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L’enigma dell’organizzazione

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Matteo Montaguti recensisce il libro di Marco Scavino “Potere operaio. La storia. La teoria, vol. I” (Derive Approdi 2018)

«Compagni, l’unico modo per non correre rischi è di andare a pescare trote nel lago di Garda, in tutte le altre occasioni si corrono dei rischi».

È in questa frase, che l’autore di Potere operaio. La storia. La teoria, vol. I (Derive Approdi 2018) riporta e ipotizza attribuibile a Guido Bianchini – uno delle figure maggiormente decisive di questa storia collettiva e colpevolmente meno approfondite dalla ricerca degli storici –, che può essere riassunto il senso della parabola nazionale dell’organizzazione più intelligente, contraddittoria, sofferta e intransigente che nella prima metà degli anni Settanta più si è fatta erede – legittima o meno – degli strumenti temprati dall’operaismo politico degli anni Sessanta. Il rischio di chi tenta di anticipare una linea di tendenza, di chi osa agire una scommessa politica, di chi mette in gioco la propria vita attraverso la militanza, ma soprattutto il rischio di misurarsi con il nodo  dell’organizzazione rivoluzionaria dell’autonomia operaia e proletaria, il vero filo rosso – mai sciolto – che accompagna la vicenda che va dall’operaismo all’Autonomia e che sostanzia in tutta la sua complessità l’esperienza di Potere Operaio in un periodo e in un contesto storicamente determinati.

Il (primo) libro su Potere Operaio di Derive Approdi, quindi: era ora, fatecelo dire. Un libro necessario e molto atteso, la cui assenza si è fatta sentire sugli scaffali sia dello storico che del militante, di fianco ai volumi che la casa editrice romana ha già pubblicato sull’operaismo, sugli autonomi, sulle riviste e sui movimenti del “lungo ‘68”, e di recente sulle organizzazioni armate degli anni Settanta. Un vuoto che l’autore ha iniziato a colmare con rigore analitico e capacità di sintesi, raggiungendo l’obiettivo di fare luce, finalmente con gli strumenti scientifici del metodo storiografico e non con quelli spuntati del giornalismo, sui nodi – appunto, irrisolti – di un’esperienza paradigmatica per i suoi caratteri di approfondimento e anticipazione di «una storia molto più grande» (p. 26).

Scavino non poteva che cominciare con il ripercorrere la partecipazione da protagonisti di diversi militanti tra i più significativi di Potere Operaio all’apprendistato operaista nel decennio precedente la formazione del gruppo. La parabola di Potere Operaio, infatti, affonda le propri radici teoriche e politiche nel “ritorno a Marx” degli anni Sessanta, un tentativo di svecchiare, de-ideologizzandolo da dogmi e incrostazioni, il marxismo professato dal Movimento Operaio ufficiale, ancora incagliato su categorie e letture di matrice terzinternazionalista non più adeguate a interpretare e agire l’inedita situazione di classe venutasi a creare in Italia dopo la risposta capitalista alla precedente fase di lotte operaie, risposta passata mediante l’innovazione fordista-taylorista della fabbrica e, di conseguenza, della società. «Non si poteva più fare riferimento ai modelli di rivoluzione e di organizzazione del passato, proprio perché erano cambiate le basi materiali, di classe (la composizione politica, appunto) del movimento» (p. 57): stava qui uno degli aspetti più di rottura della prassi operaista mutuata da Potere Operaio. È in quel contesto che piccoli gruppi di militanti-intellettuali – più o meno emarginati dalle organizzazioni della sinistra, Partito comunista e Cgil in primis – riuniti intorno a riviste come «Quaderni rossi» e «Classe operaia» elaborano le coordinate di un punto di vista, di un metodo di lavoro e di uno stile della militanza comuni (sia nell’intervento politico di massa che nel suo rapporto con la ricerca teorica) che verranno poi trasmessi e rielaborati da Potere Operaio, e attraverso questa socializzazione – passata attraverso anche uno sterminato apparato di fogli di lotta, opuscoli, riviste e pubblicazioni – sarebbero diventati una cultura politica diffusa tra le nuove generazioni di militanti politici di classe formatesi durante e dopo il biennio rosso 1968-‘69. Composizione e ricomposizione di classe, operaio-massa, rifiuto del lavoro, piano del capitale, autonomia operaia sono un patrimonio comune del lessico politico del movimento rivoluzionario degli anni Settanta, armi concettuali forgiate in quella incredibile stagione di intervento, conricerca e partecipazione dentro ai conflitti operai nelle fabbriche di Torino, Milano, Porto Marghera, Ferrara, Modena.

È già in questo primo passaggio, in cui i militanti operaisti intercettano l’emergere di una conflittualità operaia espressa in lotte e comportamenti spuri e ambigui ma sempre più radicali, diffusi ed efficaci, che si pone la questione dell’organizzazione: «Per tutti era in corso un processo di ricomposizione politica delle lotte, ma la discriminante era ormai netta: riguardava il rapporto con le organizzazioni, la possibilità di lavorare al loro interno per modificarne le scelte e gli orientamenti strategici, o al contrario la scelta di stare dentro il fenomeno tumultuoso del movimento per farne un soggetto rivoluzionario di massa autonomo e alternativo» (p. 51). Se per alcuni, come Tronti, l’internità al movimento operaio ufficiale non sarebbe mai stata messa in discussione, per il gruppo veneto-emiliano – l’unico con un significativo e concreto radicamento di intervento in realtà operaie – era l’internità strategica ai reali movimenti della classe e alle dinamiche tendenziali del conflitto il terreno su cui basare ogni ipotesi di intervento, di sviluppo organizzativo e di potere. L’autore di questo importante sviluppo ne dà conto, dilungandosi con estrema chiarezza sui motivi per cui la postura operaista, per propria sua natura, non avrebbe potuto cristallizzarsi in una semplice scuola filosofica di pensiero, in un’ennesima eresia settaria del marxismo o in uno dei tanti tentativi di creare un’area di dissidenza alla sinistra del movimento operaio ufficiale. 

Dalla ricognizione di tale prassi metodologica Scavino passa così a descrivere la formazione, ben prima dell’autunno caldo del 1969, del Potere Operaio veneto-emiliano, un’embrionale forma di rete stabile, coordinata dall’omonimo foglio di lotta, fra organismi di base disseminati tra i poli chimici di Porto Marghera e Ferrara e la piccola fabbrica diffusa emiliana. Il  network  aveva lo scopo di sostenere – approfondendola, allargandola e dispiegandola – quella «spontaneità organizzata» cifra della nuova e sempre più montante conflittualità autonoma operaia, sfuggente al controllo delle organizzazioni della sinistra, considerate come soggetti passati a cogestire lo sviluppo del piano del capitale con il compito di controllare e mediare le lotte per incanalarne la forza su programmi di soluzione riformista della crisi e innovazione capitalistica.

Lo storico qui mette in risalto il diverso piano d’intervento su cui agivano i militanti veneto-emiliani di Potere Operaio: la concezione dell’organizzazione e i compiti della militanza appaiono trarre significato piuttosto dal loro porsi come agenti catalizzatori al servizio e in funzione della ricomposizione di classe che nell’orizzonte di accrescimento geometrico della propria singola formazione. Ovvero, «l’alternativa non era creare dei piccoli gruppi minoritari, ma conquistare una posizione di forza nelle lotte, dalla quale contendere a partito e sindacato la direzione politica dello scontro di classe» (p.75), attraverso cui tradurre l’autonomia di classe, le sue forme di massa e i suoi contenuti rivendicativi (meno lavoro, più salario uguale per tutti) in un programma operaio di rottura degli equilibri generali del sistema. Un modello ben distante dalla prassi che avrebbe caratterizzato la militanza nei gruppuscoli e partitini della sinistra estrema o extraparlamentare.

L’incontro/scontro del metodo veneto-emiliano con nuclei militanti di Torino e Milano e il movimento studentesco del 1968 – soprattutto quello romano e fiorentino, con cui nacque nella primavera del 1969 il progetto de «La Classe», giornale che voleva essere mezzo di circolazione e generalizzazione delle lotte per stimolare l’elaborazione di linea politica nel movimento – è illustrato da Scavino come il fattore determinante che permise alla teoria operaista di farsi politica di massa, contaminandosi e rielaborandosi con la carica e le istanze apportate dalle nuove generazioni militanti davanti alle fabbriche: l’attitudine antiautoritaria e assembleare degli studenti, la riflessione sull’istituto capitalista della scuola, l’analisi di nuove figure centrali come i tecnici  si fondevano con lo la prassi che aveva conricercato lo spontaneo egualitarismo e il rude materialismo pagano dei loro coetanei costretti alla catena di montaggio.

L’impalcatura portante di Potere Operaio, come organizzazione politica nazionale nata nel settembre-ottobre 1969 e disgregatasi tra 1973 e 1975, prende forma proprio qui, nella straordinaria stagione del terremoto operaio del 1968-’69, con suo epicentro Torino: nasce tra l’intuizione editoriale de «La Classe» e l’esplosione della rottura anticipata dei contratti, tra il lavoro di porta ai cancelli di Mirafiori e le barricate della battaglia di corso Traiano, tra le riunioni notturne dell’Assemblea operai-studenti e il fallimento di costituire un’organizzazione politica nazionale attorno ai comitati di base operai al Convegno delle avanguardie al Palazzetto dello sport. Una stagione che il gruppo in formazione ha vissuto in prima linea, riuscendo in modo decisivo a influenzare la circolazione dei contenuti più avanzati e unificanti, la radicalità delle forme di lotta praticate a livello di massa e, per certi momenti, anche la direzione politica delle avanguardie autonome di un movimento di classe dalle dimensione e dalle caratteristiche mai viste in precedenza –  tutto ciò, almeno, nelle fasi iniziali dello scontro che diedero il via all’autunno caldo.

È a questo punto che il lavoro di ricostruzione e interpretazione di Scavino entra nel vivo del «carattere irrisolto» (p. 26) di Potere Operaio: se nello stesso nome del gruppo «si poneva in tutta la sua drammaticità storica il problema di trovare uno sbocco rivoluzionario, di potere, alle lotte operaie e proletarie» (p. 25), è in tale determinata fase dello scontro di classe in corso – quella della controffensiva sindacale e riformista delle sinistre per recuperare, gestire e rendere compatibile la grande forza accumulata dalla conflittualità operaia della primavera, del conseguente “riflusso” (relativo) dell’iniziativa autonoma rinchiusa dentro la fabbrica e del domandarsi soggettivamente “che fare?” dopo la chiusura dei contratti, insanguinati dalla strage di Stato di Piazza Fontana e dall’inizio della “strategia della tensione” – che si presenta alle avanguardie in tutta la propria urgenza la necessità di ridefinire i compiti e il senso soggettivi della militanza e sciogliere il nodo dell’organizzazione, quello dell’organizzazione dell’autonomia, o meglio: sbrogliare il nodo del rapporto lotte-organizzazione e della sua generalizzazione, oltre i cancelli delle fabbriche, sul terreno sociale complessivo, un rapporto considerato non come predeterminato o un a priori teorico-pratico, ma come una relazione sempre cangiante tra la composizione politica di classe di una determinata fase del ciclo storico e l’enigma concreto della rottura rivoluzionaria – pensata come, è importante ribadirlo, sempre situata e  praticata a livello di massa – in un contesto di capitalismo avanzato.

Scavino è bravo a ripercorrere l’estrema complessità del dibattito sviluppatosi all’interno di Potere Operaio e ridare il senso delle sue incertezze, controversie e limiti con notevole capacità di sintesi esplicativa, anche se in tale frangente un lettore attento (e pignolo) avrebbe potuto apprezzare un ulteriore approfondimento delle differenti posizioni politiche avanzate dalle corrispondenti componenti territoriali che si videro scontrarsi, a partire dal primo convegno nazionale d’organizzazione (Firenze, 9-11 gennaio 1970). È da questa occasione che, lungo un percorso travagliato e ricco di rotture, anche sofferte, va definendosi un salto di qualità organizzativo attraverso un’originale rilettura di Lenin, introducendo nel patrimonio di Potere Operaio «un punto di vista inconsueto per la tradizione teorico-politica» alla quale il gruppo si richiamava. Secondo  i sostenitori di tale svolta con la tradizione operaista maturata negli anni precedenti, «se i movimenti di classe […] arrivavano a porre all’ordine del giorno la questione del potere, era inevitabile che si dotassero di strumenti organizzativi adeguati allo scopo; ed era in questo senso che andava recuperata la lezione storica del leninismo […]. Non si trattava, beninteso, di fare delle fughe in avanti, di costruire piccoli apparati slegati dai livelli di massa dello scontro» (p. 136), o di diventare l’ennesimo «partitino» ideologico e burocratizzato dell’estrema sinistra, ma di riuscire a determinare, dal suo interno, processi di ricomposizione e direzione politica del movimento di lotta espresso dall’autonomia operaia e proletaria attraverso l’organizzazione soggettiva – ecco il compito dei militanti di Potere Operaio –  di occasioni, «scadenze», di scontro di massa generalizzato su obiettivi e parole d’ordine unificanti (come il «salario politico» per tutti sganciato dal lavoro): non più solo contro il singolo capitalista in fabbrica, ma anche contro l’organizzazione collettiva dei capitalisti, lo Stato. Come spiega l’autore, «si trattava di prendere atto […] che il rapporto lotte/organizzazione andava riconsiderato nel suo complesso, tenendo conto di quanto era emerso con chiarezza dalla vicenda contrattuale, e cioè il passaggio Dalla guerriglia di fabbrica alla lotta per il potere (per usare uno dei titoli più suggestivi del giornale) non si sarebbe verificato facilmente, per il solo diffondersi e massificarsi dello scontro sociale e delle forme di organizzazione materiale delle lotte, ma richiedeva un nuovo “salto di qualità” politico e programmatico del movimento» (pp. 157-158). Come sappiamo, nella materialità delle cose le intenzioni di potere Operaio non si sarebbero viste realizzate.

È su tale punto, sull’«agire da partito» così elaborato, all’interno di una situazione di alta conflittualità scaturita da quello che veniva equiparato a un 1905 operaio in un contesto di capitalismo avanzato, che il gruppo avrebbe misurato la propria capacità di pensare la rivoluzione e la militanza rivoluzionaria in forma inedita rispetto alla scolastica terzinternazionalista o alle suggestioni terzomondiste, e in ultima analisi i propri limiti, le proprie derive e la propria impasse, che già cominciavano a prefigurarsi nel tormentato dibattito – non solo sull’organizzazione, ma anche sulla lotta armata –  descritto da Marco Scavino in questa prima parte della sua storia di Potere Operaio, che arriva fino al gennaio 1971, considerato dall’autore come uno spartiacque.

Aspettando con impazienza la seconda parte, che sicuramente sarà all’altezza della prima, concludiamo precisando che il nodo irrisolto dell’organizzazione – attraverso la cui lente è stata scritta questa recensione – è solo una delle questioni centrali attraverso cui la ricostruzione della breve ma intensa parabola di Potere Operaio può aiutare a comprendere, senza strumentali demonizzazioni, la complessità dei movimenti di classe che hanno caratterizzato gli anni Settanta. Una conflittualità diffusa e di massa dalle radici lunghe, non solo operaia, che durante il decennio sarò arricchita dall’emergere di istanze e bisogni di altri soggetti e generazioni che con forza prenderanno parola, decretando l’implosione e il superamento delle ipotesi organizzative nate sull’onda del biennio 1968-’69.

Potere Operaio, qui considerato non come un nucleo di professori e “cattivi maestri” staccati dalla realtà sociale del proprio tempo, ma come l’insieme di tutte e tutti i militanti che, ad ogni livello, ne hanno soggettivamente costruito, partecipato per un pezzo o accompagnato fino in fondo la traiettoria rischiando dall’interno dei processi di lotta di massa dati in un periodo e in un contesto storicamente determinati, rimane attore non secondario e paradigmatico di questa storia, quella degli anni Settanta, ancora oggi irrisolti per le questioni (tutt’ora attuali!) che hanno posto e forse per propria natura irrisolvibili – come tutti quegli squarci d’epoca concretamente di rottura con l’esistente – in una memoria d’ordine pacificata. 

Da un punto di vista militante, d’altronde, non è la quiete che si ricerca, ma la tempesta: compito della storia militante, quindi, non sarà quello di rendere asettico e inoffensivo l’oggetto del proprio racconto, ma di comprenderne le ragioni, le pratiche e i limiti espressi nel passato per distillare metodo, strumenti e prospettive efficaci per l’agire nel presente, consapevole, in questo modo, di riannodare i fili ancora vivi di una memoria – e di una storia – di parte.