Stampa

Il business del sociale

on .

Considerazioni di Militina su cooperative sociali, terzo settore, istituzioni della riproduzione e lavoro di cura

Quelle che seguono sono solo alcune osservazioni, appunti di inchiesta incompleti, riflessioni su problemi aperti o forse irrisolvibili, maturati lavorando come operatore nel settore del privato sociale. Credo che la buona militanza, quella materialisticamente fondata, non possa fare a meno di fare i conti con quello che c'è. Spesso quello che c'è non è affatto gradevole eppure da lì bisogna partire. Altrimenti o è idealismo o è volontarismo, cioè forme di militanza politicamente inutili.

La riproduzione sociale è ormai da tempo terreno di accumulazione capitalistica. Tradotto in termini più semplici ciò significa che attraverso le politiche di esternalizzazione e lo sviluppo del Terzo Settore lo Stato ha affidato ai privati,oppure a un pubblico privatizzato, la gestione di pezzi sempre più consistenti di welfare-state da cui estraggono profitti. Con molta probabilità si tratta di uno dei settori, al suo interno fortemente disomogeneo per forma organizzativa e del lavoro, a più alta crescita occupazionale. Il Terzo Settore è un importante segmento del più ampio ambito della riproduzione che sta al capitalismo contemporaneo, quantomeno alle nostre latitudini, come la metalmeccanica stava al fordismo nel secondo dopoguerra.

Credo sia abbastanza inutile ripercorrere la genealogia “nobile” del privato sociale. Quella che riconduce la comparsa dell'arcipelago di cooperative e di associazioni che si occupano di sociale alla spinta politica dei movimenti degli anni ’60 e ’70 o prima ancora alle forme mutualistiche di un movimento operaio agli albori, perché è un argomento che viene spesso utilizzato, soprattutto dalla sinistra, per difendere le politiche neoliberali che hanno aperto all'investimento capitalistico nel settore. Per impresa sociale infatti non bisogna intendere un'impresa attenta a presunte finalità sociali ma, come accennato più sopra, un'impresa (capitalistica) che esercita la propria capacità di accumulazione sul terreno del sociale. Al di fuori di questa definizione e dei soggetti economici che la incarnano esistono pure piccole ed eticamente virtuose esperienze di servizi di cura e di riproduzione, ma se non riescono a stare sul mercato (ovvero se non si trasformano in impresa capitalistica) o scompaiono oppure sono del tutto marginali e risucchiano enormi quantità di lavoro gratuito o volontario. Il problema politico allora non è tanto sfruttare i margini della governance, nella crisi sempre più ristretti, per restituire nobiltà al terzo settore attraverso per esempio forme di autogestione, ma attaccare il sistema che governa l'estrazione di profitti dal lavoro vivo degli operai e delle operaie della cura, e dallo sfruttamento delle vite di “scarto” che finiscono in una di queste istituzioni della riproduzione.

Ebbene sì: esiste un business del sociale, dall'accoglienza, alla formazione, alla tossicodipendenza e così via. E se non lo si mette in crisi, la cura e l'accoglienza, per fare solo qualche esempio, continueranno ad avere i tratti inquietanti della normalizzazione e del controllo. In questo senso lasciare alla destra salviniana la critica al bussiness delle cooperative, in nome dell'antirazzismo umanitario o di qualche diritto violato è stato negli ultimi anni un gravissimo errore politico. Stando alla mia esperienza diretta (lavoro nel settore da qualche anno) l'ipotesi che la terza via blairiana, quella che in Italia è stata portata avanti dal centro-sinistra (Pds, Ds, Pd con la complicità della Cgil) non sia semplicemente una forma di privatizzazione e aziendalizzazione del welfare, ma anche la costruzione di un apparato di controllo e di normalizzazione della popolazione “marginale”, non è troppo distante dalla realtà. All'interno di queste istituzioni spesso la presunta finalità sociale (cura, formazione, accoglienza) passa in secondo piano rispetto alla produzione di soggetti che, oltre ad essere già marginali, devono soprattutto imparare ad accettare lo stato di cose presenti, ovvero la loro condizione coatta di estrema disponibilità allo sfruttamento. È interessante notare come in molti casi – si tratta di una statistica personale e quindi priva di valore scientifico – chi lavora dentro questo settore, pur professandosi antirazzista o antisessista e di questi tempi quindi antisalviniano, finisca per utilizzare nella pratica di lavoro le stesse categorie sbandierate dall'attuale ministro degli interni, ammantate però di presunta scientificità e obiettivi terapeutici. Sottolineo questo elemento perché nell'attuale dibattito politico lo “scontro” polarizzante tra il fronte democratico antifascista impegnato a difendere la norma democratica dall'attacco fascista del “populismo” è del tutto fuorviante perché non consente di vedere la violenza brutale esercitata normalmente dagli apparati democratici. Per fare un esempio, ancora una volta a partire dalla mia osservazione diretta, le istituzioni della riproduzione – gestite dal sistema delle cooperative sociali che rappresentano una parte della base di consenso dell'ordoliberalismo a guida Pd (con le stampelle della sinistra-sinistra) - funzionano nella loro normalità come violenti dispositivi di assoggettamento e razzializzazione. La galassia di associazioni e cooperative che lucrano sulle vite di scarto e sul lavoro di cura di centinaia di migliaia di precari e precarie sono quindi parte del problema e non della soluzione. Nemici da distruggere, invece che alleati tattici seppure politicamente distanti.

È abbastanza inutile continuare a denunciare – francamente non se ne può più della vittimizzazione del precario che ha assunto i tratti della profezia che si autoavvera – quali siano i livelli di sfruttamento e precarizzazione all'interno di questo settore. Piuttosto il dato da sottolineare, problematico ed inquietante, riguarda la soggettività che è messa a lavoro in queste istituzioni della riproduzione. Salvo poche eccezioni, mediamente si tratta di lavoratori e lavoratrici che pur scontando sulla propria pelle il carico dello sfruttamento, esprimono fortissime forme di accettazione e di identificazione aziendale. Solo di rado l'insofferenza viene espressa verso l'alto. Più facilmente diventa motivo di sfogo privato tra colleghi e colleghe e, faccenda ancora più drammatica, nello spazio delle équipe di lavoro viene completamente depoliticizzata. Vale a dire decontestualizzata – salario e gerarchie sono praticamente un tabù – e ricondotta continuamente alla scarsa resilienza dell'individuo: il burn out è l'inglesismo utilizzato per individualizzare e medicalizzare gli effetti di un rapporto sociale di sfruttamento (in questo senso servirebbe un aggiornamento della medicina del lavoro ancora troppo connotata in termini fordisti). Specularmente, dal lato dell' “utente”, alcune etichette di derivazione psichiatrica (il disturbo antisociale di personalità per esempio) sono adoperate per individuare e correggere attitudini all'illegalità che il più delle volte, nella loro forte ambivalenza, sono soprattutto espressione di rifiuto delle condizioni di sfruttamento o una delle poche forme di sostentamento, piuttosto che sintomi di una patologia (i cui tratti sociali non vengono mai presi in considerazione) come la tossicodipendenza. Verrebbe da dire che lo stesso dispositivo di sapere-potere, quanti danni ha fatto la cattiva psicologia!, usato nei confronti dell'“utente” si rovescia contro gli stessi lavoratori e le stesse lavoratrici che pure non smettono di utilizzarlo e subirlo.

C'è infine un ultimo importante elemento da riportare e riguarda il confine tra il tempo di vita e il tempo di lavoro. Chi governa queste istituzioni della riproduzione ne incentiva continuamente la dissoluzione. Il lavoro diventa una mission e la mission è la cura dell'“utente”. Se il ricatto dell'amore, come ci ha insegnato il femminismo marxista, serve a celare lo sfruttamento del lavoro domestico femminile, la cura dell'utente nelle istituzioni della riproduzione è quotidianamente il motivo che costringe ad allungare o ad intensificare (la dimensione intensiva nel lavoro di cura è praticamente invisibile e andrebbe studiata meglio) la giornata lavorativa, nella maggior parte dei casi gratuitamente. Ma l'ingiunzione a rendere indistinguibile il tempo di vita dal tempo di lavoro non si esaurisce soltanto nell'erogazione di lavoro gratuito, arriva pure a richiedere l'adeguamento a specifiche forme di vita (definite secondo criteri di ordine morale) oltre il tempo di lavoro. Queste osservazioni sollevano molti dubbi sull'idea, circolata molto negli ambienti di “movimento”, della progressiva emancipazione del cosiddetto lavoro cognitivo dal capitale. Sembra infatti che quella che è stata chiamata “incorporazione del capitale fisso da parte del capitale variabile” più che una forma di autonomizzazione del lavoro vivo sia al contrario una forma di introiezione della logica del capitale. Per dirla in breve è il capitale variabile che si sarebbe fatto capitale fisso.

Per chi si pone il problema politico della rottura con un pezzo della governance neoliberale, lo scenario fin qui descritto non è affatto piacevole, eppure da qui bisogna partire. L'ipotesi politica da verificare, in questo contesto apparentemente privo anche delle forme minime di resistenza è la seguente: se la forte identificazione, incentivata dall'organizzazione aziendale e dalla forma specifica del lavoro di cura che richiede la mobilitazione continua delle capacità timiche, fa perno sul salario psicologico e il riconoscimento delle competenze o ancora su un'economia che promette gratificazioni procrastinandole di continuo, cosa può succedere in termini di trasformazioni della soggettività se le aspettative vengono tradite? Questo mi sembra per ora l'unico punto di attacco possibile contro un sistema che fagocita soggettività politica. È un compito difficile, lungo, nel breve periodo per niente gratificante, ma allo stesso tempo è l'unico campo dentro cui possiamo agire. Il rischio altrimenti è quello di sbarazzarsi del materialismo senza il quale la politica è solo cattiva ideologia.