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Organi coscienti: verso un’antropologia della forza lavoro

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Un intervento di Jason Read a partire da Marx

Nelle ultime pagine del terzo libro del Capitale, Marx propone una tesi diversa da quella consueta struttura/sovrastruttura: 

È sempre il rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti — un rapporto la cui forma ogni volta corrisponde sempre naturalmente ad un grado di sviluppo determinato dei modi in cui si attua il lavoro e quindi della sua forza produttiva sociale — in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento.

Ciò che è determinante non è come spesso si dice il rapporto tra forze e rapporti di produzione ma la relazione più immediata del rapporto di lavoro. Ovviamente questa idea sembra ancora più discutibile della tesi struttura/sovrastruttura. Come potrebbe il rapporto di lavoro avere una relazione tanto immediata con la politica, con l’intero ordine sociale? Per rispondere dobbiamo ricordare che il rapporto di lavoro non è solo l’organizzazione della produzione delle merci ma anche la produzione e riproduzione della relazione capitalistica stessa, ossia della produzione di soggettività: il rapporto di lavoro non manca di effetti antropologici.

Ciò può essere mostrato attraverso la definizione della forza lavoro nel Capitale. Come sappiamo Il Capitale si apre con un’analisi della doppia natura del lavoro come lavoro astratto e lavoro concreto. Il fatto che il lavoro funzioni come corollario all’analisi più centrale della forma merce, ha significato che spesso le sue tensioni e i suoi problemi specifici siano stati ignorati. Lavoro concreto e lavoro astratto sono i corollari concettuali di valore d’uso e valore di scambio, il primo è definito come particolarità concreta, il secondo è definito come equivalenza astratta. Il lavoro concreto serve a sua volta come corollario necessario del lavoro astratto, a seconda dei casi come condizione o come effetto, ma non bisogna trascurare la specificità del concetto di lavoro astratto e i problemi specifici della congiunzione tra astratto, concreto e lavoro.

Come nel caso della merce, non c’è mistero immediato nel lavoro concreto, è il lavoro specifico del tessitore, del sarto, del fabbro ecc., il lavoro specifico di un individuo che svolge una mansione specifica Ma anche se il concetto sembra autoevidente, c’è qualche problema nascosto in questo concetto: come nel valore d’uso, l’enfasi è posta sulla particolarità concreta del lavoro. Il mio lavoro, il tuo lavoro… sono singolari, non possono essere scambiati con il lavoro altrui. È possibile quindi vedere il lavoro concreto come qualcosa di irriducibilmente specifico, non solo come la mansione specifica di un individuo specifico, ma anche come la singolarità di un momento particolare. Come con il valore d’uso, è difficile comprendere come qualcosa di così singolare possa essere scambiato. Questo è l’arcano con cui si apre Il Capitale, un tentativo di pensare la genesi di ciò che è dato per scontato.[1] Il lavoro concreto è solo un aspetto del processo lavorativo, ma la sua specificità concreta è confrontata con la sua generalità astratta. L’idea che il lavoro sia la fonte del valore dopotutto non è una scoperta di Marx, può essere ritrovata in Smith e Ricardo. Ciò che è unico in Marx, la sua vera invenzione, è la definizione della doppia natura del lavoro, come lavoro astratto e lavoro concreto, che è “il segreto dell’intera concezione critica.”[2] Il lavoro astratto è la soluzione dell’arcano dello scambio di merci che spiega come sia possibile che merci qualitativamente differenti e con usi differenti possano essere trattate come equivalenti, per cui la questione della condizione di possibilità di questo meccanismo è particolarmente importante. Sembra che Marx ci offra due spiegazioni. Per prima cosa, ci offre ciò che potrebbe essere considerata una genesi antropologica del lavoro astratto, da cui deduce che le differenti forme di lavoro hanno come denominatore comune il fatto che sono tutte prodotte dagli esseri umani: 

Se si fa astrazione dalla determinatezza dell'attività produttiva e quindi dal carattere utile del lavoro, rimane in questo il fatto che è un dispendio di forza-lavoro umana. Sartoria e tessitura, benché siano attività produttive qualitativamente differenti, sono entrambe dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani, ecc. umani: ed in questo senso sono entrambe lavoro umano. Sono soltanto due forme differenti di spendere forza-lavoro umana.[3] 

Ma questa genesi umana e naturale del lavoro astratto è contraddetta o quantomeno messa in dubbio dall’asserzione di Marx secondo cui la natura astratta del lavoro non è antropologicamente data ma è un processo sociale. È proprio il fatto che il lavoro è scambiato che fornisce la sua astratta comunanza. La sua genesi comune non è incarnata ma vive nei rapporti sociali. Come scrive Marx nello stesso capitolo, “Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale[4] Marx sembra oscillare a proposito della genesi del lavoro astratto, ponendo la qualità astratta a volte nell’identità biologica dell’umanità come specie, a volte nei rapporti sociali della società capitalistica. Ma per quanto queste due definizioni siano in contraddizione, pongono entrambe il lavoro astratto come realtà, una reale astrazione e non semplicemente come generalizzazione mentale. Mettendo assieme le due definizioni, potremmo dire che la questione è porre la costituzione propria dell’umanità astratta a partire dalla sua base biologica e come prodotto delle relazioni sociali. Come scrive Marx nel sesta tesi su Feuerbach: “l'essere umano non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l'insieme dei rapporti sociali”. La sesta tesi afferma come principio ciò che Il Capitale presenta come tensione: l’essenza umana, l'identità propria dell’umanità esiste solo dentro e attraverso l’articolazione storica dei rapporti sociali.[5] Il lavoro astratto e con esso l’umanità astratta non esistevano prima dei rapporti sociali del lavoro salariato. Per Marx gli effetti di questa trasformazione si estendono aldilà del dominio ristretto dell’economia, estendendosi alla religione.

Qui si potrebbe interpretare Marx come se stesse completando il progetto di Feuerbach. Non è sufficiente ridurre la teologia all’antropologia per trovare la figura dell’umanità nella proiezione di Dio, si deve anche riconoscere che non esiste l’umanità in sé ma che ci sono solo rapporti sociali specifici che producono e riproducono una certa figura dell’umanità. Dio, soprattutto quello del Deismo e del Protestantesimo, non è il prodotto di qualche desiderio generico dell’umanità, ma di una società particolare organizzata dall’astrazione del lavoro salariato. Altre società, altri modi di produzione, producono diverse idea dell’umanità e di Dio.

Si potrebbe ragionare sul fatto che sia il lavoro astratto che il lavoro concreto producono i propri effetti ideologici specifici, ideologie spontanee che emergono dalle loro condizioni specifiche. Se il lavoro astratto ci dà l’immagine di un’umanità astratta e interscambiabile, della capacità di tutti di essere sfruttati (un’immagine che culmina nell’immagine teologica di un’uguaglianza davanti a Dio), il lavoro concreto ci dà un’altra immagine, l’immagine di una società gerarchica e differenziata da diverse mansioni e competenze, una società in cui “nessuno è autosufficiente” perché a ogni individuo è assegnata una mansione diversa. Universalità e gerarchia sono componenti di ogni antropologia politica, di ogni definizione dell’umanità, ma nel caso dei rapporti di lavoro si tratta non certo di una definizione speculativa quanto piuttosto degli effetti materiali di un insieme di relazioni sociali. Queste ideologie spontanee implicano non solo una descrizione particolare dell’umanità, una descrizione che alterna una interscambiabilità generale e una gerarchia differenziale, ma anche un imperativo morale particolare. Il lavoro astratto vale come imperativo a essere socialmente utili, a lavorare non per un bisogno specifico per questa o quella mansione o competenza, ma ad essere messi a lavoro. È l’imperativo che vive sottotraccia nel “trovati un lavoro”, un imperativo che non dice esattamente cosa fare ma dice che tutti devono essere impiegati. Il lavoro concreto è invece più vicino all’etica dell’artigiano, nell’idea di una mansione specifica da svolgere.

Per illustrare questi due lati del lavoro considerati come due ideologie a sé stanti, si può tornare a due testi di Hegel. La sua dialettica servo/padrone sviluppa l’etica del lavoro concreto - di un lavoro particolare come dominio del mondo e di se stessi - come esteriorizzazione. Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel considera il lavoro soprattutto nei termini di azioni isolate del servo, che esteriorizza la sua coscienza in un oggetto e non è considerato nella sua socialità e storicità fondamentali. Questo isolamento è stato interpretato come una mancanza di specificità storica o come nostalgia ideologica per una forma passata del lavoro.[6]Al contrario, nei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel presenta il lavoro come sempre già socializzato, come sottomesso alle costrizioni della tecnica e alla presenza degli altri lavoratori: il lavoro è visto non tanto come un’attività produttiva dell’individuo ma piuttosto come produzione dell’individuo, come costituzione delle abitudini, del disciplinamento e delle norme, come seconda natura. La tensione tra questi due aspetti, tra l’individuo come produttore e come prodotto, come causa e come effetto, può essere vista come precorritrice dei concetti di lavoro concreto e lavoro astratto, intesi non come due lati della merce ma come due etiche diverse, due ideologie del lavoro, del mestiere specifico e del funzionamento sociale generale. Anche se queste etiche si sovrappongono in quella che Althusser chiama “l’ideologia borghese del lavoro”, in un’etica che è sia un imperativo sociale a lavorare che una razionalizzazione dell’ideologia del mestiere e della posizione sociale dentro la divisione di lavoro, esse entrano anche in conflitto, perché l’ideologia si scinde in due. L’ideologia generale del lavoro, un imperativo ad essere impiegati senza riguardo per il tipo di lavoro è spesso contraria all’identificazione con le esigenze particolari di una specifica competenza, e l’ideale di un lavoro particolare fatto bene spesso entra in conflitto con l’imperativo generico a essere efficienti e produttivi per dispiegare il lavoro astratto e interscambiabile. Ci sono momenti in cui l’imperativo generale all’efficienza si scontra con le esigenze di un lavoro specifico e viceversa, ma è importante evidenziare che l’ideologia dominante non si riferisce a un particolare mestiere o mansione, è piuttosto l’imperativo astratto a essere messi a lavoro. Questo è l’“infra-ideologia” della società contemporanea.

Queste due etiche, queste due ideologie, riflettono le dimensioni positive del lavoro, il suo ruolo costitutivo nella formazione di una consapevolezza di se stessi. Queste sono le ideologie che garantiscono la riproduzione del lavoro, richiedendo sia un’utilità sociale generale che un impegno particolare. Ma il lavoro astratto e il lavoro concreto possono anche essere legati alla dimensione negativa, a un’alienazione specifica. Il primo è legato a quello che André Tosel chiama un’illimitazione fantasmatica:[7]non si può separare il lavoro astratto dall’idea di una produttività infinita e inesauribile. Come dice Marx nei Grundrisse che cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui generata nello scambio universale?”. Il capitale astrae dalla riproduzione di una forma particolare dell’esistenza: il suo imperativo è un imperativo astratto alla produttività, alla produzione di plusvalore. Questo superamento dei limiti naturali non è realizzato solo su scala macro, nella ricerca senza fine di nuovi mercati e nuove merci, ma è realizzato anche su scala più piccola, nel processo lavorativo in sé.[8]Il fatto che il lavoratore venda non il suo lavoro, ma la sua forza lavoro, significa che è compito del capitalista trasformare questa potenza in atto, superando ogni limite naturale e culturale. Al contrario, il lavoro concreto richiede che gli individui si identifichino con un compito particolare, un lavoro particolare e un pacchetto di competenze, Tosel la definisce “finitudine depotenziata”, la possibilità di fare solo questo o quel lavoro particolare.

Come le due etiche conflittuali, queste due alienazioni spesso si sovrappongono e intrecciano. La dimensione prometeica del lavoro astratto, di tutti gli ostacoli naturali superati nella forma merce, nell’abilità di realizzare ogni supposto bisogno o desiderio, spesso funziona come alibi per il comando del lavoro concreto. Il fatto che il capitale superi ogni barriera e ogni limite, rompendo le divisioni tra cultura e natura, significa che la sua capacità di prescrivere a qualcuno un lavoro concreto particolare, o anche escluderlo totalmente dal lavoro concreto, è legittima. Come sostiene Marx, una parte della feticizzazione del capitale vive nella tendenza a trattare le sue leggi come leggi naturali e autoevidenti, una naturalizzazione che è rafforzata dal disinteresse del capitale per ogni limite culturale o naturale. Più il capitale sembra superare ogni limite, più i suoi limiti sono naturalizzati come inevitabili e ineludibili. Per inciso, nonostante tutto il suo discutere sulla natura umana, almeno nel Capitale Marx usa il termine “antropologia” soprattutto ironicamente, facendo riferimento alla tendenza del capitale a superare tutti i limiti: come scrive nel capitolo sulla giornata lavorativa, “Secondo l’antropologia capitalistica, la fanciullezza cessava coi dieci, o al massimo con gli undici anni”. Dei due aspetti del lavoro, come lavoro astratto e lavoro concreto, è il primo a essere dominante, come molti hanno sottolineato, trasformazione e distruzione senza fine costituiscono l’ideologia dominante, tuttavia c’è ancora una tensione tra l’indifferenza astratta e le mansioni concrete, il lavoro, una tensione che esiste anche tra l’umanità astratta e le gerarchie concrete. Questa tensione può essere notata anche nel fatto che le posizioni politiche di Marx rispetto al lavoro astratto si sono verificate sbagliate nella dinamica storica. Invece di disfare tutte le divisioni antropologiche, divisioni di razza, di genere ecc., questi divisioni persistono in modo nuovo. Non solo il lavoro concreto coesiste con il lavoro astratto, ma anche le divisioni e le gerarchie delle mansioni diverse sono antropologizzate, viste non solo come gerarchie che attribuiscono a individui diversi mansioni e lavori differenti, ma sono naturalizzate come il “posto adeguato” per gruppi particolari che sono nei fatti razzializzati.

Per capire meglio è necessario mettere a fuoco un altro effetto del lavoro astratto. Come detto prima, Marx traccia un rapporto diretto tra il lavoro astratto dentro la fabbrica e l’ideale astratto dell’umanità espresso nella religione, dal fondo della struttura fino alla cima della sovrastruttura. Ed è anche possibile sostenere che quest’umanità astratta abbia i suoi effetti politici. L’idea di un’umanità astratta e interscambiabile emerge con le astrazioni reali del salario e della forma merce, astrazioni reali che sono al fondo astrazioni di equivalenza e uguaglianza. Da una parte il capitale non è solo teoricamente indifferente alle differenze di razza, di genere e alle altre divisioni antropologiche, ma anche praticamente, nel senso che è capace di mettere a lavoro soggetti privi di competenze e abilità particolari, esseri umani semplicemente come portatori di forza lavoro. Questa deterritorializzazione ha il suo corollario necessario nella riterritorializzazione che lega una persona a una parte particolare del processo lavorativo, un lavoro particolare e un livello particolare della gerarchia sociale. Riconciliare questi due aspetti spesso esige altre ragioni per spiegare e legittimare una gerarchia che non può essere giustificata solo sulla base del rapporto salariato. Come dice Étienne Balibar, “Il compito è mantenere ‘al proprio posto’, di generazione in generazione, quelli che un posto non ce l’hanno, e perciò è necessario che abbiano una propria ‘genealogia’”. O più semplicemente, la razzializzazione, una divisione razziale del lavoro che si manifesta diversamente in posti diversi con diversi contesti e storie, è l’unico modo per riconciliare la trasformazione e la flessibilità costante del lavoro astratto – indifferente a tutto tranne che alla massimizzazione dei profitti – con l’inerzia del lavoro concreto, un’inerzia che non solo lega individui specifici a lavori specifici ma spiega perché questi lavori continuano a esistere e a trovare lavoratori che li svolgono. Il razzismo e le altre divisioni antropologiche sono l’alibi costante per le divisioni sociali.

Fino a questo punto ho considerato quella che chiamo “l’antropologia politica della forza lavoro” dalla prospettiva della contraddizione tra il lavoro astratto e il lavoro concreto, ma questa contraddizione non esaurisce la definizione del lavoro nel capitalismo e non spiega la sua storia specifica. Sarebbe impossibile tracciare tutti gli aspetti di questa storia, una storia descrivibile solo attraverso situazioni concrete. Nel Capitale Marx considera quello che chiama “il processo lavorativo” indipendentemente “da ogni formazione sociale”. Marx descrive questo processo come uno schema generale in cui il lavoratore trasforma la natura e se stesso attraverso la mediazione di uno strumento. Lo strumento subordina la natura ma è con l’astuzia della ragione che diventa strumento prometeico di trasformazione.[9]Il lavoro è la sottomissione dell’attività umana alle leggi naturali per dominarle, la negazione della negazione. Come scrive Marx, “Così lo stesso elemento naturale diventa organo della sua attività: un organo che egli aggiunge agli organi del proprio corpo, prolungando la propria statura naturale, nonostante la Bibbia”. Ma nonostante la tesi di Marx secondo cui lo schema alla base di tutta la produzione è tracciato dall’attività, il capitolo del Capitale “Macchina e Grande Industria”, che esamina l’automatizzazione nella fabbrica, riduce il lavoratore a un “organo cosciente della macchina”. Lo “strumento” era identificato come un’autotrasformazione prometeica, che trasforma l’uomo da “a immagine di Dio” a creatore di immagini e cose, mentre la “macchina” viene associata alla frammentazione e alla distruzione dell’unità del corpo. Questo processo di frammentazione culmina nel famoso brano dei Grundrisse, “Il Frammento sulle Macchine”, in cui la macchina diventa virtuosa e il lavoratore è ridotto a niente più che un controllore del processo lavorativo, un organo cosciente che sovraintende meramente la vasta rete delle macchine. Questa è la contraddizione in movimento, almeno una parte di essa: la forza lavoro è sostituita dalle macchine ma continua a essere la misura della produzione. 

Nel capitolo postumo del Capitale intitolato “Risultati del processo di produzione immediato”, il capitolo sesto inedito, Marx riflette su una tendenza diversa. Questa tendenza è radicata nella divisione fondamentale tra il capitalismo e i modi di produzioni precedenti ma Marx va oltre e scrive 

Paragonato al lavoro dello schiavo, questo lavoro diviene più produttivo, perché più intenso. Infatti lo schiavo lavora unicamente sotto il pungolo della paura esterna, non per la propria esistenza, che non gli appartiene ma gli è garantita; laddove il lavoratore libero è spinto e pungolato dai suoi bisogni. La coscienza (o meglio l’idea) di essere liberamente autodeterminato, di essere libero, e la sensazione (coscienza) di responsabilità che vi si accompagna, fanno dell’uno un lavoratore molto migliore dell’altro, perché il primo, come ogni venditore di merci, è responsabile della merce che fornisce, e che deve fornire in una certa qualità se non vuol lasciarsi battere ed eliminare dagli altri venditori della stessa merce.

La pressione esterna è sostituita da una motivazione interna. Questa tendenza diventa anche più pronunciata quando il lavoro non solo diventa più precario, spingendo più lavoratori a competere fra di loro per i posti di lavoro, ma diventa sempre più slegata da qualsiasi risultato concreto. Quella che sembra un’opposizione tra la riduzione del lavoratore a un organo cosciente e l’intensificazione della motivazione del lavoratore è più che altro una dialettica in cui dequalificazione e interiorizzazione coesistono e si rinforzano l’un l’altra. “C’è un costante alternarsi di soggettivazione e desoggettivazione, di automazione e resistenza… che si svolge assieme alla fabbricazione degli individui e allo sviluppo del capitale”.[10] Il lavoratore potrebbe essere ridotto a organo cosciente di un processo sociale e tecnologico che lo supera, ma nonostante ciò è forzato ad assumersi la responsabilità per l’intero processo. Ed è proprio il fatto che il lavoratore è niente più che un organo cosciente che fa sì che gli indicatori dell’impegno soggettivo diventino più importanti: gli organi forse sono solo organi ma devono essere coscienti, assumendosi responsabilità per l’intero processo. È per questo, come sostengono Paolo Virno e Peter Fleming, che gli indicatori soggettivi dell’impegno assumono un’importanza elevata nei posti di lavoro contemporanei, un atteggiamento professionale è più importante del lavoro svolto, perché la performance lavorativa è sia “meno” che “più” del rapporto salariato: è “meno” nel senso della tendenza a ridurre il lavoratore a un semplice organo cosciente, un processo che si può trovare non solo nello sviluppo della grande industria ma anche nella riproduzione sociale in sé, quando il lavoratore diventa solo controllore del lavoro delle macchine; è “più” nel senso che come controllore il lavoratore deve identificarsi con l’azienda. 

Per concludere, è possibile dire che un esame dell’antropologia della forza lavoro è un corollario necessario all’antropologizzazione del lavoro: il lavoro è sempre più interiorizzato sia come potenza astratta che come mansione concreta, è privato della sua determinazione sociale per diventare una qualità naturale. Il lavoro, non solo la capacità fisica, ma la disponibilità sociale, affettiva e mentale a lavorare, è diventato una seconda natura che cancella la prima. Il lavoro si è antropologizzato nello stesso momento in cui il suo bisogno reale è diminuito. Questa è la contraddizione in movimento di cui Marx scriveva che alla fine produrrà una società di lavoratori senza lavoro. Ma non basta semplicemente rifiutare il lavoro o definire un’etica anti-lavorista, è necessario ripensare e riarticolare sia la finitezza del lavoro, la costrizione che lega il lavoratore a un pacchetto di competenze particolari, sia la sua capacità infinita di trasformazione e astrazione. Forse è questo che è in gioco nel concetto di lavoro vivo, né il concreto né l’astratto, ma entrambi intesi come basi della soggettività e della socialità invece che come basi del valore di scambio e del valore d’uso.

 

[1]Su questo punto M. Henry, Marx, Marietti, 2010. 

[2]K. Marx e F. Engels, Selected Correspondence, Progress, 1955, p. 186.

[3]K. Marx, Il Capitale, Libro primo, cap. 1.2.

[4]Ibid., cap. 1.3.

[5]E. Balibar, La filosofia di Marx, Manifestolibri, 1994.

[6]È nota la critica di Marx alla Fenomenologiadi Hegel di aver considerato il lavoro solo come lavoro astratto: “[Hegel] concepisce il lavoro come l'essenza, come l'essenza che si avvera dell'uomo; egli vede solo il lato positivo del lavoro, non quello negativo. Il lavoro è il divenire-per-sé dell'uomo nell'ambito dell'alienazione o come uomo alienato. Il solo lavoro che Hegel conosce e riconosce, è il lavoro astrattamente spirituale” (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844). Al contrario, Jameson sostiene che il concetto hegeliano di lavoro è un’ideologia artigianale (Jameson 2010, p. 68).

[7] J. Matthys, “Notes sur un communism de la finitude. Hommage à André Tosel.”

[8]«Da questo punto di vista, potremmo dire che il capitalista si occupa della forza lavoro dei suoi lavoratori, trattandoli come una ‘forza produttiva’, la cui produttività intende alzare per produrre plusvalore relativo. Una pratica metafisica in un modo non teorico ma pratico. Si pratica questo strano tipo di metafisica non durante il tempo libero, come una distrazione o un esercizio mentale, come un cruciverba, ma durante tutto la giornata lavorativa dedicato alla produzione. Aprendo la sua azienda a idee come “forza”, “capacità”, ne fa una realtà, realizzando queste finzioni, questi prodotti mentali, si ottiene un’efficienza spaventosa. Cosi con buste paga e calendari dei compiti organizzativi, mostra meglio delle verifiche astratte di un filosofo che il lavoro della metafisica non può essere più materiale se si sa come usarlo bene dentro la fabbrica. Per inciso, si potrebbe far derivare da ciò una nuova e caustica definizione della metafisica: in questo contesto specifico, si riduce a un meccanismo per fare profitto. Ciò significa che assieme ad altre innovazioni che hanno cambiato il corso della storia, il capitalismo ha trovato i mezzi, le procedure, il “trucco” che rende possibile mettere in pratica i concetti – il marchio del suo “genio”». P. Macherey, Il soggetto produttivo, ombre corte, 2013.

[9]È in questo contesto che Marx descrive il ruolo della ragione nel processo lavorativo. Come scrive Hegel, “La ragione è astuta quanto potente. L’astuzia consiste in generale nell’attività mediatrice che, facendo in modo che gli oggetti operino l’uno sull’altro in conformità alla loro natura e facendoli logorare dal lavorio dell’uno sull’altro, senza immischiarsi direttamente in questo processo, tuttavia non fa che portare a compimento il proprio fine” (G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte I: “La scienza della logica”, § 209, Utet, Torino, p. 434).

[10]Y. Citton, Renverser L’insoutenable, (Paris: Seuil, 2012) p. 143.

 

*Pubblicato su Unemployed Negativity, traduzione di Giasone Leggo