Stampa

Populismo, stato-nazione, sovranismo, Europa. Alle origini del “Nuovo Ordine” europeo

on .

Riflessione di Emilio Quadrelli sul cosiddetto “populismo”

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa.

(K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista)

Il populismo è, almeno in Europa, una delle principali questioni politiche di questa importante e forse decisiva fase storico – politica. Dalla Svezia all’Italia, passando per la Germania e l’Austria, per non parlare di quanto avviene nell’est Europa, il populismo ha ormai assunto dimensioni tali da non poter essere accantonato come puro folclore. Di ciò la Brexit inglese ne è stata, tra l’altro, qualcosa di più che una semplice avvisaglia. Nella stessa Francia Macron governa con una maggioranza elettorale che è ben distante dall’essere maggioranza politica dentro il Paese. Quantitativamente il populismo del FN e il nazional/comunismo, sempre più nazionale e sempre meno comunista, di FI sono di gran lunga superiori a Macron. L’autunno francese si preannuncia particolarmente caldo anche perché, in Francia, oltre alle due opzioni populiste è presente, con numeri e forze non indifferenti, quella “variabile banlieue” che non lascia dormire sonni tranquilli a nessuno. Insomma quella Europa delle elite sognata e vagheggiata da tempo sembra essere arrivata al capolinea. Macron, la punta di diamante di questo progetto, appare abbondantemente in caduta libera mentre il ceto politico italiano, il più estremista nel fare sua la modellistica politica delle classi agiate, è in piena disfatta. Difficile, infatti, trovare un partito politico e i suoi esponenti tanto odiati a livello di massa quanto il PD. Ciò che a lungo era stato considerato un fenomeno tra il grottesco e il naif ha assunto dimensioni tali da non poter essere ignorato.

Lo spettro che i populismi starebbero facendo albeggiare è quello del nazionalismo insieme al sovranismo dello stato-nazione. Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro dello stato-nazione. Tutte le borghesie imperialiste, tutte le consorterie finanziare transnazionali, tutte le holding multinazionali insieme alle burocrazie e tecnocrazie continentali hanno dichiarato guerra al populismo. Così, in maniera un po’ ironica, potrebbe essere riscritto Il manifesto. Ma le cose stanno realmente così? Il populismo è realmente una forza intrisa sino alla radice di nazionalismo e il suo progetto è la distruzione del progetto imperialista europeo con conseguente rigida riconfigurazione degli stati-nazione? Certo le suggestioni nazionaliste e sovraniste tout court non mancano e, come vedremo, possono contare su sponsor di primordine ma è proprio il populismo il soggetto politico di questo progetto? Vista l’importanza della questione appare opportuno provare ad affrontare le cose con un minimo di criterio emancipandosi al contempo da tutte quelle retoriche di senso comune che, nel nostro Paese, troneggiano grazie a quell’insieme di “intellettualità” asservita al neoliberismo e a quel ceto politico piddino che da lungo tempo può vantare una dominazione culturale non secondaria. In poche parole occorre provare a esercitare una qualche serietà analitica distante e smarcata dagli incantatori di serpenti alla Saviano e dagli yes man di Repubblica.  

Se osserviamo con un minimo di attenzione la pubblicistica che, pur con angolazioni diverse, è decisamente schierata sul totale ripristino della sovranità nazionale e su quella forma statuale conosciuta come stato-nazione troviamo sostanzialmente tre aree politiche. Per strano che possa sembrare tra i primi irriducibili sostenitori di questo sogno possiamo annoverare tutte le varie residualità nazional/comuniste. Per costoro ripristino integrale della sovranità nazionale significa riprodurre quel binomio stato-nazione/stato-sociale che ha fatto da sfondo alle politiche statuali europee del Secondo dopoguerra. Asse portante di questa costruzione sono le masse subalterne autoctone. In soldoni il sovranismo sarebbe l’unica garanzia per rimettere in piedi quel patto socialdemocratico che il movimento operaio ufficiale europeo aveva inaugurato all’indomani della vittoria sul nazifascismo. Bisognerebbe, insomma, non solo fermare il tempo ma far girare al contrario le lancette dell’orologio. Non a caso i nazional/comunisti si dichiarano decisamente contrari alla globalizzazione non si pongono, cioè, il problema di come essere contro stando dentro i processi materiali ma, come bambini capricciosi, rifiutano di prendere atto di ciò che la realtà ha obiettivamente imposto. Lenin palesemente non è cosa loro.

In seconda battuta troviamo i neofascisti d’hoc. Il loro orizzonte rimane pur sempre quello, rimanendo sul piano locale, dell’Italia proletaria e fascista insieme ai suoi milioni di baionette. La nazione, il nazionalismo aggressivo insieme alla razza italica sono i loro inamovibili totem. Con ogni probabilità la Grecia dei colonnelli o la Spagna franchista sono i sogni che coltivano. Non diversamente dai nazional/comunisti sono contro la globalizzazione e, al pari di questi, non si pongono minimamente il problema di come starvi dentro pur essendo contro. Il chiamarsi semplicemente fuori è il succo del loro progetto. Il ripristino integrale dello stato-nazione ne è, per forza di cose, l’immancabile corollario. In quanto nazionalisti e fascisti la centralità e l’unicità del popolo italiano non è neppure oggetto di discussione.

La terza area politica, infine, è data da quel complesso e magmatico mondo del rossobrunismo. Qua le cose si complicano poiché i rosso bruni più che un blocco politico omogeneo sono un insieme di tendenze unite da una comune “aria di famiglia” ma ben distanti dal rappresentare un tutto organico. Al loro interno “comunitaristi”, filo islamisti, cattolici integralisti, evoliani, ultrà delle SA, nazional/bolscevichi e sicuramente ne abbiamo scordato qualcuno, convivono grazie alla comune condivisione di essere forze anti-sistema. Sul piano empirico possono trovarsi addirittura schierati su fronti opposti. In Ucraina, infatti, alcuni rosso-bruni combattono con Kiev, altri con le Repubbliche secessioniste. In questo mare perennemente in tempesta forse solo i nazional/bolscevichi, gli esegeti delle SA e i cattolici integralisti possono essere ascritti all’ambito proprio del nazionalismo e del ripristino tout court dello stato-nazione.     

Accanto a queste forze di, tranne qualche rara eccezione, modesta proporzione vi sono due attori, di ben altra stazza e potenza, particolarmente interessati a rimettere in piedi l’epopea degli stati-nazione dentro il Vecchio Continente: gli Stati Uniti e la Russia. Per entrambi impedire la costituzione di un polo imperialista europeo è infatti di vitale importanza. Dentro una contesa internazionale che, sotto tutti gli aspetti, si mostra sempre più incandescente il delinearsi di una potenza politico-militare come l’ipotetico polo europeo potrebbe diventare è qualcosa che va assolutamente scongiurata. Un tentativo sicuramente carico di buon senso poiché, se l’Europa giungesse veramente a compiere questo balzo, sulla scena internazionale vi sarebbe un contendente che andrebbe ben oltre l’Euro il quale, cosa che val la pena di ricordare, già di per sé non pochi fastidi ha procurato al dollaro.

Intorno all’asse franco-germanica si andrebbe costituendo un potenziale militare non secondario a nessuno mentre, in relazione alla stessa produzione industriale, la nazione europea sarebbe seconda solo alla Cina infine, anche sotto il profilo finanziario, la massa di capitali che l’Europa sarebbe in grado di muovere e governare le garantirebbe una potenza quanto mai temibile in un settore, il capitale finanziario, oggi più che mai strategico. Tutto questo le darebbe un peso politico sulla scacchiera internazionale che, comprensibilmente, fa sudare freddo le potenze precedentemente ricordate. Ce n’è abbastanza, quindi, per tentare in ogni modo che ciò non avvenga e che la frantumazione dell’Europa ristabilisca l’esistenza di stati-nazione possibilmente con relazioni non proprio idilliache tra loro. Un Europa nuovamente teatro di guerra le cui spoglie spartirsi al momento opportuno è un sogno che tanto gli Stati Uniti e la Russia nel profondo del cuore coltivano.

Ipotesi, congetture e aspirazioni che non solo esistono ma sono sicuramente coltivate con notevole attenzione e dedizione da questi potentati. Il foraggiamento e il supporto, diretto e indiretto, che USA e Russia forniscono a queste aree è sotto gli occhi di tutti. Tutto ciò, però, ha un problema al quale, l’esergo posto a incipit del testo, però ha già risposto. Il movimento del capitale può essere spezzato ma non governato. Del resto, e non da oggi, sappiamo che la borghesia è in grado di cogliere il movimento solo post festum. Dai passaggi che la globalizzazione ha imposto non si può tornare indietro si può, ma questo è compito dell’insorgenza proletaria e subalterna non certo di qualche consorteria imperialista, rompere e spezzare il movimento del capitale, retrodatarlo mai. In questa partita USA e Russia hanno ben poche chance di riuscita. Il treno contro la storia non è e non è mai stato parte del loro corredo. Gli imperialismi possono, nella migliore delle ipotesi, comprendere la storia solo quando questa si è già abbondantemente dis-velata. Ciò è quanto racconta esattamente tutta la storia della borghesia. La borghesia non è mai in grado di anticipare il divenire questo è compito della dialettica marxiana che, notoriamente, non è cosa loro. Andando al sodo il ripristino artificiale degli stati-nazione non sembra un’operazione particolarmente prona al realismo.

Alla luce di ciò, allora, dobbiamo porci alcune domante. Primo, il populismo è veramente ascrivibile alle aree politiche ricordate o, per altro verso, è in sintonia con il progetto politico coltivato da Stati Uniti e Russia? Secondo, il populismo punta alla disintegrazione dell’Europa? Terzo, è possibile ricondurre il populismo a tutto ciò? Certo, al pari di tutti i movimenti eclettici, i populisti pescano senza farsi troppi problemi un po’ qua e un po’ là. Temi cari a sovranisti di tutte le specie li ritroviamo in continuazione nella propaganda populista, non è questo il punto. Centrale, piuttosto, è comprendere se i populisti, al pari delle tipologie brevemente descritte, rappresentano e sono una nostalgia del passato, ovvero sono forze novecentesche, oppure, in maniera molto più pericolosa, sono forze del presente e del possibile e drammaticamente tetro futuro prossimo.

Nei loro confronti e nella loro linea di condotta si è sovente intravisto il riapparire del nazifascismo, con tutti gli annessi e connessi. Solo che, e qua l’abbaglio mortale preso da molti, si va alla ricerca di quegli aspetti che il nazifascismo stesso aveva, almeno nella pratica, già liquidati. Si va alla ricerca di una possibile quanto improbabile “marcia su Roma” o “raduni di Norimberga” si vanno a cercare, cioè, le forme ancora nazionali del nazifascismo dimenticando che, anche se nel suo crepuscolo, il nazifascismo si era emancipato della sua origine nazionalista per assumere una dimensione Continentale. Del resto, per quanto paradossale possa sembrare, dal ’44 in poi l’esercito nazista è assai più multietnico e multinazionale di quanto non fossero le stesse truppe Alleate. Bisogna sempre tenere ben a mente che i processi materiali sono pur sempre più forti delle ideologie che provano a contenerli. L’imperialismo, per sua natura, non può essere compresso in una dimensione esclusivamente nazionale. Può, sicuramente, esservi una dominanza nazionale che però è ben altra cosa dal nazionalismo. Al termine del suo tragico cammino il nazismo assunse esattamente questa dimensione transnazionale. Dalla nazione germanica, alla nazione europea. In fondo alla sua tragica corsa il nazionalsocialismo “scoprì” l’Europa.

In realtà di questa dimensione postnazionale del nazionalsocialismo se ne ha una non secondaria anticipazione teorica in alcuni testi di Carl Schmitt quali, ad esempio, L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale del 1941 e Mutamento di struttura del diritto internazionale del 1943, temi ripresi in lavori del dopoguerra come L’unità del mondo, del 1952, Dialogo sul nuovo spazio del 1955; lo stesso Nomos della terra del 1950, forse uno dei suoi lavori più importanti, è esattamente in una dimensione postnazionale e fortemente Continentale così come il classico Terra e mare del 1942 è una sostanziale anticipazione di una modellistica politica non più compresa e compressa dentro le strettoie della nazione.

Allo stesso tempo autori contigui al nazionalsocialismo come Jünger e Salomon avevano, pur da angolazioni diverse, prospettato con notevole anticipo la dimensione postnazionale dell’humus nazionalsocialista. Nel testo “sociologicamente” maggiormente impegnato di Jünger, L’operaio del 1932 a emergere è il “tipo umano”, non etnicamente connotato, che fa interamente suo il destino della società industriale e su questa si plasma mentre ne I proscritti del 1930 di Salomon a diventare determinante è la dimensione esistenziale di uomini dal forte tratto bohémien in rivolta contro tutto ciò che rappresenta e incarna la tranquillità della vita borghese. Autori che, non a caso, furono più tollerati che amati dal nazismo e che, anche in seguito, non riscossero grande successo e approvazione tra il pensiero mainstream degli eredi ufficiali del nazifascismo mentre fu proprio la destra radicale, vera erede dell’ultimo nazionalsocialismo, ad assumerli come punti di riferimento costanti della sua elaborazione politica.

Su questo solco sembra prendere le mosse la forma politica populista. Insomma, se vogliamo comprendere il populismo, è da qui che si deve partire. Se vogliamo comprendere quanto sta accadendo davanti ai nostri occhi è volgendo lo sguardo esattamente là dove si è interrotto l’europeismo nazionalsocialista e l’insieme di ordini discorsivi che, in maniera sotterranea, proprio da lì hanno preso le mosse. Facciamolo, senza andare troppo a ritroso nel tempo, partendo dal presente. Notoriamente il populismo si presenta come un movimento né di destra, né di sinistra che nel superamento di queste categorie, alle quali il populismo contrappone l’unità del popolo, troverebbe la sua ragione di esistere. Solitamente tutto ciò è stato osservato come un semplice escamotage per mascherare il tratto fascista e reazionario, quindi di destra, del populismo. In realtà le cose sembrano essere più complesse e dietro quel né di destra, né di sinistra vi è ben di più che un semplice mascheramento. In quell’asserzione vi è tutto un progetto politico che cristallizza, al contempo, il senso del populismo insieme al suo indubbio successo.

Per comprenderlo dobbiamo tenere a mente quella frattura intervenuta dentro il nazifascismo subito dopo la fine della guerra. Da un lato, ed è la componente più nota, si delineò la componente “pragmatica” che, in funzione anticomunista, sposò a piene mani l’atlantismo. La loro storia, ampiamente conosciuta, è quella dei mazzieri del capitale. Ideologicamente la loro postazione è ampiamente ascrivibile al “mondo dei nostalgici”, al nazionalismo ecc., ecc., In Italia il MSI fu per lo più questo. Legato a doppio filo alla destra del partito – regime aveva sostanzialmente il compito di svolgere il “lavoro sporco” al fine del mantenimento dello status quo. Italianissimi e ipernazionalisti i missini combattevano una battaglia sostanzialmente di retroguardia ritagliandosi spazi di potere e di introiti economici dentro il sistema. Lo “strappo” atlantista li aveva, di fatto, immunizzati. Altre, invece, le piste seguite da quella che nel lessico comune verrà definita come destra radicale.

Questa destra è tanto antiamericana quanto antisovietica e il suo obiettivo è riporre al centro l’idea di Europa come unità politica in aperta contrapposizione al mondo bipolare fuoriuscito dal Secondo conflitto mondiale. Costruire l’identità della nazione Europa diventa l’obiettivo principale coltivato dalla destra radicale. Si tratta, cioè, di costruire il volk su scala Continentale, andando alla ricerca di una “tradizione” e una “cultura” comune. Si potrà obiettare che siamo di fronte a una costruzione del tutto artificiale, a un mitologema ma è una obiezione di pastafrolla. Tutte le “tradizioni”, come è stato ben argomentato e ampiamente descritto, sono frutto di una invenzione così come le “reti culturali” non esistono in natura ma sono sempre prodotti umani entro le quali gli uomini rimangono imprigionati. Dobbiamo pur sempre ricordare che “non di solo pane, vive l’uomo” e che tradizioni e culture, ciò che in fondo è riconducibile all’idea di identità, sono parti inseparabili dell’esistenza umana. La “tradizione” esiste non perché vera in sé ma perché un insieme di fattori l’ha resa vera. Solo un effetto di potere è in grado di trasformare una fantasia in un “fatto sociale totale”.

La nazione Europa è la fantasia che la destra radicale, già sul finire degli anni ’50,prova a far diventare un “fatto sociale totale”. Ciò è importante rimarcarlo. Non si tratta di una semplice costruzione politica o di dar vita a un nuovo movimento politico interno a uno scenario dato. Si tratta di sovvertire alle radici tutto lo scenario politico esistente tanto che, tra questa destra radicale e la destra tradizionale e atlantista, il conflitto non sarà particolarmente tenero. La battaglia sui simboli, sulle tradizioni e le origini culturali sarà quanto mai dura e aspra. Da una parte i nazionalisti con le loro storie patrie e tutti i simboli connessi, dall’altra gli europeisti alle prese con una costruzione culturale ex novo. Senza andare troppo a ritroso nel tempo basta ricordare come in tutta fretta, già a metà degli anni ’70, la celtica si fece simbolo pressoché egemone soprattutto tra le nuove leve della destra “postnazionale”così come la scoperta delle origini celtiche si fece ben presto quasi un luogo comune.

L’approdo verso Tolkien e il filone fantasy furono un altro mezzo finalizzato alla messa in – forma di un immaginario identitario il cui scopo era dare sostanza, forma e vita a quel “tipo umano” proprio del volk europeo. In tutto ciò, come sembra essere palese, vi è ben poco nazionalismo e sovranismo piuttosto un’idea di “comunità popolare” che “riscopre”, al termine di un lungo e sofferto cammino, le sue origine uniche e autentiche. Un lucido delirio? Non proprio. Se, come tutti per lungo tempo hanno accettato, l’idea che le nazioni sono state l’effetto di un risveglio si è fatto dato storico-oggettivo, per quale motivo dovrebbe essere meno vero l’improvviso riapparire dell’Europa tutta intera? Sotto questo aspetto il mitologema del popolo celtico può funzionare a meraviglia. Tra l’altro il fatto che i celti, ed è un fatto storico, entrarono in conflitto con i germani mostra come l’epopea dei “Cavalieri teutonici”, quindi della destra nazionale e nazionalista, sia tramontata e la nuova “comunità del popolo” poggi su una ridefinizione etnica a trecentosessanta gradi e i suoi punti di riferimento “ideali” abbiano intrapreso sentieri del tutto nuovi.

Non più i Nibelunghi o L’oro del Reno ma il “ciclo arturiano” diventano modelli costitutivi del nuovo “tipo umano” autenticamente europeo. Autori precedentemente ricordati come Salomon e Jünger, soprattutto la produzione letteraria di quest’ultimo, sono scientemente scelti come “cattivi maestri” in quanto antesignani di una “visione del mondo” eroica, non convenzionale e antiborghese e tutta protesa alla ricerca e all’affermazione di quella “autenticità dell’esserci” che solo un nuovo “tipo umano” è in grado di fare sua. I testi di questi autori forniscono le armi per una rottura con quella destra che si è volontariamente ritagliato uno spazio, neppure troppo piccolo, dentro la società legittima. Una destra che si è asservita all’imperialismo di una società, che la destra radicale definisce impura e bastarda, come quella nordamericana e che, con ciò, ha tradito l’idealità propria della nazione Europa. Lo stesso Evola, in funzione della battaglia per l’Europa, viene riscoperto e tirato fuori dai cassetti un po’ ammuffiti in cui la storia del pensiero lo aveva confinato. La destra radicale, ed è qua il punto, dentro e sin dall’inizio di tutto questo lavorio si autorappresenta né di destra, né di sinistra. Un po’ troppo, obiettivamente, per una semplice operazione di mascheramento. Tanto che, pur se non in maniera lineare e per filiazione diretta, questi semi hanno e stanno dando frutti non proprio irrisori.     

Il populismo di questa narrazione è figlio. Può essere quindi antieuropeo e irriducibilmente propenso alla riconfigurazione degli stati nazionali? Palesemente no. L’operazione che il populismo sta portando avanti, e il progetto è quanto mai giunto a uno stadio avanzato, è la costruzione dell’Europa non dei popoli bensì del popolo. Ancora il volk e il suo mitologema ma, come tutto l’ordine discorsivo della destra radicale ha coltivato da decenni, non più perimetrato sulla nazione bensì sul Continente. Al fondo del progetto populista non vi sono gli stati-nazione ma l’Europa/Nazione o, seconda la suggestione evoliana, l’Imperium. Non l’autonomia dei popoli in fraterna e benevole cooperazione ma un unico volk aggressivo e compatto del tutto interno e compatibile con la messa in forma di un polo imperialista politicamente unito e militarmente potente. Non bisogna dimenticare che, una volta poste in marcia, le cose “camminano da sole” per questo il populismo, in quanto idea-forza, va oltre le modeste capacità teoriche e intellettive dei suoi leader, del resto Hitler era tutto tranne che un genio ma è riuscito ugualmente a tenere in scacco il mondo. Sarà meglio non dimenticarlo.

Dentro tutto ciò rimane da chiedersi quale sarà il comportamento delle elite europee. Certo queste potrebbero anche decidere di suicidarsi e fare muro contro il populismo ma, ben più realisticamente, queste saranno portate a inglobare il populismo dando vita così a un modello politico imperialista nuovamente incentrato sul volk. Preso atto che, per l’ennesima volta, l’utopia aristocratica della classe agiata non ha gambe per marciare e che non è possibile liberarsi delle “società di massa” l’unica concreta via di uscita sta nel fare propria quella europeizzazione delle masse che sta alla base del progetto populista. Con ogni probabilità non vi sarà alcun ein führer ma sicuramente ein reich ed ein volk.In tale direzione deve essere colto il recente incontro tra Tony Blair e Matteo Salvini. Da una parte un autorevole esponente di quella classe agiata che ha provato a costruire il polo imperialista europeo a propria immagine e somiglianza ed ha fallito, dall’altro uno dei leader più significativi e autorevoli del populismo. Entrambi sanno benissimo che non possono far altro che andarsi incontro. Le elite, con un popolo in rivolta, non possono governare ma il volk del populismo senza le elite è nulla. Il fatale abbraccio tra le due parti è tanto scontato quanto obbligato. Nessuna frantumazione dell’Europa, nessun ripristino anacronistico dello stato-nazione e della sua sovranità ma un polo imperialista costruito intorno all’immaginario del nuovo volk è quanto sembrerebbe riservarci un futuro non particolarmente distante.

Questo il banco che bisogna provare a far saltare. E non sarà facile. Di sicuro, però, non è rincorrendo il “mondo di ieri” che ciò avrà una qualche possibilità di riuscita. Dentro a questo processo, piaccia o meno, ci siamo immersi sino al collo e non è che chiamarsi fuori appaia una via minimamente sensata. Il problema è come riuscire a essere contro. Anche in questo caso, però, non è facendo affidamento sui soggetti politici del passato che è pensabile di ottenere qualche successo. Come lo stato-nazione non è una soluzione allo stesso modo non lo è ciò che lo ha a lungo perimetrato ovvero l’insieme del proletariato nazionale. Al volk europeo e ai suoi immaginari identitari vanno contrapposti, in maniera organizzata, i subalterni internazionali che il capitale ha globalizzato. Non il mostro sacro dell’unità di classe che, a conti fatti, è qualcosa di immaginario tanto quanto il volk bensì il settarismo subalterno dei soggetti sociali concreti in lotta.