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Quelli che benpensano a Torino

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Nota di Giovanni Semi sulla manifestazione “Sì Tav” di Torino

‘Ciao Alberto! Anche tu rivoluzionario?’ e tra qualche risata e pacca sulla spalla, la folla che ha riempito Piazza Castello ha innervato le vie del centro e si è dileguata con garbo.

Il garbo, la gentilezza, le maniere civili, sono state le parole d’ordine di questa riemersione della borghesia torinese dalla propria proverbiale riservatezza e aristocratico distacco. Oggi in piazza erano visibili diversi gruppi sociali che la compongono e, per contrasto, si vedeva ancora meglio chi non c’era.

Iniziamo dai presenti. Signori e signore perbene, dall’età media attorno ai Cinquanta, ogni tanto con i figli grandi e più spesso con amici e colleghi. Si sono rivisti in massa i Barbour, e le signore avevano dei cappotti da boutique, talvolta arancioni come da richiesta delle organizzatrici della matinée. Si tratta di una stima ‘ad occhio’, ma se erano molti anche gli anziani ben vestiti, mancavano quasi completamente i 20-30enni. Le classi sociali visibili non erano molte, c’era sicuramente diversa borghesia professionale, e un po’ di ceto medio tradizionale, commercianti e artigiani. Ad occhio non erano tantissime le partite IVA ai minimi, non c’erano operai (ma si è letto in rete che ormai non esistono più perché sarebbero diventati tutti classe media), sicuramente il livello di istruzione medio in piazza era molto elevato e per nulla rappresentativo della città. Si è detto delle fasce mediane assenti e dei giovani in generale, ma quello che saltava all’occhio fin da subito era la totale assenza di popolazione straniera, sia povera che ricca (anche se si favoleggiava dell’esistenza di un contingente francese giunto in città per sostenere la lotta). La folla oggi riunita era molto torinese, anche se i richiami al Piemonte, all’Italia e all’Europa sono stati tanti. Una massa bianca, matura se non anziana, benestante, istruita e gioiosa ha occupato per circa due ore la principale piazza della città. Ha cantato con commozione l’inno di Mameli (ma senza fare il cafone poropò poropò poropopopopopò), ha ascoltato con trasporto i numerosi riferimenti a Cavour, al canale di Suez, ai miti fondativi sabaudi, a quel misto di elitismo bonario e superbo che è la torinesità. Sono state ringraziate le forze dell’ordine, ci si è definiti a più riprese la società civile e si è richiesto sviluppo economico magicamente legato alla TAV.

L’assenza di bandiere partitiche, semmai solo di bandiere europee, e la grande diffusione di cartelli pro TAV, spille del SI e qualche cartello più artigianale, fa pensare a un magma in cerca di rappresentanza ma molto instabile. Certamente il PD cattura molti di questi voti, ma non tutti. Altri vanno in direzione ancora più moderata e chissà quanti, magari inconfessabilmente, sono ormai saldi nelle mani della Lega. Certamente questo non è il popolo dei M5S, dove invece il piccolo ceto medio, partite iva, terziario vario e anche frammenti di classi popolari sono più forti.

Oggi abbiamo rivisto la borghesia in piazza, contenta di vedersi, contarsi, abbracciarsi quasi. Non era la prima al teatro Regio, non un evento culturale al Circolo dei Lettori, ma il pubblico era quello. Grandi numeri per un evento singolo, non enormi sul piano elettorale ma significativi in termini di messaggio: la città che conta, quella proprietaria, ha sfiduciato la giunta e la Sindaca.

Al momento sono tutti uniti da questo afflato sabaudo verso lo sviluppo economico e la lotta al declino. Non si vedono segni di riflessione profonda e men che meno di autocritica in quanto classe dominante. Non è infatti chiaro che idea di sviluppo abbiano, ammesso ne abbiano una. TAV, eventi, turismo e creatività sono il mantra. Forse funzionano nell’odiata Milano, incomparabile per taglia, mercati e settori economici, centralità e storia, ma è lecito dubitare possano trainare uno sviluppo torinese. Cosa farà questa borghesia tra qualche mese, alle prese con regionali ed europee? Cosa farà quando tra un paio d’anni, salvo svolte giudiziarie o politiche, dovrà scegliere il successore di Appendino? Ma soprattutto, cosa farà quando non potrà più affidarsi al mantra del declino che verrebbe imposto dagli altri? Riporteranno i soldi in città, dopo quarant’anni di esportazione di capitali, delocalizzazioni e richieste di protezionismo? Ricominceranno a fare impresa, come nell’Ottocento cui tanto si ispirano? Oppure si affideranno a uomini forti, come fecero negli anni Trenta? Diceva qualche anno fa un noto sociologo torinese che il ceto medio è una costruzione politica ed è alla ricerca costante di un contratto che lo protegga. Oggi abbiamo visto parte dei contraenti, nei prossimi mesi capiremo chi saprà assecondarli.