Stampa

Appunti sui Gilets Jaunes, o il prezzo dell’essenza

on .

Articolo di Massimiliano Cappello sulle mobilitazioni in Francia

Strano. Nonostante l’improvviso gelo novembrino, pare che il gilet catarifrangente scaldi particolarmente negli ultimi giorni. E se come al solito c’è chi, con una certa ottusità mista a malafede, se lo rigira tra le mani e tenta di capire com’è fatto, come si indossa e se ne vale la pena — media mainstream, sindacalisti, le Le Pen e i Mélenchon di turno — basta gettare un occhio altrove per rendersi conto dell’attenzione teorica, strategica e — perché no? — emotiva che il fenomeno Gilets Jaunes sta avendo tra i nostri amici — tra chi, cioè, è alla continua ricerca di un grimaldello di pratiche, linguaggi e saperi che ci aiuti a forzare la porta del presente.

Un’attenzione che per certi versi è circospetta, una forma di curiosità scettica per almeno tre motivi:

1. una contingenza tutto sommato poco attraente — l’aumento del prezzo del carburante

2. i reiterati tentativi di inserimento della destra xenofoba e sovranista — che qualcuno ha preso per ascendenza diretta

3. la questione ecologica: «I manifestanti chiedono di fatto il permesso di inquinare», dice più di qualcuno.

La protesta dei Gilets Jaunes nasce da una petizione lanciata a fine maggio, e rimpallata sui social moltiplicando appelli e petizioni gemelle. La situazione, da metà ottobre in avanti, si evolve velocemente. Misteri della rentrée. Nel giro di qualche giorno c’è una data — il 17 novembre, appunto — e l’invito a esibire il proprio gilet catarifrangente in segno di adesione. L’inserimento a gamba tesa di loschi figuri come Nicolas Dupont-Aignan, Marine Lepen e militanti di estrema destra non si fa attendere.

Già, perché i Gilets Jaunes hanno obiettivi precisi: il tizio antipatico che piace alle banche e le tasse troppo alte. Due piccioni per cui la proverbiale fava fascista non poteva che tentare il tutto e per tutto per rendersi appetibile. Sull’altro lato del ring della rivendicazione, Jean-Luc Mélenchon, nonostante le continue titubanze e l’atteggiamento tutto sommato smorfioso che da sempre lo contraddistingue. Un po’ dentro, un po’ fuori.

Cosa ci dice dunque questo 17 novembre? Che degli invasati stile Forconi sono scesi in corteo, provocando un morto (il conto martedì 21 è salito a 2), 409 feriti e 228 arresti? Che i razzisti xenofobi sponsorizzati dal Front National o gli insoumis inneggianti alla Marsigliese «grandeur della memoria popolare di fronte alla monarchia» (bleah!) hanno tentato una marcia sull’Eliseo? O, forse più banalmente, che un’iniziativa nata contro il caro-carburanti si è trasformata in una giornata di mobilitazione e di blocages in tutto il territorio francese?

Più che inutile, una fenomenologia dei Gilets Jaunes sotto forma di rassegna stampa rischia di non cogliere la complessità di alcune questioni ulteriori e più profonde, che si possono opporre strategicamente alla sfera informativa e che — com’è ovvio — non hanno risposte. Sono note di lettura che possono tuttalpiù generare altre domande.

Al di là di ogni pretesa sociologica, la stragrande maggioranza dei Gilets Jaunes fa parte di un ceto medio «decetomedizzato» — quel processo di impoverimento materiale e di produzione di soggettività non-proletaria incline al populismo xenofobo che distingue al suo interno solo tra soccombenti e sopravviventi[1]. Sono gli abitanti della banlieue e delle zone rurali della Francia, gli auto-entrepreneurs, i disoccupati, gli impiegati in piccole aziende e tutti coloro che attraversano la marginalità nella comune dipendenza dal proprio mezzo. Interrompere la quotidianità — in primis la loro — è un segnale vibrante, così com’è vibrante (e quindi instabile) la loro politicizzazione. «Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano»: ma questo giallo arrabbiato che colore ha?

Nonostante il risveglio del sovranismo e i tentativi dei fachos di cavalcare l’onda delle lotte fiscali, sembra che il discorso reazionario non abbia ancora fatto presa sulla protesta. E questo per una pluralità di motivi. Non sono certo mancate infiltrazioni, aggressioni di stampo razzista, sessista e islamofobo, ma la forte componente razzializzata della protesta e la rincorsa presa dalle lotte sociali degli ultimi tre anni sembrano agire da deterrente a questa deriva.

Dall’altro lato del ring, come si diceva, una jeune fille con i capelli bianchi sfoglia le margherite; tra «m’ama» e un «non m’ama», l’importante per Mélenchon sembra trovare il modo di ammiccare al movimento e al contempo pararsi il culo nel caso in cui venisse nazificata. Ci sono poi gli inviti sindacali all’organizzazione dello sciopero, che lasciano esterrefatti. Come si può ostinarsi a credere che quanto visto sabato non corrisponda già alla forma di azione più naturale suggerita dall’epoca in cui viviamo — quella del blocco? «Il blocco è divenuta la pratica di lotta elementare [...] il che rivela un certo stato del mondo», annotava il Comitato Invisibile in Ai nostri amici (2014). Perché invitare a uno sciopero che appartiene ormai al passato dell’azione contro la valorizzazione del capitale? «Organizzatevi nei vostri luoghi di lavoro», dicono: resta da capire a quali luoghi facciano riferimento. Lo sciopero come gioco di contrattazione qualcosa che non vuole — o non può, data la generale frammentazione del mondo — più fare nessuno. È dunque secondo un criterio di spazialità che si può tentare di inquadrare i Gilets Jaunes. Un diverso modo di abitare lo spazio e di proiettarvisi; un modo di «opporre, al pensiero zonale dello Stato, quello reticolare dell’esperienza del mondo».

Eppure sorge spontanea un’altra riflessione. I Gilets Jaunes sono apparsi sulla scena politica come entità anonime prima che come corpi situati. Una marea annunciata, una bomba a orologeria, o se vogliamo una promessa mantenuta — anche se lo spauracchio del flop si respirava ancora nella mattinata di sabato. Prima ancora che il movimento acquisisse forma corporea, già media e giornali lo dipingevano come un manipolo di balordi anti-ecologisti che volevano preservare il diritto a inquinare tranquillamente. Una continua tendenza a scaricare sul precarizzato il peso della responsabilità per questo stato di cose disastroso, che rende ogni discorso sull’anti-ecologismo più complesso di come si presenti.

Ma in quanto entità prima che corpi, la loro essenza pertiene primariamente a una forma di visibilità, e solo dopo a una forma di spazialità. E questa visibilità è, propriamente, una non-visibilità: la cecità di chi non li vede e quella di chi ancora non si vede. Era Heiner Müller che ricordava l’importanza di localizzare delle isole di disordine, riserve non utilizzate e non consumate di energia, fantasia, bisogni non soddisfatti, concludendo che «finché una forza è cieca, è una forza; non appena sviluppa un programma, una prospettiva, potrà essere integrata e farà parte del sistema». Ora, i Gilets Jaunes sono senza dubbio una forza di questo tipo. Nessuna sorpresa, dunque, se la «sinistra» ha tentennato tanto nei suoi riguardi — «non c’è nulla che il popolo di sinistra tema di più del contatto con l’ignoto»; nessuna sorpresa se la destra ha tentato di intercettarla a più riprese, senza finora avere la meglio. È implicito che, qualora succedesse, questo ne sancirebbe la fine. Ed è questo, curiosamente, il prezzo di questa essenza — ancor più curiosamente simile alla parola francese per «benzina».

Un’ultimo appunto sull’adesso. Stamattina, uscendo di casa, si poteva benissimo assistere a una scena di questo tipo. Scendendo le scale, clacson appassionati sul boulevard. Ma nessun apparente motivo. A sporgersi meglio, la strada è bloccata da un rimorchio verde di quelli del comune che procede a passo d’uomo. A bordo e a lato strada, gente che ha l’aria di non fare nulla. Sull’altro lato, c’è una citycar posteggiata al centro di una piazzetta. La gente passa, si gira, prosegue. Eppure è tutto sotto i loro occhi: sul sedile della citycar e addosso agli uomini del rimorchio c’è lo stesso anonimo ambivalente gilet giallo catarifrangente.

Dunque chi è chi? Chi è operatore e chi Gilet Jaune?
Dunque cosa è cosa? Cosa è un’azione e cosa un’allucinazione?
Ma soprattutto: non è forse questa la consapevolezza che questi due termini non sono più un aut-aut?

Sono molte le domande che dobbiamo porci. E pochi hanno saputo porle in maniera aperta, dubbiosa e sperimentale su un «che fare» di movimento ancor prima che tutto iniziasse. Una problematica che sta tutta in questa frase: «Se la nostra unica reazione di fronte alle decine di migliaia di persone che si stanno organizzando per bloccare realmente l’economia è quella di trattarli come fascisti, allora abbiamo già perso».

L’attenzione verso i Gilets Jaunes rintraccia quindi il politico che permea ogni livello di questo coagulo — questa forza ancora cieca e non direzionata, riserva di energie senza nome e che tuttavia cela alcune linee tendenziali per aiutarci a pensare e attaccare strategicamente i punti nevralgici del nostro tempo. Non sarà un evento — di quelli che riescono a squarciare la tempolinea, per capirci — ma ora sembra che ciò che fanno superi di molto ciò che glielo fa fare.

Sabato 24 è previsto l’atto II. Stiamo a vedere.

 

Alcuni articoli interessanti:

https://dijoncter.info/?chantage-vert-colere-noire-gilets- jaunes-671&fbclid=IwAR3sX0RBJ9aa8XCeqDIsfgN9ho7OBEtCJkyNw9DtVRLM6H2Zzg2B- kCaW3I

https://lundi.am

https://rouendanslarue.net/gilets-jaunes-en-voiture-notes-sur-le-17-novembre/? fbclid=IwAR3jEOHnuppdeYcbxn_P6meX9mFqxLkxI_0jLgKbgnhemDwntlyC6_4wsvk



[1] Nota di lavoro dal report del tavolo «crisi e ceto medio» (Zero, Bologna, 2-3 giugno 2018).