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Nel tempo della folla solitaria

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0. Da tempo abbiamo messo a critica la forma-movimento, ovvero un’identità di appartenenza a qualcosa che non c’è più. C’è stato un periodo in Italia, e qui sta la nostra anomalia forte, in cui dirsi militanti di movimento significava qualcosa di preciso, un noi organizzato dentro l’autonomia delle lotte e della soggettività di classe. A partire dagli anni ’80 e poi con l’esperienza dei centri sociali degli anni ’90, abbiamo ereditato quell’anomalia e continuato a definire in modo specifico e non generico il movimento.

Non certo da oggi quest’anomalia si è esaurita, e con essa dobbiamo superare quella definizione. Non per smettere di agire affinché i movimenti ci siano, ma al contrario per permetterne l’emersione, per cogliere delle tendenze, per collocarci progettualmente al loro interno. Per guardare avanti e non indietro. E ancor prima, per non fare da tappo. Ora, se ci liberiamo di questa supponente finzione, se smettiamo di autonominarci rappresentanti di ciò che non c’è, possiamo cominciare a ragionare sulla fase. Di un dibattito di questo tipo ne sentiamo il bisogno, e ne vediamo troppo poco in giro.

1. Per iniziare a reimpostare materialmente e non retoricamente il problema del che fare, dunque, dobbiamo comprendere dove siamo collocati e contro chi ci collochiamo. Parlando con compagni e compagne emerge spesso la preoccupazione che il prossimo anno politico sia la fotocopia di quello passato, cioè, per usare un eufemismo, avaro di occasioni di mobilitazioni. Noi vediamo un rischio peggiore, ossia che a breve – o magari nel mitologico “autunno” – ci siano delle mobilitazioni che ripropongano l’anti-berlusconismo in chiave ridotta, ovvero più piccole quantitativamente, meno interessanti qualitativamente, a immediata egemonia della sinistra istituzionale (leggi PD) complessivamente. Ne abbiamo già visto delle inquietanti anteprime nelle scorse settimane, a Milano per esempio.

Perché anti-berlusconismo in chiave ridotta? Perché negli ultimi dieci anni quel ceto medio su cui poggiava le sue basi è stato frantumato dalla crisi. Non abbiamo mai avuto – per usare un altro eufemismo – particolare simpatia per la cosiddetta società civile: ma a prescindere da cosa se ne possa pensare politicamente, oggi è sotto gli occhi di tutti come la società civile sia morta (insieme alla sinistra: evviva!). Nel momento in cui il ceto medio è attraversato da violenti processi di declassamento e polarizzazione, travolto dalla maledetta concretezza delle difficoltà nella propria riproduzione, ridotto a folla solitaria di individui, le figure che vi appartengono hanno sempre meno tempo e voglia di occuparsi dei temi ideali. Da qui deriva anche l’esaurimento del pacifismo e del modello no war che avevano riempito le piazze una quindicina di anni orsono. In quel deserto cresce al contrario incattivimento e rancore, come frutti materiali della crisi e non come conseguenze ontologiche del seme.

La domanda che dobbiamo porci è: questa folla solitaria è stata ricomposta in un blocco sociale saldamente egemonizzato dal leghismo? L’ipotesi frontista, al di là di ricorrenti e questi sì ontologici istinti opportunistici, risponde affermativamente. Pensiamo invece che questa folla solitaria non sia propriamente stato di natura in quanto, almeno per ora, non è unificata da alcun leviatano. Lì dentro vediamo un caos senza progetto, contraddizioni, ambiguità e conflitti che, come più volte ripetuto, si sfogano orizzontalmente laddove non trovano la capacità di indirizzarsi verticalmente. Questo stato caotico avrà probabilmente una durata temporalmente limitata, prima o poi si scomporrà e ricomporrà secondo delle linee di forza. Il punto è che o noi ci proponiamo di essere una linea di forza, oppure servirà a poco constatare l’autoavverarsi della profezia di sventura.

2. Vi è un’altra domanda che dobbiamo porci: il leghismo è la riproduzione sic et simpliciter del fascismo? Se volessimo guadagnarci qualche facile manciata di like su facebook, hobby diventato molto diffuso nelle nostre tribù, risponderemmo di sì. Tuttavia, se il fascismo è una categoria politica legato a un’esperienza storicamente determinata, la questione si fa ben più complicata. E a meno che utilizziamo il termine fascista come mero sinonimo di un insulto senza appello, aggiungiamo che ci sembra poco utile. Non lo diciamo per amore della correttezza scientifica, di cui ci importa ben poco. Lo diciamo per necessità della definizione politica del nemico, cosa di cui invece ci importa molto se vogliamo combatterlo realmente e non solo ideologicamente.

Proviamo a guardare, brevemente, alle trasformazioni della Lega. Negli anni ’90 era un partito di militanti e con un forte radicamento territoriale, forse potremmo dire l’ultimo partito del ’900. La Lega oggi è qualcosa di molto diverso. Non perché i militanti siano spariti e nemmeno il radicamento territoriale, questi però restano in alcune aree specifiche – segnatamente in Veneto e in parte della Lombardia – dove la Lega mantiene un profilo in una certa misura indipendente rispetto alla direzione salviniana. Complessivamente e in modo estremamente schematico potremmo dire che la Lega articola tre livelli differenti: una leadership forte; uno strato intermedio composto da amministratori che vengono da dieci o vent’anni di governo locale; una base con una componente militante territorialmente concentrata e una massa maggioritaria di opinione estremamente fluttuante (come spiegare altrimenti l’impennata nei consensi avvenuta negli ultimi mesi?). Personalizzazione, amministrativizzazione, liquidità: la Lega riassume in sé e tiene insieme in modo temporaneamente virtuoso quegli elementi che hanno caratterizzato la crisi della forma-partito tradizionale. Detta altrimenti, questa specifica forma-partito è la risposta della Lega alla crisi della militanza. Tale dinamica è quindi pregna di contraddizioni, che per ora tuttavia la leadership salviniana riesce non solo a governare, ma a farne motore di sviluppo politico e allargamento del consenso sociale.

Con ciò vogliamo sottolineare come ridurre la contrapposizione alla Lega all’ordine del discorso antifascista rischi tra le altre cose di attribuirle una compattezza e una potenza maggiori di quelle che ha. Rischia, cioè, di vedere blocchi di potere e sociali compatti laddove sono zeppi di contraddizioni o apertamente frammentati. Rischia quindi di non vedere possibilità di intervento politico laddove l’intervento politico può rovesciare un contesto di estrema fluidità. Ed ecco, come già dicevamo, la profezia che ai autoavvera, che sa tanto di autogiustificazione rispetto alla pigrizia teorica, all’incapacità politica o alle scelte di chi ha ormai rinunciato alla seria concretezza della prospettiva rivoluzionaria.

Insomma, l’impressione è che ci adagiamo sulle categorie e sull’ordine di discorso verso cui Salvini ci vuole spingere. Non ci salverà la radicalità delle forme e dell’aggressività retorica: schiacciati dentro il frontismo democratico, cioè del Partito Democratico, possiamo tutt’al più ricavarci una nicchia come estrema sinistra di questo fronte. Dunque non come avanguardia della soluzione, ma come codismo del problema. Servono allora lenti interpretative che non riproducano tic ideologici e dialettiche esaurite, o interamente interne alle dinamiche della politica istituzionale, comunque estranee ai comportamenti, alle tensioni soggettive e alla composizione sociale storicamente determinata.

(Dato chi scrive e coloro a cui innanzitutto ci rivolgiamo, non crediamo di dover aggiungere che laddove i gruppetti fascisti costituiscono un problema di agibilità politica di alcune strade, è ovviamente utile spazzarli via. Se possibile senza rumorose campagne di denuncia, che finiscono per far apparire loro ben più forti di quello che sono e noi nell’odioso ruolo delle vittime. La realtà è che dove si radica un intervento politico che va nella giusta direzione, questi gruppetti non ci sono o comunque non hanno alcuno spazio. Se poi danno fastidio, li si può liquidare perdendo meno tempo possibile con gli strumenti storici del proletariato: lo scotch palermitano docet. Per ridurli a quello che concretamente sono: sfigati.)

3. Come si combatte, allora, questo governo? Dire che non abbiamo ricette pronte è tanto vero da essere banale, ovvero inutile. Provare ad accennare qualche ipotesi è tanto difficile quanto doveroso, ovvero indispensabile. Per aprire il campo della riflessione accenniamo, soprattutto, a una postura che, crediamo, vada messa a verifica. Questa postura non è basata sull’idea della controinformazione, che si immagina rivolta a delle coscienze obnubilate dalla propaganda salviniana. Coerentemente con quanto sopra affermato queste coscienze non ci sono, e più in generale rivolgersi alla coscienza è sempre una posizione debole e idealistica. Salvini organizza il proprio ordine del discorso non sulla base del vero o del falso, bensì dell’utilità politica rispetto ai propri obiettivi. È mistificazione certo, però in senso marxiano: non fake news, ma un processo di occultamento e ricombinazione dei fatti fondato su interessi materiali. Anche a noi, con interessi contrapposti, non dovrebbe interessare il vero contro il falso, bensì la mobilitabilità e l’inveramento. Né è produttivo pensare di prendere lo stile e la forma comunicativa di Salvini, dicendo semplicemente cose differenti: perché quello stile e quella forma disegnano un campo che è già nelle mani del nemico. O si arriva prima, o non ci si arriva proprio.

Ipotizziamo allora una postura certamente difficile e sul crinale dell’ambiguità, basata sul portare alle estreme conseguenze le promesse di questo governo e, mostrandone lo strutturale tradimento, rovesciandogliele contro. Un esempio ovvio è quello del reddito. Invece di discettare sul vero reddito di cittadinanza e di spiegare (a chi poi?) che il reddito di qualche autoreferenziale apparato teorico “di movimento” è completamente differente da quello dei 5s, può valere la pena costruire dei comitati territoriali per il reddito che pretendono quello che è stato promesso. Il reddito, infatti, non è in sé una misura rivoluzionaria: non solo può essere assolutamente compatibile, ma sul piano internazionale è utilizzato come dispositivo di governo neoliberale. A noi dunque non interessa solo il risultato finale (l’ottenimento del reddito), bensì innanzitutto il processo, perché è qui dentro che possiamo aprire un campo di conflitto che vada ben oltre ciò che questa misura rappresenta. E nel momento in cui si è aperto uno scontro istituzionale attorno al reddito, il tempo è propizio per trasformarlo in terreno di scontro sociale.

Qualcuno forse obietterà: vi siete scordati che queste ipotesi di reddito, nelle loro ultime, fumose e sempre più restrittive formulazioni, sono rivolte agli italiani e non ai migranti? Ce lo abbiamo ben presente, però come abbiamo più volte sottolineato pensiamo che le politiche di razzializzazione agite da questo governo – in continuità con quello precedente – vadano combattute assumendo la razza come un terreno centrale e trasversale di mobilitazione, e non una dimensione settoriale legata esclusivamente ai migranti o ai “rifugiati” (termine che rappresenta un preoccupante arretramento di discorso e una legittimazione dei dispositivi di ulteriore gerarchizzazione tra le figure razzializzate). In questo caso, allora, la campagna per la rivendicazione del reddito andrebbe portata avanti mettendo concretamente e continuamente in discussione i confini posti dalla promessa, dunque stravolgendola: ciò può avvenire unicamente attraverso il processo di conflitto, non a partire da teorie universalistiche sulla giustizia umana. Al contempo, coinvolgere attivamente i migranti in un percorso di lotta come questo – non in quanto migranti, ma come soggetti che vivono condizioni di vita comuni o comunque simili a quelle degli autoctoni – permetterebbe di togliere loro la sinistra immagine di debolezza e agirne la forza, unico terreno su cui è possibile immaginare percorsi ricompositivi e perciò materialisticamente anti-razzisti.

Lo stesso tipo di postura andrebbe sperimentata su tanti altri temi (dalle tasse alle autostrade, ad esempio, fino ad arrivare in primis alla questione delle grandi opere). Ciò non significa affatto attendere passivamente che i delusi di questo governo prendano parola, perché sappiamo bene che se non incontra una linea di forza alternativa, la delusione non porta a nulla, anzi probabilmente aumenterà la solitudine che alimenta la sensazione di impossibilità del cambiamento. Il punto è agire nel campo ambiguo del tradimento delle promesse, provando anche a ricercare dove già eventualmente c’è una presa di parola, seppur in modi diversi o spiazzanti rispetto a quelli che immaginiamo: non perché ci interessino le promesse, bensì perché ci interessa trasformare il tradimento in forza antagonista. Ancora una volta, a dispetto di una malintesa voglia di concretezza che circola negli ambienti del cosiddetto “movimento”, dovremmo provare a ribaltare la gerarchia di priorità: in questa fase specifica il processo è tutto, il risultato è nulla. Dove l’opportunismo bernsteiniano sosteneva un’abdicazione strategica, noi assumiamo una necessità tattica; dove quello rinunciava ai macro-fini politici, noi li riaffermiamo rifiutando di esaltare i micro-obiettivi vertenziali; dove il processo era inteso come riformismo istituzionale, noi – contro i novelli e inconsapevoli Bernstein contemporanei – mettiamo al centro la produzione di contro-soggettività. Perciò, meglio una sperimentazione politica di conflitto che fallisca produttivamente, cioè con figure e su terreni centrali, piuttosto che una vertenza marginale che “vinca” chiudendo lo spazio all’allargamento della lotta e allo sviluppo dei processi di rottura e autonomia.

4. In questo tempo della folla solitaria, specularmente alla solitudine sociale prodotta dalla crisi economica, vi è una solitudine politica prodotta dalla crisi della militanza. Di fronte a questo peculiare tipo di solitudine registriamo tra i compagni e le compagne una risposta istintiva, volta a intensificare le relazioni dentro un movimento che non c’è più. C’è come un bisogno di prendersi per mano nel naufragio e stringersi forte, probabilmente non per salvarsi insieme, ma semplicemente per non affogare da soli. La solitudine dei militanti può essere combattuta esclusivamente nella costruzione di relazioni dentro la composizione di classe. Non chiudendoci nelle isole a noi note, ma costringendoci a solcare le onde a noi ignote. Questa folla solitaria ha un volto inquietante, certo, però non c’è un fuori: o ci organizziamo dentro e contro questo processo, oppure ci rifugiamo nell’inutile certezza di un noi alienato dal tempo. Perché il noi rivoluzionario non è dato una volta per tutte: è sempre un processo da conquistare continuamente, mai un punto di partenza da ostentare presuntuosamente.