aule di un tribunale. Di un ex rapinatore la psicologa ha detto che al momento il suo problema principale non è il craving da cocaina (il craving è la smania incontrollabile di usare una sostanza da cui si è dipendenti); il suo problema principale è che, passeggiando per le vie del centro, gli viene il “craving da rapina”. Penso ancora una volta, ingenuamente, che stia scherzando: i volti di approvazione dei colleghi mi dicono che non è così. Questo ex rapinatore ha iniziato la sua attività illegale per non fare il lavoro del padre ai mercati generali, una vita di sacrifici a spaccarsi la schiena; la cocaina non gli è servita per condurre questa attività, al contrario gli ha fatto dilapidare tutto e l’ha riportato qui, nel regno delle regole e dell’accettazione. Ora, nella comunità gli spiegano che il suo desiderio di non fare una vita di sacrifici, subordinazione e schiena rotta era malsano, la causa di tutti i suoi problemi. Lavora e finalmente reinserisciti in questa bella società, nel posto che ti è assegnato per appartenenza di classe.

Si badi pure che questi custodi integerrimi della legalità costituita diventano meno inflessibili quando si fa loro notare che la quotidiana gestione della struttura è piuttosto anomala rispetto alle leggi: ad esempio rispetto alle norme di sicurezza, della privacy degli utenti o alla somministrazione dei farmaci e del metadone. E ovviamente i diritti dei lavoratori vengono sistematicamente violati o quantomeno aggirati: i contratti vengono firmati alla cieca, magari dopo diverse settimane dall’effettiva presa di servizio; le mansioni che puoi svolgere sono decise esclusivamente dall’arbitrio della direttrice; mezzore e ore in più non vengono conteggiate, e via di questo passo. Tant’è, ti fanno capire, qua comandiamo noi e quindi siamo noi la legalità costituita.

Infine lo psichiatra, lui sì gonfio del suo ego, suggerisce come approcciarsi ai tossici. Tra risate e battute sprezzanti (riservate a proletari e sottoproletari, perché invece quelli di famiglie benestanti vengono obbligatoriamente trattati con i guanti bianchi), lo psichiatra consiglia di non rivolgere la parola a tizio per punirlo di qualcosa, di “fare ulteriormente regredire” caio a uno stadio infantile così non si monta la testa, oppure di infliggere a sempronio delle “ferite narcisistiche”, che tradotto in parole povere significa umiliarlo pubblicamente. Inoltre, sulla base delle etichette appiccicate agli utenti, il più delle volte senza nemmeno che lo psichiatra si degni di vederli o di sapere che faccia abbiano, vengono prescritte le terapie. Mi è capitato di vedere utenti bombati di psicofarmaci perché il loro comportamento non è gradito ai vertici, perché poco simpatici, o per episodi di supposta indisciplina presentati come sintomi di disturbi della personalità. La patologizzazione e medicalizzazione del dissenso, in ogni sua forma, è a questo punto quasi completa.

 

Resta almeno un capitolo da affrontare, decisivo: la gestione della razza e la costruzione dei processi di razzializzazione. Alla psicologa piace avere degli utenti migranti, magari anche provenienti dal carcere. La sua coscienza di sinistra si riempie di orgoglio, nutrendosi di buoni sentimenti, così come quando presta dei soldi a degli spiantati. Del resto nelle riunioni di equipe, spesso, i primi dieci minuti sono dedicati a parlare male del governo e a insultare Salvini. Le cose iniziano a cambiare quando i migranti, da angeliche figure di vittime, iniziano a incarnarsi e a non essere più così meritevoli della nostra compassione di salvatori di anime e di umani. Una ragazza di origine nigeriana, cresciuta in Italia fin da quando aveva pochi mesi, si ostina a dire di voler fare pugilato, cosa che non si addice affatto alla sua femminilità. Allora si decide che deve fare danza africana, per poter recuperare le sue mitologiche radici. Quell’altro, maghrebino, fino a poco tempo fa si era comportato bene, ma ora inizia a dare segni di squilibrio. Come tutti “loro”, è chiaramente affetto da psicosi, che prima o poi arriva. La psicologa supporta le sue affermazioni con una supposta evidenza empirica: “Io ho una vicina di casa marocchina, perfino laureata, che da qualche tempo ha dato di matto e gira per strada con un coltello”. Allora giù di psicofarmarci e ricoveri psichiatrici.

E poi c’è un tunisino, sbarcato a Lampedusa all’età di 16 anni, passato per centri di detenzione e carcere. Sulle sue braccia risaltano i segni dei tagli che si è fatto: sono, come dice lui, “i segni della sofferenza che sono incisi sulla mia carne”. L’assistente sociale che per la prima volta è andato a visitarlo in carcere, dove era trattato come una bestia, l’ha trovato con la bocca cucita: “Mi volete muto? Eccovi accontentati”. Non ha mai piegato la testa, continua a non piegarla. “L’orgoglio è l’unica cosa che mi resta, è anche la più importante. Perché voi, direttrici, psichiatri e psicologi, potete avere tutti i soldi che volete o i macchinoni, ma morirete esattamente come morirò io”.

Questa persona è detestata dall’equipe, nessuno la può sopportare. Perché? Perché non accetta l’autorità, osa ribellarsi, non riconosce agli operatori il ruolo di salvatori della sua anima. Anche la psicologa lo ricaccerebbe volentieri in carcere, perché non le consente di essere la buona samaritana di sinistra. I commenti informali, le decisioni formali e le angherie quotidiane che la comunità gli infligge farebbero impallidire lo stesso Salvini. La direttrice più volte ha spiegato, ridendo in modo sguaiato, che “fosse per me lo metterei su una barchetta e lo rispedirei da dove è venuto”. La scorsa estate, durante un’uscita, un italiano si è fermato davanti a lui e gli ha sputato in faccia senza alcun motivo, se non per il colore della sua pelle. “Ma cosa vuole questo qui, sai quanti sputi si sono presi gli italiani che andavano all’estero!”.

L’accusa che gli viene mossa è infatti quella di vedere razzismo e discriminazione ovunque. Poco conta dire che il razzismo e la discriminazione esistono (ma come, improvvisamente vi dimenticate che il ministro degli interni italiano è Salvini?). E ancora meno ha peso provare a contestualizzare il suo percorso nella sua biografia soggettiva. Il verdetto su di lui è già stato espresso, e alla diagnosi scientifica provvede l’ineffabile psichiatra: “disturbo di personalità tunisino” (ve lo giuro, non sto scherzando o esagerando, lo ha definito così). Di fronte a questo lombrosismo 2.0, il povero leader leghista è definitivamente scavalcato sul versante reazionario.

Non ha valore neppure il fatto che questa persona non abbia più toccato sostanze stupefacenti. Non solo non ha avuto ricadute, ma in più occasioni ha impedito ad altri utenti di usare droga. Quando sollevo questo argomento, che mi parrebbe piuttosto dirimente in una comunità terapeutica per tossicodipendenti, la direttrice e la sua corte mi guardano con un misto di stupore e sarcasmo, come dire: e allora? Di fronte alla mia insistenza, rispondono che lui non è una persona riconoscente nei nostri confronti, non ci dice mai grazie e non riverisce l’autorità. Ovvero: non ci dà quel salario psicologico che gratifica il nostro narcisismo e ci permette di sopportare il lavoro di merda che facciamo. Non si comporta – per dirla con Malcolm X – come un bravo negro da cortile, che ci fa sentire buoni e salvatori. Per rafforzare l’accusa, viene tirato fuori anche una subdola posizione femminista, attribuendogli un sessismo ontologico per la sua (ancora una volta mitologica) “cultura di provenienza”, per quanto non abbia mai avuto atteggiamenti irrispettosi nei confronti delle operatrici. Infine, arriviamo ancora una volta al punto, che la direttrice esprime in modo chiaro: “è meglio uno che ricada nell’uso di droghe ma rispetta le regole, piuttosto che uno che non usa droghe ma non rispetta le regole”. La comunità è un dispositivo di normalizzazione e accettazione delle regole e dello sfruttamento della società capitalistica, il resto – ivi comprese le sostanze – sono un corollario.

Io mi batto, assumendomi le dure conseguenze lavorative, dalla parte del soggetto razzializzato e contro l’industria del sociale che lo razzializza. I compagni che difendono l’industria del sociale, per ideologia e/o perché ne godono i privilegi, da che parte stanno? La risposta non mi sembra difficile da trovare. Dalla parte della razzializzazione del soft power, in alternativa alla razzializzazione dell’hard power. Soft è chiaramente una mistificazione lessicale, che copre e consente rapporti di sfruttamento ancora più intensi e subdoli. Così, gli operatori di alcuni sindacati di base scendono in piazza con i padroni delle cooperative contro il decreto sicurezza, senza rendersi conto, o meglio fingendo di non rendersi conto che le cooperative sono la realizzazione dei desideri del governo leghista, perché fanno, in termini di normalizzazione, controllo e disciplinamento, quello che gli altri non potrebbero nemmeno osare immaginare.

Insomma, la mission della comunità è salvare anime e vite umane. Precisando che è l’umano che vuole e serve al capitale, quello plasmato all’accettazione dei rapporti di sfruttamento. Anzi, li salvano proprio per questo. Agli altri, irriconoscenti come il tunisino, va ricordato – come ha fatto un’operatrice – che la vita di merda che fa è tutta colpa sua e di nessun altro. Ancora una volta imprimitelo bene in testa: sono le persone come te che fanno schifo, non il mondo. Il tunisino, dopo la rabbia, trova il modo di ridere in faccia a quel mondo: “tu pensi di essere libera ma non lo sei, ogni giorno commetti un sacco di reati e non te ne accorgi nemmeno”.

 

La giornata volge finalmente al termine, dopo aver fatto eseguire i turni di pulizia, svolto mansioni banalizzanti, ingoiato e aver fatto ingoiare regole stupide e inutili, parlato ed essere parlato dalla neo-lingua comunitaria (stai sulla tua frustrazione, ferma e confronta chi ha fatto delle trasgressioni, smaschera il falso sé, ordina una risoluzione, cioè una punizione, ecc.). Mi avvio verso la timbratura del cartellino, ma prima c’è il “passaggio di consegne” con l’operatore notturno, che fa da sola 12 ore filate senza pausa con circa 40 utenti (non so se ciò stia nei limiti del pessimo contratto collettivo nazionale, sicuramente non sta nei limiti della sicurezza dei lavoratori). Il “passaggio di consegne” non è compreso nell’orario di lavoro, poiché un operatore termina alle 20 e l’altro comincia alle 20. Anche in questo caso, quarti d’ora o mezzore intere vengono regalate ai padroni.

Ok, per ora mi fermo qui, anche se ci sarebbe molto altro da dire. Però è tanta la stanchezza, mia e immagino anche vostra, dopo avermi seguito negli inferi dell’industria della riproduzione per osservare da vicino come si produce soggettività accettante e sottomessa. E domani si ricomincia. Chi ha avuto la pazienza di seguirmi in questo segreto laboratorio, può forse aver maturato l’idea di un’industria senza possibilità di conflitto. Penso che si sbagli. Il sistema ha delle evidenti fragilità, se solo vengono praticate. D’altro canto, il conflitto è talmente impensabile da divenire destabilizzante anche solo se accennato. E dopo una giornata così, anche a me è venuto il craving: il craving da lotta di classe. Ma di tutto questo, forse, nella prossima puntata.