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I gilets degli altri sono sempre più gialli

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L’insorgenza dei gilets gialli in Francia ha ottenuto un’importante vittoria contingente, piegando il governo e obbligandolo a ritirare l’aumento della benzina e delle accise. Il risultato è stato ottenuto non attraverso i canali della rappresentanza o della presa di parola democratica, bensì attraverso settimane di scontri con la polizia, barricate, blocchi della circolazione e distruzione di svariati e molteplici obiettivi, non necessariamente coerenti tra di loro, così come niente affatto coerente è la caotica composizione che si è mobilitata. Solo i prossimi giorni ci potranno dire se questa vittoria esaurisce il terreno dello scontro sociale aperto, o se invece costituisce una base da cui rilanciare in avanti.

Sulla solita domanda chi siano i gilets gialli non ci dilunghiamo per due motivi. In primo luogo perché lo hanno già illustrato diverse analisi, a cominciare da quella dei compagni di Rouen Dans la Rue. Un’analisi, si badi bene, fatta con capacità di anticipazione rispetto all’esplosione dell’insorgenza. Fatta, anzi, quando molti di coloro che oggi saltano sul carro dei vincitori accusavano i gilets jaunes di essere fascisti e reazionari. E qui arriviamo al secondo motivo che ci consente di dare per assodata la risposta. Da anni sosteniamo – dal punto di vista dell’analisi, della ricerca militante e delle scommesse di intervento politico – la centralità politica della crisi del ceto medio, cioè di quel processo fatto di declassamento e impoverimento materiale, di frammentazione e polarizzazione di una figura che non è mai stata omogenea, di tradimento di una promessa incentrata sullo scambio tra status e obbedienza, tra garanzia di una forma di vita e ruolo di stabilizzazione sociale, tra riconoscimento dei privilegi e ordinata riproduzione dell’esistente. Nel momento in cui il ceto medio entra in crisi di mediazione, abbiamo più volte ripetuto, si apre uno straordinario spazio di conflitto che è aperto a direzioni non solo differenti ma inevitabilmente contrapposte. Alla polarizzazione interna al processo di frantumazione del ceto medio, infatti, corrisponde una polarizzazione del conflitto: per necessità di semplificazione espositiva diciamo che può andare in direzione reazionaria o rivoluzionaria, radicalmente egoistica o radicalmente ricompositiva. Sicuramente, almeno nel breve e medio periodo, non hanno cittadinanza opzioni di moderazione riformistica e democratica, di sinistra o di destra. Sicuramente, affermiamolo ancora più esplicitamente, non ha più spazio la dialettica tradizionale tra sinistra e destra. Proprio la Francia, dove tale dialettica è nata prendendo il nome di sinistra e destra dalle posizioni occupate nell’emiciclo parlamentare, rende esplicito una volta di più il suo esaurimento.

Nelle strade e nelle piazze d’oltralpe in queste settimane non c’erano solo le figure di questo ceto medio impoverito e in crisi di mediazione, certo. C’erano di volta in volta, a seconda delle città e delle aree urbane del conflitto, differenti segmenti proletari e sottoproletarizzati, stratificati e messi in tensione dal punto di vista generazionale e razziale. Proprio la ricomposizione tra il ceto medio in crisi di mediazione e un proletariato privato di futuro è, dicevamo già diversi anni fa, il punto politico decisivo dei movimenti nella crisi. A ciò alludeva il ciclo di movimento occupy, senza tuttavia riuscire a praticarlo. Erano quelle ancora piazze troppo omogenee per essere ricompositive, troppo pulite per praticare la rottura, troppo di sinistra per essere rivoluzionarie. Così, già a partire dal 2012, grazie ai compagni di Palermo abbiamo cominciato a ipotizzare che stesse arrivando il “tempo dei forconi”, cioè che le caratteristiche soggettive e sociali che abbiamo visto con forza quell’anno in Sicilia e nel dicembre dell’anno successivo in particolare a Torino, prefigurassero e anticipassero tratti paradigmatici centrali dei movimenti a venire.

Attenzione, sia chiaro. Non stiamo affatto dicendo che insorgenze come quelle dei gilets gialli abbiano compiuto e risolto il nodo della ricomposizione. Stiamo semplicemente affermando che dentro questo terreno si è materialmente e spontaneamente posto.

Sostenere questo, però, significa fare piazza pulita del feticcio della purezza. Quando si dà un terreno di potenziale ricomposizione, esso è necessariamente contraddittorio, popolato di sporcizia e di merda. Non lo diciamo perché ci piace, lo diciamo perché è nelle cose. Come è possibile che dalla merda di trent’anni di ristrutturazione capitalistica e da dieci anni di crisi devastante, emergano per incanto soggettività belle e profumate? Il fatto che ci siano dentro a questa mobilitazione figure che vanno dietro alle promesse dei reazionari che si dichiarano anti-establishment (strumentalmente, ovvio, abbiamo bisogno qui di ribadirlo?), è per noi ciò che la rende terribilmente e maledettamente importante. All’oggi, al contrario, diffidiamo delle “mobilitazioni” pure e omogenee, perché si tratta di autorappresentazioni. E nell’autorappresentazione non si pone mai il nodo della ricomposizione, a meno che con questo termine non si intenda mistificatoriamente la sommatoria e l’alleanza di gruppi che si autoproclamano rappresentanti di segmenti sociali. La ricomposizione significa sempre contraddizione e conflitto interno, rottura non solo con la propria controparte ma anche dentro la composizione sociale originaria, quella formata dal capitale e dai suoi processi di soggettivazione.

Insomma, i gilets gialli non sono indignati: sono incazzati come bestie. Sanno confusamente contro chi lottano, non sanno ancora con chi lottare. Che direzione prenderanno questo tipo di mobilitazioni e di insorgenze dipende anche da “noi”, dalla nostra capacità di stare dentro e contro: dentro e contro la composizione sociale, dentro e contro i movimenti (quelli reali, intendiamo, non la loro autonominata rappresentanza). Per provarci dobbiamo certamente sbarazzarci di un atteggiamento istintivo: la ricerca di rassicurazioni. Molte analisi sembrano partire da una premessa corretta nella lettura della composizione delle piazze (in cui fondamentalmente si prende atto con colpevole ritardo di ciò che insieme a minoranze di compagni e compagne diciamo da diversi anni, incuranti delle etichette e delle scomuniche ricevute dalle parrocchiette di “movimento”), per arrivare a conclusioni ancora una volta sbagliate, dettate da cattiva coscienza e opportunismo. Così, per rassicurarsi di fronte al volto mostruoso dei gilets gialli, si cercano i propri simili: e allora sì vanno bene perché c’è la Cgt, ci sono i gruppi dei nostri amici, c’è una piattaforma a nome di non si sa chi in cui ci si esprime nei “nostri” linguaggi. Insomma, vanno bene perché c’è la sinistra. Esattamente ciò che, ai nostri occhi alla continua ricerca di potenzialità di rottura, costituisce il tappo da far saltare. Il tentativo di addomesticare la bestia ne ridimensiona la forza.

(Qui può essere utile precisare un punto. Non stiamo affatto sottovalutando l’utilizzo che i lavoratori fanno del sindacato ufficiale, il che è da tempo caratteristica rilevante dello sviluppo delle lotte in Francia. A essere importante, però, non è la mediazione sindacale, bensì l’uso autonomo e spregiudicato delle strutture da parte di pezzi della composizione di classe. Ci pare infatti che all’interno di questi pezzi siano presenti le stesse ambivalenze e ambiguità da cui i gruppi di movimento rifuggono impauriti.)

Cari compagni e care compagne, lasciatevi per una volta produttivamente spiazzare dalla lotta di classe. Abbandonate l’ideologia, sciacquate le vostre fruste categorie nella Senna del conflitto sociale, provate a capire senza edulcorare il volto inquietante e ambiguo del mostro, perché è proprio quel suo essere inquietante e ambiguo che lo rende potenzialmente dirompente per i rapporti di forza e di potere costituiti. Ricordatevi sempre che dove c’è massa non c’è purezza. E chi ricerca la purezza, desidera l’autoreferenzialità e pratica l’ipocrisia.

Allora, invece di dire che la Francia non è l’Italia (merci monsieur de La Palisse!), perché non porsi il problema di fare come i gilet gialli. Non imitare né pensare che la questione sia la riproduzione cromatica dei fenomeni, ma semplicemente imparare dalle lotte e provare a diffondere il bacillo della peste. Recentemente abbiamo ragionato sulla necessità di agire sulle promesse di questo governo (a noi nemico giurato, anche questo abbiamo bisogno di aggiungerlo?), per portarle alle estreme conseguenze e dunque rovesciarle contro chi le ha formulate. Assumendo due presupposti, che oggi dopo la lezione francese riteniamo ancora più validi. Il primo è che la coalizione giallo-verde, nella sua profonda eterogeneità interna, si rapporta a pezzi di composizione sociale che per ora non configurano dei blocchi sociali di consenso politicamente consolidati. Al contrario sono estremamente liquidi e volubili, il che costituisce al contempo un problema e una possibilità. Il secondo presupposto è che l’attuale governo (con significativi tratti comuni rispetto ad alcune tendenze internazionali) mobilita delle aspettative che strutturalmente non possono trovare compimento negli assetti del capitalismo contemporaneo e incompatibili con gli stessi della coalizione. Tali aspettative, dunque, sono occasioni di conflitto che probabilmente assumeranno caratteristiche simili a quelle che abbiamo visto in Francia. I fini espliciti di queste mobilitazioni entrano quindi in contraddizione con la possibilità di realizzarsi: per esempio, il ceto medio che lotta per restaurare la sua condizione e forma di vita si scontra con l’impossibilità di un ritorno al passato. È proprio questa impossibilità di vincere strutturalmente che disegna il nostro spazio di possibilità, ovvero di rovesciare queste mobilitazioni in una direzione differente e opposta. Perché quando si inizia a lottare, la lotta stessa diventa un obiettivo e una forma di vita che può produrre un’eterogenesi dei fini.

Il nostro compito è perciò quello di muoverci nell’ambiguità con sguardo unilaterale. Non glorificando le lotte degli altri per trovarvi tutto ciò che le nostre acrobazie retoriche ci permettono di fantasticare, bensì di utilizzarle come strumento di anticipazione, intervento, scommessa, ovvero di costruzione di processi di rottura e controsoggettivazione. Tranquilli, cari compagni e care compagne, non facciamo appello alla necessità di sporcarci le mani. Per il semplice fatto che, contrariamente alle anime belle del cosiddetto “movimento”, siamo convinti che i rivoluzionari e le rivoluzionarie le mani non le abbiano mai avute pulite.