Stampa

Parole situate e politica globale

on .

Riproponiamo un importante articolo di Nirmal Puwar, pubblicato sul n. 23 di «DeriveApprodi» (estate 2003). Costituisce una critica radicale alla ragione umanitaria e alla sinistra sans phrase, con il loro perverso desiderio di «vittimità» dei soggetti razzializzati e delle donne non occidentali.

La teorica postcoloniale Gayatry Spivak fa notare che: «È la donna sottoproletaria urbana a rappresentare il soggetto paradigmatico della Divisione Internazionale del Lavoro» (1988a, p. 218).

Patricia Williams evidenzia una pacata attitudine al «voyeurismo razziale», che a suo dire spinge «autobus carichi di turisti ad accorrere verso le chiese dei neri la domenica mattina a Harlem». Sardonicamente sottolinea che «si tratta di grande teatro, stando alla guida delle attrazioni, quella gente nera tutta in ghingheri, che canta e sviene e poi canta ancora» (1997, p. 19).

Il soggetto nero, la donna subalterna, il migrante e l’esule sono tutti sotto i riflettori. È a queste figure che volgono lo sguardo i media, le agenzie di governance globale e locale, i professionisti del capitalismo multiculturale, gli accademici e gli attivisti. Ciascuno ha un proprio motivo particolare per guardare e cercare. Alcuni cercano di pattugliare i confini, altri di regolare quei corpi il cui lavoro è necessario ma la cui cittadinanza (umanità) è rifiutata. E poi c’è la comunità pretesa di scorgere chi sta dietro al turbante, al velo, al pizzo, a quella pelle non-bianca; il sospetto alimenta pericolo e risentimento. Mentre alcuni di questi corpi sono accusati di arrecare distruzione alla terra promessa, altri – e a volte gli stessi, sebbene con sfumature leggermente diverse – vengono esaltati perché evocano un paradiso tropicale. Colore e aroma avvolgono la metropoli in una fanfara etnica. Black cool, Asian cool: di qualunque cosa si abbia voglia, è lì per essere consumata. E casomai pensassimo che la vita metropolitana è facile, c’è sempre il rumore della violenza (razziale, sessuale e sul lavoro) a sorprenderci con periodiche rivendicazioni di giustizia. Tanto gli attivisti quanto gli accademici sono attratti dalle città, le città globali, perché è qui che l’incommensurabile si concentra. Il fascino è qui, perché non è possibile sapere quali novità emergeranno dal sangue, dal sudore, dalle lingue, dagli odori e dai suoni che si mischiano insieme.

I corpi delle donne di colore che lavorano nelle sweatshop di East End a Londra, le collaboratrici domestiche nelle case, negli uffici e negli aeroporti delle città globali, le dita che si muovono «agili» fra i circuiti elettronici delle zone di libero commercio, l’ibrida gioventù metropolitana che indossa il sari e le scarpe da ginnastica, e specialmente coloro che ci narrano storie con l’eloquenza delle loro parole, sono in grado di catturare l’attenzione degli accademici come mai prima d’ora. Si pensa che il mistero della nostra condizione globalizzata risieda proprio lì, nel corpo della «donna nera», la «donna del Terzo mondo» e la donna tribale «subalterna». Ha avuto luogo una trasformazione notevole, per cui queste «altre» donne sono passate dal non avere riconoscimento in nessun luogo della sfera pubblica all’essere ovunque. La gente non ne hai mai abbastanza di loro, o forse dovrei dire di «noi».

Viviamo un tempo in cui per coloro che vagamente si definiscono «di sinistra» è divenuto urgente stringere alleanze politiche tra paesi e al loro interno. È ormai ampiamente sentita la necessità di connessioni globali che aiutino a esercitare pressione e a destrutturare i nodi strategici del potere. Le linee di potere che attraversano il mondo sono così intrecciate e pluridimensionali che è importante la presenza di vettori di connessione politica altrettanto elaborati. Non v'è dubbio che sia necessario instaurare un dialogo capace di parlare all’interno e attraverso i nodi delle differenze. E tuttavia, una cosa è l’impegno nella costruzione di dialogo, cooperazione e alleanza, altra cosa è il modo in cui onoriamo questo impegno. Quando ci sporgiamo all’esterno cercando connessioni, è fondamentale riflettere sullo spirito che ci anima. Quando coloro che risiedono nelle nazioni più ricche si sforzano di costruire un dialogo coi meno privilegiati dobbiamo chiederci: come può il Nord avvicinarsi al Sud? Occorre interrogare la natura delle energie e delle emozioni attraverso cui si formano punti di contatto nell’ambito dei circuiti politici. In un periodo in cui diviene un imperativo assoluto forgiare un arcobaleno di coalizioni che lavorino con donne di colore, donne subalterne, che vivono nel Sud, diventa altrettanto urgente chiedersi: su che basi sono invitate a parlare? Esiste per loro una struttura di rappresentazione che eserciti un impatto profondo sulle forme in cui sono invitate a far parte di gruppi politici, iniziative creative o forum accademici? Le rappresentazioni sono all’opera tra luoghi diversi, e i movimenti politici radicali non ne sono immuni. E sebbene esistano importanti variazioni fra i diversi spazi, emerge una notevole vicinanza nei termini in cui loro garantita la coesistenza.

Il modo in cui «noi» siamo invitate a partecipare al tavolo, alla piattaforma o al corteo è pertanto un aspetto problematico. Se accettiamo che il momento dell’emergenza è anche il momento per emergere, allora è tempo di ripensare su quali basi la donna subalterna (assumendo questo termine come indicativo di una figura ampia ed eterogenea) sia chiamata a partecipare. E ancora, in un intenso momento di riflessione dovete chiedervi – come organizzazione, gruppo o individui: che cosa state cercando nel corpo di questa figura? Che cosa scegliete di vedervi? Che cosa volete sentire? State ascoltando veramente o percepite solo l’eco delle vostre fantasie? Che cosa le è consentito di essere nel vostro interessamento verso di lei? È su tali presupposti che questo contributo invita tutte le organizzazioni, politiche o di altro genere, a considerare in primo luogo su che basi alle femministe nere, alle donne subalterne o del Terzo mondo sia resa disponibile una posizione di parola, e poi che cosa si cerchi in particolare dai corpi di queste donne; in altri termini io chiedo: «che cosa state cercando»? Le risposte a queste domande sono nell’osservatore. È chi guarda a doversi interrogare.

In una serie di lavori intitolati Album Pacifica, Mohini Chandra – un’artista che le migrazioni familiari hanno condotto in India, nelle isole Fiji, in Australia e in Inghilterra – esibisce al pubblico una collezione di foto di famiglia. In modo insolito, ma molto efficace, le fotografie ci vengono presentate rovesciate. Nel cercare indizi su che cosa la foto possa contenere dall’altra parte, quella che siamo abituati a vedere, l’osservatore è indotto a guardare i segni del retro della foto e a scoprire macchie, strappi, lacrime, timbri di passaporto, impronte digitali. In qualche modo lo spettatore ha la tentazione quasi irresistibile di prendere queste foto e vedere che cosa possano rivelare. Come osservatori non ci accontentiamo del retro. Per aggiungere un’ulteriore dimensione, Chandra esibisce queste fotografie in teche di vetro, rievocando le antropologiche «teche di curiosità» che disponevano le culture secondo tipologie gerarchicamente definite. Queste bacheche ancora una volta ci «stuzzicano» nel disporre le foto come oggetti preziosi da proteggere. La vera natura dei misteri conservati dietro il vetro protettivo ci è negata. Chandra riesce a rompere il nostro desiderio di vedere, indagare e confermare la nostra percezione delle persone che sono dall’altra parte della foto. Ci sfida a ripensare perché desideriamo vedere e situare. Interrompe il nostro sguardo, e proprio ne pieno dell’atto di guardare esso ci viene rimandato indietro. Le domande che ci rivolge sono: che cosa stai cercando? Che cosa vuoi vedere dall’altra parte? R come mai l’immagine di ciò che ti aspetti di vedere è così importante per il senso del tuo luogo nel mondo? Se intraprendiamo il viaggio che Chandra ci suggerisce, ritorniamo a noi stessi.

Entrare nel marginale

Dice bell hooks: «I corsi che tengo sulle scrittrici nere e la letteratura del Terzo mondo sono sovraffollati, con lunghe liste d’attesa» (1991, p. 25). Gettando ulteriore luce su come il «discorso minoritario» sia diventato un «tema caldo» in Occidente (Chow, 1993; p. 109), Ann Du Cille evidenzia la transizione da una fase in cui le donne «nere» dovevano combattere per avere i testo del femminismo nero nei curriculum o nelle librerie, verso una situazione in cui: «Dentro e intorno al mondo accademico l’alterità razziale e di genere è diventata una merce bollente che interpella la donna nera come suo principale significante. Io mi sento, di volta in volta, compiaciuta, confusa, turbata-ammaliata, infastidita-sconcertata da tutto questo, da un’alterità perpetuamente imposta alla donna afroamericana, dalla produzione della donna nera come materia “alterata” infinitamente decostruibile. [...] Perché sono così interessati a me e alla gente come me (metaforicamente parlando)? Perché noi-donne-nere siamo diventate i soggetti assoggettati di tanta investigazione scientifica, i contadini sotto il vetro della ricerca intellettuale negli anni Novanta?» (2001, p. 234).

Nell’universo degli studi culturali e letterari, è degna di nota l’ondata di interesse verso alcune figure femminili come Toni Morrison, Zadie Smith o Meena Alexander. Considerando il livello di attenzione riservato a Zora Neale Hurston, Michelle Wallace ci offre una descrizione vivida del contesto in cui ci troviamo. L’autrice fa notare un «ingorgo» di intellettuali impegnati nell’analisi del lavoro di Hurston, i quali, «come fa chi va in pellegrinaggio alla tenuta di Elvis Presley», si ingolfano in «una corsa smodata per assicurarsi qualche souvenire della donna nera» (Wallace, citata in Du Cille, 2001, p. 234).

La fascinazione verso chiunque possa venir definito come archetipo dell’alterità non ha luogo solo nel mondo accademico: la si può ritrovare anche nei forum politici, nell’arte e nella letteratura. Si tratta di un fenomeno internazionale. La gente è ipnotizzata da questo «oggetto» dell’alterità. Essa contiene qualcosa di speciale che tutti stanno cercando. Nel parlare di quanto tale nozione sia radicata a Hoxton, Londra – un’area relativamente povera che negli anni Novanta è diventata di moda per quanti hanno a che fare con le nuove arti e le industrie creative dei media – la rinomata scrittrice Zadie Smith ricorda: «Una delle cose strane di Hoxton, che appare lì in particolar modo, ma si riflette in tutta la giovane popolazione universitaria della middle class di questo paese, consiste nel desiderio di avere una storia relativa a qualche forma di “vittimità” [victimhood][1], che però non possiedono. La storia che senti più spesso all’Hoxton Bar&Grill o all’Electricity Showroom è quanto sia difficile essere bianco, coi genitori entrambi accademici e senza una storia tua. Cercano continuamente idee per questo o quel film, ma nessuno ha veramente una trama. Esiste una sorta di invidia per gente diversa da loro, quasi che lo status di minoranza culturale fornisca agli altri un accesso immediato a quella creatività che i giovani di Hoxton credono di non possedere. Personalmente non mi interessa scrivere della mia esperienza per il resto della mia vita, ma questo è visto come un dono che mi è stato offerto, la razza e la classe che ti separa dalla grande intellighenzia liberal» (2000, p. 36).

Zadie Smith e Ann Du Cille evidenziano entrambe come una posizione affatto peculiare di soggetto parlante sia resa disponibile per le donne di minoranza razziale. Ci si aspetta che esse dispensino parole di saggezza sull’alterità, o come dice Smith, sulla classe e la razza. Si tratta di una prospettiva di parola molto particolare; le capacità espressive di queste persone sono collegate alla loro esistenza corporea in un modo che àncora le loro voci a ciò che esse si presume che incorporino. Le loro creazioni sono entità pesantemente segnate. Ma non sono queste le prime considerazioni che vengono alla mete quando a parlare, scrivere o creare è un corpo maschile bianco. Egli parla semplicemente come essere umano, perché razza e genere sono espunti dalla sua rappresentazione corporea. Mentre non v’è dubbio che possiamo dimostrare come questa figura universale – che comunemente si presuppone parlare da nessun luogo, da nessuna posizione particolare – stia in realtà parlando da un luogo specifico e in quanto entità incorporata (in termini di nazionalità, genere e classe), egli occupa una posizione di privilegio cui la donna di colore non ha accesso. Con osserva Richard Dyer: «Non c’è posizione più forte dell’essere “semplicemente” umano. La pretesa di potere è la pretesa di parlare per l’insieme dell’umanità. La persona definita razzialmente non può farlo – può parlare solo per la propria razza. Ma la gente non-di-razza può, perché non rappresenta l’interesse di alcuna razza» (Dyer, 1997, p. 2).

La visibilità delle donne nere ha dunque caratteristiche del tutto particolari. I loro contributi sono ricercati ed elogiati, ma in forme che circoscrivono ciò di cui esse hanno l’autorità di parlare. Viene loro offerto lo spazio per parlare di marginalità, e gli inviti arrivano spesso, ma solo per riempire specifici «comparti etnici». Si entra nella dimensione di un parlante razzialmente definito. Non appena si apre uno spazio, con lo stesso gesto lo si chiude dentro una camicia di forza. Su questo osserva l’artista Sonia Boyce: «Qualsiasi cosa facciano i neri, si suppone che abbia a che fare in primo luogo con l’identità. Essa diventa un termine generico per tutto ciò che facciamo, indipendentemente da cosa sia. [...] Non dico che dovrebbe essere superato, ma sono forse capace di parlare unicamente di chi sono? Ciò che io sono cambia con l’età: può essere un’indagine che dura tutta la vita. Ma perché dovrebbe essermi consentito parlare solo di razza, genere, sessualità e classe? Siamo forse capaci di dire solo chi siamo, e nient’altro? Se io lo faccio, parlo “come” donna nera artista, o “come” donna nera, o “come” persona nera. Devo sempre nominare chi sono: vengo continuamente obbligata a occupare questa posizione [...] e mai mi si permette di parlare perché parlo» (citata in Mercer, 1995, p. 30). La voce di Boyce è in realtà incasellata in «comparti neri» etnicamente demarcati (Chambers, 1999, p. 27).

Volgendo uno sguardo critico alle condizioni in cui viene conferita la possibilità di parlare all’interno dell’accademia, Spivak ha notato l’esistenza di una sorta di «imperialismo benevolo» che le consente oggi di parlare come donna indiana. Rileva che: «Un centinaio di anni fa era per me impossibile parlare, esattamente per la stessa ragione che mi rende adesso fin troppo possibile parlare entro alcuni limiti» (citata in Landry e MacLean, 1995, p. 194). È invitata a parlare quasi per un moto di carità e senso di colpa; le organizzazioni vogliono riservare spazio alle donne del Terzo mondo.

Gli ambiti ristretti da cui le donne di colore nel mondo accademico sono autorizzate a parlare diventano particolarmente evidenti quando esse fuoriescono dalle concessioni del «multiculturalismo benevolo» e scrivono gli argomenti centrali, che stanno in alto nella gerarchia accademica della conoscenza. Questa forma della parola diviene ancora più problematica se gli idiomi usati sono meno convenzionali. Spivak qualifica la critica molto nota di Terry Eagleton al suo libro A Critique of Post-Colonial Reason (1999), come effetto di un disagio per il fatto che i testi con cui l’autrice si confronta «non sono limitati alle donne del terzo mondo, e io non scrivo come un Habermas travestito» (2001, p. 21).

Spivak sostiene che la sua presenza nell’accademia è problematica perché: «Io sono una donna, e guarda caso una donna di colore che non rimane confinata alle forme di discorso con cui le è consentito misurarsi – parlare di donne del Terzo mondo e della nostra condizione di vittime. Questo va bene. Se una persona come me de-antropologizza se stessa e legge i grandi testi della tradizione europea in una maniera che non incontra le diffuse aspettative razionali circa il modo di interpretarli, allora viene punita» (2001, p. 22).

Di chi e di che cosa le persone possono parlare: questo è un metro importante delle gerarchie di inclusione. Spivak è un nome prestigioso della filosofia e della letteratura europea, intorno ai vent’anni ha tradotto il tomo di Derrida sulla Grammatologia, eppure avverte ancora il tentativo di costringerla a parlare di genere e di particolari angoli del mondo. Nell’ambito della teoria politica e sociale l’uomo bianco detta legge, è ancora centrale. Nella teoria femminista le «dive bianche» esercitano un monopolio sull’orazione. Le donne di colore combattono per accedere a questa posizione centrale. Certo, vengono invitate a parlare, ma le api regine della teoria femminista restano bianche. Le strutture della whiteness pervadono le relazioni accademiche e politiche, esercitando una forte influenza su chi ha autorità per parlare e in che misura. Alcune figure normative riescono a sfuggire alla definizione razziale e possono così parlare in generale. La loro parzialità rimane invisibile proprio perché costituisce la norma. Per la donna di colore, come rivela Spivak, lo spazio facilmente disponibile è quello in cui lei si offre come spettacolo antropologico. Esiste uno spazio aperto, a partire dal quale è possibile documentare se stesse o le cosiddette comunità da cui si proviene. I margini per l’auto-narrazione sono particolarmente aperti quando le testimoni sono capaci di suscitare pietà e lacrime[2]. In quel caso esiste una particolare propensione a prestar loro ascolto.

Il paradigma salvifico

La fame di racconti di «vittimità» ha una lunga storia. Al culmine dell’antropologia, le distinzioni fra Occidente e resto del mondo produssero una giurisdizione epistemologica racchiusa in osservazioni, misurazioni, categorizzazioni, spettacoli e musei di curiosità (Said, 1978; Hall, 1997). I corpi delle donne provenienti da questi «altri» luoghi rivestivano un ruolo centrale nella produzione della differenza fra barbarico e civilizzato, spirituale e razionale, passivo e potente. Tutto ciò che è percepito al tempo stesso come attraente, repulsivo, bisognoso di correzione è stato proiettato da questi «altri» luoghi sulle figure femminili. Nel rappresentare il fardello dell’uomo bianco, così come della donna bianca, le donne degli «altri» luoghi hanno offerto a coloro che guardavano verso Est in cerca di carriera un senso di missione, definendo per loro un senso di identità in quanto politici, riformatori sociali, viaggiatori o accademici.

Il linguaggio del femminismo e della liberazione delle donne fu utilizzato dai colonialisti, basti pensare a Cromer, per rimarcare i confini tra l’Occidente liberato e l’Oriente barbarico, producendo così una soggettivazione della mascolinità bianca coloniale. Il fatto ironico è che, mentre gli uomini bianchi dell’establishment vittoriano si opponevano alla causa femminista nei propri paesi, essi catturarono il linguaggio del femminismo e del colonialismo e «lo deviarono, al servizio del colonialismo, verso gli altri uomini e le loro culture» (Ahmed, 1992, p. 6). Guardando a tutto questo attraverso l’immagine spettrale di un sati[3] ardente, così spesso evocato nei discorsi occidentali, Spivak ha evidenziato come l’abolizione del sati e il complesso di leggi che furono emanate in nome delle donne indiane dai britannici costituissero un esempio classico di «uomini bianchi che salvano donne scure da uomini scuri» (Spivak, 1988b, p. 296), aprendo la strada a ciò che Rajan descrive come una «metafora della cavalleria», un rito di passaggio per giovani uomini bianchi verso la mascolinità amorosa (Rajan, 1993, p. 6). La descrizione, nei resoconti ufficiali, delle donne che si sottoponevano alla pratica del sati come vittime o eroine, ha precluso la possibilità di definire una «soggettività femminile mutevole, contraddittoria, inconsistente» (Rajan, 1993, p. 11), ma ha alimentato la proliferazione di un «paradigma salvifico» (Rajan, 1993, p. 6) che spesso aveva una sfumatura di «piacere voyeuristico», specialmente se la protagonista del sati era giovane e bella (Mani, 1992, p. 400; 1998).

Tuttavia, non fu solo il cavaliere dall’armatura sfavillante a impegnarsi per la salvezza delle donne in India e in altre parti delle colonie, sotto la masquerade del «paradigma salvifico»; le imperial ladies occidentali indossarono a loro volta questo abito – anche se con un’affettazione diversa – per ritagliarsi, forse inconsciamente, una posizione soggettiva (Buron, 1994; Chaudhuri e Strobel, 1992). La rappresentazione delle donne occidentali come protagoniste illuminate che avviarono la missione di alleviare le sofferenze patriarcali delle donne coloniali, fu fondamentale per la concessione dei diritti politici e per l’emergere di una soggettività politica femminile. Esse poterono ricorrere ad attitudini caritatevoli per affermare se stesse come protagoniste contro l’agenda politica escludente della mascolinità bianca e contro concezioni dell’«individuo» politico liberale che escludevano le donne. I processi di esclusione dal corpo politico imposti dal «contratto sessuale» (Pateman, 1988) sono attraversati da un «contratto razziale» sessuato (Mills, 1997). Così, «nell’atto di mobilitarsi per donne che consideravano peggio trattate di loro [...] le donne occidentali poterono accedere a una posizione soggettiva per se stesse, spesso a detrimento della soggettività e del senso di protagonismo delle donne indigene» (Mills, 1998, p. 105).

«Brave ragazze» a passeggio[4]

Non mancano femministe occidentali che «passeggiano» per il mondo cercando di far del bene, di attenuare le sofferenze dei bambini e delle donne povere. Enormi strutture burocratiche sostengono queste missioni, documentate nei progetti di sviluppo, nelle iniziative di aiuto e nei progetti accademici. La femminista bianca occupa una posizione peculiare in tutto questo. L’elevato profilo morale rispetto al benessere ha costituito per lei un canale di accesso privilegiato a un universo pubblico di fraternità che ha storicamente cercato di limitare la sua partecipazione. E così oggi, chi più di lei è nella posizione di viaggiare per il mondo raccogliendo storie sulle sofferenze di bambini, dei sex workers o delle donne che lavorano nelle zone di libero scambio? All’interno di ciò che Chow definisce «un circuito di produttività che trae il proprio capitale dalla deprivazione degli altri, mentre rifiuta di accettare la propria presenza come privilegiata», esistono individui che si fregiano del ruolo di rappresentanti autentici del Terzo mondo (1993, p. 14). L’autrice critica fortemente coloro che si impegnano in una forma di «auto-subalternità», poiché scelgono «di vedere nell’altrui mancanza di potere un’immagine idealizzata di se stesse, e rifiutano di prestare ascolto alla dissonanza che esiste fra contenuto e forma del loro discorso, e la loro stessa complicità con la violenza» (1993, p. 14). Così intuiamo che ciò che Spivak descrive come «attitudine all’autocompiacimento da salvatrici della marginalità» (Spivak, 1988b, p. 61) passa attraverso l’intera catena di operazioni e reti coinvolte nella rappresentazione del subalterno. Sussistono tuttavia importanti distinzione tra le posizioni che occupano i diversi attori coinvolti nelle matrici del potere. Mentre le ricercatrici locali dei continenti extra-europei possono essere impagabili nel procurare una specifica documentazione sociale, si preferisce lasciare la visione d’insieme nelle sicure mani della femminista occidentale. Diversamente dalle femministe di Asia, Africa e Sudamerica, a lei sono conferite qualità che le permettono di svelare un punto di vista trascendentale. Lei viene fuori, cerca di ascoltare, di sentire com’è davvero, ma ascolta veramente? Ascolta ancora altre storie di «vittimità»? Sta facendo crescere un archivio imperiale già stracolmo di culture «barbariche» dalle quali le donne hanno bisogno di esser salvate per mano dell’Occidente? O sta ascoltando diverse versioni del marxismo, secondo le varie affiliazioni intellettuali delle autrici? Forse vede un susseguirsi di quelli che ad alcune sembrano processi deleuziani splendidamente in movimento? Il guardare non è mai processo semplice; ha i suoi strati di sofisticazione.

La politica della salvazione

Durante i bombardamenti e l’apparente liberazione dell’Afghanistan dopo l’11 settembre, abbiamo assistito a uno degli episodi più crudi di «comprensione» della vita delle donne non occidentali da parte delle donne d’Occidente. Un gruppo di ministre del governo laburista inglese ha sollevato, assieme a Cherie Blair, la questione di genere e l’ha resa pubblica con il tema del burkha e del velo in Afghanistan (Khan, 2001). Queste donne hanno parlato di «solidarietà con le loro sorelle afgane», immedesimandosi nelle sensazioni che si provano nell’indossare questo indumento. Nel corso di questa campagna non hanno però consultato i gruppi di donne nere o musulmane che avrebbero invece potuto suggerire loro come interpretare questo oggetto, senza ricorrere semplicemente a letture orientaliste che producono nozioni essenzializzate dei paesi occidentali civili e dei paesi orientali barbarici, in cui le donne devono esser salvate da un Occidente illuminato. Avrebbero certo potuto trarre beneficio dalla scoperta che non esiste un’interpretazione univoca del burkha o del velo (Ahmed, 1992; El Guindi, 1999). Le femministe post-coloniali hanno discusso a lungo sul velo, ma non credo che troverete questi libri nella biblioteca della Camera dei Comuni! Una delle preoccupazioni principali del femminismo post-coloniale è stata la questione di come sia possibile criticare i regimi patriarcali di società razzialmente definite, senza ricorrere a un pensiero orientalista e razzista (Brah, 1997; «Feminist Review», 1984; Grewal et al., 1988; Parmar, 1982). E il velo rappresenta uno di quei significanti razzializzati/sessuali (come il sati) perché, come ha fatto notare Leila Ahmed, la storia che lo avvolge è «gravida» di senso (1992, p. 166). Tutto questo rende assolutamente cruciale il fatto che le modalità di resistenza non siano esplorate esclusivamente attraverso i linguaggi occidentali o eurocentrici. Questo evento di grande rilievo, cui si è aggiunta un’identica iniziativa trans-atlantica, è così ricaduto in quelle trappole analitiche di cui, ormai parecchio tempo fa, ci aveva avvertito Mohanty. Ricordiamole brevemente.

In sostanza, Mohanty sosteneva che esiste un latente etnocentrismo nei testi femministi occidentali, i quali manifestano una tendenza (1) a produrre/rappresentare una categoria monolitica della «donna media del Terzo mondo»; (2) a definire e giudicare le vite di queste «altre» donne attraverso un «metro» che assume come norma l’esistenza delle donne occidentali di classe media «come referente implicito» (1988, p. 64). In termini più vividi questo significa che: «Si assume una nozione omogenea dell’oppressione delle donne come gruppo, che a sua volta delinea l’immagine di una “donna media del Terzo mondo”. Questa donna media del terzo mondo conduce un’esistenza essenzialmente troncata, basata sul genere femminile (leggi: sessualmente costretta) e sull’essere “Terzo mondo” (leggi: ignorante, povera, incolta, legata alle tradizioni, religiosa, addomesticata, orientata alla famiglia, vittimizzata ecc.). Questo, a me sembra, contrasta con la (implicita) auto-rappresentazione delle donne occidentali come istruite, moderne, nel pieno controllo delle proprie decisioni. [...] Simili distinzioni si producono sulla base del privilegio accordato a un gruppo particolare in quanto norma o referente» (1988, p. 64).

Mohanty puntualizza che non sono solo le donne bianche occidentali a incorrere nella trappola dell’assumere la propria posizione come norma. Sostiene infatti che anche le donne del Terzo mondo che vivono nel Terzo mondo o in Occidente, o che viaggiano fra i due contesti, possono cadere facilmente in questi tranelli, che costituiscono un aspetto latente del femminismo internazionale.

La domanda «che cosa cerchi nella figura del subalterno?» deve essere rivolta a tutte le correnti intellettuali e politiche. Affinché tutte si impegnino in una modalità di osservazione che è peculiare di tale figura. Quante volte gli esperti di economia politica hanno dato per scontato che la loro prospettiva fosse la più radicale? E in più, partendo dal presupposto che la loro analisi non potesse avere conseguenze negative per i marginali che essi così accoratamente sostenevano. Proviamo a riconsiderare il tutto.

In un’analisi dei testi femministi legati agli studi sullo sviluppo (Nelson, 1981; Young, Wolkowitz e McCullagh, 1981), Aihwa Ong prende in considerazione alcune raccolte di saggi che cercano di guardare alla posizione femminile nell’intreccio fra forze capitalistiche globali e quotidianità del lavoro pagato e non pagato. L’autrice fa notare che «il capitalismo vi è descritto come sistema polimorfo e storicamente determinato; esso presenta più contraddizioni e personalità delle donne e degli uomini che in apparenza sono i protagonisti del volume» (2001, p. 112). E continua: «I contributi, nel complesso, ci dicono più sul pensiero femminista-marxista riguardo al sistema capitalistico mondiale di quanto rivelino sull’esperienza di donne e uomini nel contesto dell’industrializzazione» (ibidem). Che cosa si cerca nel subalterno?

Vige una tendenza a definire immagini semplici e statiche delle donne subalterne o «nere». Di volta in volta commiserate perché considerate vittime di molteplici oppressioni, oppure esaltate con toni estatici perché rappresentano eroine che faranno crollare un mondo pericolante.

Voli di fantasia

Coloro che combinano nozioni complesse della soggettività con l’universo economico possono scorgere molti aspetti da celebrare, piuttosto che da commiserare, nella vita delle donne di colore. Così essi non esibiscono mesti volti di pietà verso i poemi o i racconti che leggono, ma gioia, e soprattutto desiderio. C’è una fascinazione verso la condizione del nomade, del vivere sul confine, dell’essere in una posizione di costante negoziazione. Leggere i poemi di Hurton può condurre le persone a viaggi straordinari. Si ritiene che gran parte dell’analisi della condizione globale, in senso sociale, culturale ed economico, sia da rintracciare in quella che si assume essere la condizione della donna subalterna, il contemporanea «cuore di tenebra». Nel contesto dei dibattiti sulla globalizzazione e i suoi rapporti con le identità locali e le esistenze diasporiche, troviamo che le identità ibride, meticcie, negoziate e ambigue delle giovani donne «migranti» di seconda generazione costituiscono un polo di attenzione e fascino. Le contaminazioni e gli abbinamenti che prendono forma nell’indossare simultaneamente stili diversi come il sari e le scarpe da ginnastica, costituiscono in qualche modo un luogo di esasperazione per alcuni, dal momento che queste immagini sembrano proiettare l’archetipo del soggetto culturale globale; un soggetto che si spinge oltre i propri stessi confini, fluttuante e sincretico. Queste figure alimentano livelli sconosciuti di eccitazioni nelle fila dell’accademia e della politica perché i loro corpi paiono elevare i flussi rizomatici della cultura e del capitale al colmo di una dimensione carnevalesca. Oh, che celebrazione!

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a un salutare allontanamento dalle statiche nozioni binarie e a uno spostamento verso una comprensione più complessa e sfumata. Si tratta di una trasformazione che si è rivelata particolarmente fruttuosa nel liberare i gruppi e le culture dai loro vincoli e nel promuovere un apprezzamento della natura interconnessa, mutevole e ibrida delle identità. Sotto l’influenza del pensiero post-strutturalista, gli strumenti concettuali per la comprensione della vita ai margini si sono notevole estesi. I discorsi sull’ibridazione, i flussi, le terre di confine, il «divenire minoritario», il nomadismo e l’ambivalenza si trovano tutti nella banda eterogenea dei concetti cui si fa fin troppo spesso appello per narrare l’alterità e i suoi percorsi. Come ha notato Kaplan «romanticizzare le culture nomadi o di guerriglia costituisce una pratica frequente nelle teorie post-strutturaliste contemporanee» (1994, p. 146). Tuttavia, «sfortunatamente, nonostante le loro critiche alle categorie umanistiche, le metodologie post-strutturaliste non sono meno prone al desiderio dell’“altro” o all’esotizzazione della differenza» (1994, p. 144).

Mentre si tenta di sfuggire alle mostruosità delle strutture binarie e del pensiero essenzialista, possiamo constatare qui come anche la teoria più sofisticata non sia immune da un errore grave, che abbiamo visto ripetersi sempre più volte – per cui qualcuno viene trasformato in spettacolo, in oggetto. La conseguenza dell’utilizzo continuo di poeti, registi, scrittori e artisti «ai margini» come materia prima per acrobazie teoriche spesso può corrispondere a un’ulteriore marginalizzazione. Anche gli accademici che desiderano scrivere di cultura e politica in modo diverso, come nota Cornel West, possono sollevare dibattiti sulla differenza e i confini «in forme che marginalizzano ulteriormente i reali protagonisti della differenza e dell’alterità». Ancora una volta, l’«altro» può essere «oggettivato, appropriato, interpretato, assorbito da chi ha potere» (citato in hooks, 1991, p. 125).

Osservazioni conclusive

Il nostro comprendere spesso confina la donna subalterna fra il voyeurismo dell’esotico fantastico e un «paradigma salvifico» (Rajan, 1993, p. 6) alla cui origine risiedono «motivi di salvazione» (Chow, 1993, p. 3) riformulati e articolati in una miriade di contesti, compresi il «turismo rivoluzionario» e la «celebrazione della testimonianza» (Spivak, 1993, p. 284) che si possono riscontrare nel femminismo internazionale e nella politica della sinistra globale più in generale.

Mentre inseguiamo una responsabilità etica nei confronti del subalterno attraverso una relazione di amore a due in cui sistematicamente nascondiamo a noi stessi i nostri privilegi (Spivak, Landry e MacLean, 1995) così da parlare a e non di (Min-ha, 1989), non dobbiamo sottrarci alla domanda scomoda e cruciale: «Che genere di relazione etica con la donna subalterna stiamo cercando? Che genere di posizione soggettiva ci permette di detenere?». Se le attiviste, le accademiche e le registe, ad esempio (includo qui le femministe post-coloniali che si trovano nel ventre della bestia, che hanno accesso a forum pubblici, conferenze, circuiti editoriali e piattaforme dell’Onu), sperano di trasformarla, salvarla o proteggerla, come molte di loro fanno in un modo o nell’altro, allora devono prima di tutto demistificare «l’illusione che, attraverso la parola privilegiata, ci si stia mobilitando per salvare i dannati della terra» (Chow, 1993, p. 119).

 

* Traduzione di Alessandro De Giorgi.

 

----

 

Riferimenti bibliografici

Ahmed, L., Women and Gender in Islam: Historical Roots of a Modern Discourse, Yale University Press, New Haven-London 1992.

Alarcon, N., Tradduturora, Traditora: A Paradigmatic Figure of Chicano Feminism, in «Cultural Critique» n. 13, 1989.

Bhattacharya, G., Tales of Dark Skinned Women, UCL Press, London 1998.

Brah, A., Cartographies of Diaspora, Routledge, london 1996.

Burton, A., Burdnes of History: British Feminists, Indian Women and Imperial Culture, 1865-1915, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1994.

Chambers, E., Eddie Chambers: Interview with Petrine Archer-Straw, in E. Chambers (a cura di) Annotations 5, International Institute of Visual Arts (INIVA), London 1999.

Chauduri, N.; Strobel, M. (a cura di), Western Women and Imperialism: Complicity and Resistance, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1992.

Chow, R., Writing Diaspora, Indiana Universty Press, Bloomington-Indianapolis 1993.

DuCille, A., The Occult of True Black Womanhood: Critical Demeanor and Black Feminist Studies, in K. Bhavnani (a cura di), Feminism and Race, Oxford University Press, Oxford 2001.

Dyer, R., Whiteness, Routledge, London 1997.

El Guindi, Fadwa, Veil: Modesty, Privacy and Resistance, Berg Publishers, Oxford 1999.

Grewal, S.; Kay, J.; Landor, L.; Lewis, G.; Parmar, P., Charting the Journey: Writings by Black and Third World Women, Sheba, London 1988.

Hall, S., The Spectacle of the ‘Other’, in S. Hall (a cura di), Representation: Cultural Representations and Signifying Practices, Open University, London 1997.

hooks, b., Yearning: Race Gender and Cultural Politics, Turnaround, London 1991.

Kaplan, C., The Politics of Location as Transnational Feminist Practice, in I. Grewal; C. Kaplan (a cura di), Scattered Hegemonies, University of Minnesota Press, London 1994.

Khan, H., Freedom, Fashion and an Assault on the Burka, in «Guardian Unlimited», 21.11.2001.

Lugone, M., Playfullness, ‘World’-Travelling, and Loving Perception, in G. Anzaldua (a cura di), Haciendo Caras/making Face, Making Soul, Aunt Lute, San Francisco 1990.

Mani, L., Cultural Theory, Colonial Texts: Reading Eyewitness Accountes of Widow Burning, in L. Grossberg; C. Nelson; P. treicher (a cura di), Cultural Studies, Routledge, London 1992.

Mani, L., Contentious Traditions: The Debate on Colonial Sati in India, University of California Press, London 1998.

Mercer, K., Busy in the Ruins of Wretched Phantasia, in R. Farr (a cura di), Mirage: Enigma of Race, Difference and Desire, Institute of Contemporary Arts/Institute of International Visual Arts, London 1995.

Milles, C., The Racial Contract, Ithaca Press, New York 1997.

Mills, C., Post-colonial Feminist Theory, in S. Jackson; J. Jones (a cura di), Contemporary Feminist Theories, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998.

Minh-ha, T.T., Woman, Native, Other: Writing Post Coloniality and Feminism, Indiana University Press, Indianapolis 1989.

Mohanty, C.T., Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses, in «Feminist Review», n. 30, 1988.

Mohanty, C.T., Women Workers and Capitalist Scripts: Ideologies of Domination, Common Interests, and the Politics of Solidarity, in J. Alexander; C.T. Mohanty, Feminist Genealogies, Colonial Legacies, Democratic Futures, Routledge, New York 1997.

Narayan, U., Dislocating Cultures: Identities, Traditions and Third World Feminism, Routledge, London 1997.

Nelson, N. (a cura di), African Women in the Development Process, Routledge and Kegan Paul, London 1981.

Ong, A., Colonialism and Modernity: Feminist Re-Presentations of Women in Non-Western Societies, in Bhavnani (a cura di), Feminism and Race, Oxford University Press, Oxford 2001.

Parmar, P., Gender, Race and Class: Asian Women in Resistance, in CCCS, The Empire Strikes Back: Race and Racism in 70s Britain, Hutchinson, London 1982.

Pateman, C., The Sexual Contract, Polity, Cambridge 1988.

Phizacklea, A., Unpacking the Fashion Industry, Routledge, London 1990.

Probyn, E., Sexing the Self: Gendered Positions in Cultural Studies, Routledge, London 1993.

Puwar, N., Making Space for South Asian Women: what has changed since Issue 17?, in «Feminist Review», n. 66, 2000.

Rajan, S.R., Real & Imagined Women: Gender, Culture and Postcolonialism, Routledge, London 1993.

Said, E., Orientalism, Pantheon Books, new York 1978.

Smith, Z., Tate, in «The Art Magazine», n. 21, Tate Modern, London 2000.

Spivak, G.C., Can the Subaltern Speak?, in C. Nelson; L. Grossberg (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, Macmillan, London 1988b.

Spivak, G.C., Outside in the Teaching Machine, Routledge, London 1993.

Spivak, G.C.; Landry, D.; macLean, G.M., The Spivak Reader: Selected Works of Gayatry Chakravorty Spivak, Routledge, London 1995.

Spivak, G.C., Mapping the Present: Interview with Gayatry Spivak, by M. Yegenoglu and M. Mutman, «New Formations», n. 45, 2001.

Westwood, S., All Day Every Day, Pluto Press, London 1984.

Williams, P.J., Seeing a Color-Blind Future: the Paradox of Race, Virago Press, London 1997.

Young, K.; Wolkowitz, C.; McCullagh, R. (a cura di), Of Marriage and the Market: Women’s Subordination in International Perspectives, London, CSE Books, London 1981.



[1] Traduciamo il termine victimhood (letteralmente, la condizione di vittima, l’esser reso vittima) col neologismo «vittimità»: in questo modo si vuole rendere in pieno la condizione dello spirito, emotiva e introspettiva a cui si riferisce il termine inglese. Una condizione che sfugge al termine italiano più utilizzato, «vittimizzazione», che rimanda piuttosto al processo per cui si diventa vittime, cioè a un’azione criminosa [N.d.T.].

[2] Non intenso assolutamente sminuire la potenzialità politica del lavoro autobiografico o della testimonianza di sé: si tratta di elementi fondamentali per contestare le storie, così come per riportare in vita ciò che è rimasto sepolto o di fatto denigrato. Tuttavia, le testimonianze sono state classicamente utilizzate per attribuire «vittimità», parallelamente a una politica del riscatto.

[3] Il termine indica sia l’uso indiano del sacrificio di una vedova che si dà fuoco dopo la morte del marito, sia il suo corpo sulla pira [N.d.T.].

[4] Il titolo allude all’andare per il mondo con la dovuta sensibilità per gli altri. Si tratta di un tipo di viaggio che presuppone che ciascuno abbia il diritto di andare in ogni dove.