Stampa

Oltre l’operaismo e il cosiddetto post-operaismo

on .

Intervista di Davide Gallo Lassere a Gigi Roggero (la versione francese è pubblicata su Période)

L’operaismo politico italiano degli anni ’60 si è caratterizzato, tra le varie cose, per una riscoperta di Marx, contro il marxismo. Puoi spiegare in che senso?

Quello dell’operaismo è un machiavelliano ritorno ai princìpi: è appunto un ritorno a Marx contro il marxismo, cioè contro il determinismo, lo storicismo e l’oggettivismo di quella tradizione. L’operaismo non è un’eresia all’interno della famiglia marxista; è una rottura con quella famiglia. Tant’è che gli operaisti si definivano marxiani e non marxisti, un po’ come si narra che Marx verso la fine della sua vita dichiarasse “je ne suis pas marxiste”. Sia chiaro, tuttavia, che quel ritorno ai princìpi non voleva costruire una nuova ortodossia basata sulla corretta lettura del verbo del profeta, come invece hanno fatto le varie eresie (per esempio quelle trotzkiste o bordighiste, “nobilitate” dalla persecuzione stalinista, che però paradossalmente finivano spesso per attaccare Stalin in quanto deviazionista dalla linea del lineare sviluppo storico che si supponeva essere stata tracciata una volta per tutte da Marx). La rilettura operaista di Marx era quindi non solo contro il marxismo, ma anche in una certa misura critica rispetto ai limiti e ai vicoli ciechi del Moro di Treviri, tesa a farne esplodere le ambivalenze, a tirarlo per i capelli, a scoprire una santa barbara per attaccare la società-fabbrica del capitalismo maturo.

A differenza di altri operaismi precedenti (come il consiliarismo) o coevi (come quelli di matrice cristiana o populista), l’operaismo politico italiano non amava gli operai e i proletari: scommetteva sulla possibilità che lì ci fosse una forza che si potesse mobilitare contro se stessa, non per estendere ma per estinguere la propria condizione. È stato dunque un operaismo contro il lavoro, per il rifiuto di una natura soggettiva imposta dal rapporto di capitale. È stato un operaismo fondato sull’irriducibile parzialità del punto di vista, di una parte autonoma da costruire. Attenzione, non gli sfruttati, ma chi lotta contro lo sfruttamento. Non chi vive del proprio lavoro, ma chi lotta contro il lavoro per vivere in modo libero. Non i poveri e i dannati della terra, ma la classe operaia che si batte per la propria abolizione (e che la classe operaia sia una questione di forza d’avanguardia qualitativa e non di mani callose e tute sporche di grasso, dobbiamo ancora sprecare tempo a precisarlo?).

In questa rottura dell’universalismo, del marxismo e in parte dello stesso Marx, gli operaisti hanno collocato al centro la questione della soggettività, o meglio – per dirla con Alquati – della controsoggettività. Ciò non ha niente a che vedere con l’uso divenuto corrente del termine soggettività: negli ultimi decenni (nel tempo del “post”) c’è stata una declinazione debolissima, legata soprattutto al foucaultismo e al post-strutturalismo (in parte non ne hanno responsabilità Foucault e i post-strutturalisti, in parte sì). La “scoperta” della soggettività è stata la scoperta di qualcosa di buono, che metteva da parte la questione della classe, della parte collettiva, del soggetto in senso ricompositivo. È stata la “riscoperta” della centralità dell’individuo, cioè della resa nei confronti dell’ordine del discorso liberale, paleo- o neo- che sia. La soggettività di cui parliamo non è neppure riferibile alla coscienza, almeno per quello che ha significato nella tradizione marxista, ovverosia l’elemento di mediazione idealistico del progresso storico. La soggettività di cui parliamo, al centro dell’operaismo e della definizione della composizione di classe (su cui ritorneremo a breve), è qualcosa di radicalmente differente. La soggettività non è buona: è un campo di battaglia. La produzione della soggettività nel capitalismo è intrinseca al rapporto sociale di produzione e di sfruttamento, è la posta in palio di un processo antagonista e di formazione, cioè di conflitto, violenza, riproduzione, consenso, trasformazione. Quando oggi, in un contesto di rapporti di forza a favore del capitale, si parla di “soggettività proletaria” (o precaria, o del lavoro vivo, o quello che preferite per indicare le figure della nostra parte potenziale), si parla di una soggettività forgiata innanzitutto dal dominio capitalistico. Dire contro-soggettività significa dunque parlare di una soggettività non solo contro il capitale, ma anche contro il capitale che ci portiamo dentro. Già, perché noi nella misura in cui odiamo i padroni dobbiamo arrivare a odiare noi stessi, quel cancro che ogni giorno ci mangia e ci mette al servizio di chi ci sfrutta.

Alla luce di questa irriducibile parzialità del punto di vista è allora possibile comprendere il rovesciamento operaista: prima la classe, poi il capitale. Non è cioè il capitale il soggetto della Storia, che fa e disfa, che determina lo sviluppo e le condizioni per il proprio superamento. Al centro vi è la lotta di classe, nella sua forza di rifiuto, nella sua autonomia.

A tal riguardo, Mario Tronti ha senz’altro svolto un ruolo di primo piano…

Con Tronti la classe smette di essere un concetto meramente sociologico o descrittivo, per divenire un concetto interamente politico. La classe non esiste in natura, o meglio esiste nella natura del capitale come tassonomia di segmenti sociali disposti all’interno del mercato del lavoro. Ci possono essere proletari senza proletariato, operai senza classe operaia. La classe non è quindi una questione di stratificazione, ma di contrapposizione. È sempre la lotta a produrre la classe in quanto macro-parte collettiva. Classe significa antagonismo di classe. Con Tronti appunto: non c’è classe senza lotta di classe.

Anche in questo caso Marx va utilizzato e tirato per i capelli. Va usato il Marx delle opere storiche, quello che ci mostra che i proletari sono diventati classe sulle barricate del 1848. Ma anche quello (ambivalente) de Il capitale. Quello che nel Libro primo mostra come siano state le lotte a determinare la riduzione della giornata lavorativa, mica la legislazione borghese o qualche capitalista illuminato (è interessante notare che negli stessi anni, in lezioni tenute a Montreal tra il ’66 e il ’67 e ora raccolte nel volume You Don’t Play With Revolution, C.L.R. James arriva alle stesse conclusioni): se i padroni potessero farci lavorare tutto il giorno, senza resistenze o conflitti, lo farebbero. È una lezione che andrebbe ricordata a quelli che oggi piangono sul lavoro gratuito, che invocano la redistribuzione della ricchezza o che pensano che il reddito di cittadinanza sia una questione di razionalità produttiva: solo la lotta può costringere i padroni a pagare caro, lo stesso salario è sempre un bottino di guerra tra due parti nemiche. Se una delle due non combatte, l’altra non farà prigionieri – con buona pace della sinistra.

Vi è anche un utilizzo del Marx del Libro terzo, che com’è noto si interrompe con il capitolo inconcluso sulle classi. Ironicamente in Operai e capitale Tronti constatava che “da Renner a Dahrendorf, ogni tanto qualcuno si diverte a completare ciò che è rimasto incompiuto: ne viene fuori una diffamazione di Marx, che andrebbe come minimo perseguita con la violenza fisica”. Già nel cinquantesimo capitolo, “L’apparenza della concorrenza”, Marx scrive: il prezzo del lavoro non viene regolato dalla concorrenza, ma è il prezzo del lavoro che regola la concorrenza. Gli operaisti diranno: sono le lotte a determinare lo sviluppo, prima viene la classe poi il capitale. Interpretare il capitale a partire da se stesso è una proiezione ideologica. Quando oggi si dice “sono i mercati che lo vogliono”, si è all’interno di questa proiezione. Nel capitolo inconcluso con cui termina il Libro terzo Marx annota poche cose ma piuttosto importanti. Ci dice che a costituire una classe non sono solo i redditi, né semplicemente la collocazione all’interno dei rapporti di produzione, per quanto ovviamente questi determinino la base materiale su cui la questione della classe si fonda. A costituire la classe è appunto la lotta che rompe l’astratta unità democratica del popolo: quando “il popolo indivisibile” si scinde in “campi nemici”, quando – scrive Tronti – “la classe operaia rifiuta politicamente di farsi popolo”, ebbene a quel punto “non si chiude, si apre la via più diretta per la rivoluzione socialista”. L’uno si spacca in due, l’irricomponibilità per il capitale diventa possibilità di ricomposizione per la classe. La classe sparisce come aggregato meramente sociale e diventa soggetto antagonista irriducibile all’unità dell’interesse generale, cioè l’interesse del capitale. È questa assunzione della parzialità operaia che costringe i capitalisti ad aggregarsi politicamente, a superare le proprie contraddizioni, a scoprirsi come potenza sociale, utilizzando quindi collettivamente la forza del proprio nemico per svilupparsi e balzare in avanti. Qua svaniscono le illusioni di un’evoluzione pacifica, per i riformisti dell’una o dell’altra parte. Qua cade la maschera della democrazia e si svela finalmente il volto dei rapporti di forza tra due potenze in conflitto: non più lavoro e capitale, ma lavoratori e capitalisti, classe contro classe, forza contro forza.

Perciò quello dell’operaismo è un pensiero del conflitto, della ricerca antagonista delle contraddizioni centrali, della contrapposizione, dell’amico-nemico come forma dell’agire politico e militante. Nel suo ultimo libro, Dello spirito libero, Tronti ha scritto: “L’amicizia politica è ciò che hanno in comune, ciò che accomuna, quelli che sono contro. E l’azione dell’essere contro consacra le grandi amicizie”. È innanzitutto il contro a unirci, a rendere possibile il per. L’operaismo è un pensiero del rifiuto e del negativo come fondamento del comunismo. È bene ciò che approfondisce le contraddizioni del nemico, è male ciò che le risolve. Tuttavia, la contraddizione non è risolvibile all’interno della composizione organica del capitale, cioè nel rapporto tra capitale variabile e capitale costante, ma va fatta esplodere nello scontro tra composizione organica del capitale e composizione di classe, ossia il rapporto tra articolazione della forza lavoro e produzione di soggettività. La lettura operaista di Marx parte di qua, per andare in una direzione estranea e opposta al marxismo.

Hai fatto cenno alla composizione di classe. Puoi chiarire in che modo l’operaismo ha lavorato politicamente con la composizione di classe del capitalismo italiano dell’epoca tramite la pratica dell’inchiesta?

Negli ultimi anni si è parlato molto di inchiesta e conricerca, forse perfino troppo, nel senso che sarebbe meglio parlarne di meno e farne di più. Per rispondere in modo più dettagliato alla tua domanda ed evitare di ripetere cose già dette rimando a un intervento fatto in occasione della presentazione della traduzione francese de L’orda d’oro organizzato nel giugno 2017 dal gruppo di compagne e compagni francesi che ha fatto questo straordinario lavoro, e che è stato pubblicato anche dal nuovo blog “Plateforme d’enquêtes militantes”. Il titolo dell’intervento, “la conricerca come stile della militanza”, credo riassuma bene l’essenza di ciò di cui stiamo parlando. Spesso tra i compagni c’è un’idea dell’inchiesta come specialismo, o come retorica, o come conferma delle cose che facciamo (siccome noi siamo precari, se facciamo un’auto-inchiesta il nostro punto di vista è il punto di vista del precariato!). Nulla di più inutile. La conricerca è un processo politico autonomo al contempo di produzione di contro-conoscenza, contro-soggettività e contro-organizzazione, in cui anche il contro-utilizzo dei mezzi capitalistici (tra cui le competenze specifiche) significa la loro trasformazione. È uno stile complessivo di militanza perché il militante è sempre alla ricerca di qualcosa che non capisce, di una forza possibile per far saltare le contraddizioni, di ciò che c’è ma non riesce a vedere. Il militante è sempre inquieto, oppure non è un militante.

Negli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60, quando Alquati e altri compagni cominciano i percorsi di conricerca, le fabbriche e gli operai erano stati politicamente abbandonati. In una sorta di fancofortismo inconsapevole, il Partito comunista riteneva la classe operaia ormai irreversibilmente integrata nella macchina capitalistica. Si formava così un circolo vizioso: il Pci – che aveva scelto di inseguire i ceti medi e la via italiana al socialismo (una via senza lotta di classe rivoluzionaria) – chiedeva ai militanti di fabbrica cosa si muoveva lì, questi rispondevano che tra gli operai effettivamente non c’era possibilità di lotta di classe rivoluzionaria, la linea del vertice era così confermata e confortata. Gli operai immigrati dal Sud Italia e intruppati alla catena di montaggio, quelli che da lì a qualche anno sarebbero diventati operaio-massa, erano rappresentati dai militanti del Pci e del sindacato come opportunisti, passivi, alienati. I militanti operaisti, discutendo con le giovani “forze nuove”, scavarono dentro le ambivalenze o vere e proprie ambiguità di questi comportamenti: capirono che sì era vero, spesso votavano perfino per i sindacati gialli, perché non si sentivano rappresentati da nessuno; non partecipavano agli scioperi, perché li ritenevano inutili, perfino la passività era una forma di lotta potenzialmente più efficace; e ben presto l’estraneità al lavoro divenne rifiuto e insubordinazione. L’operaio massa, inoltre, perlopiù appunto giovani meridionali immigrati nelle metropoli industriali del Nord, non corrispondeva affatto all’immagine della vittima con le valigie di cartone, tramandata dalla letteratura e cinematografia di sinistra, vogliosa di pianto e compassione; era al contrario una forza potenziale, portatore di nuovi comportamenti e culture del conflitto estranee alla tradizione delle istituzioni del Movimento Operaio ormai co-gestionarie dei processi di sfruttamento in fabbrica. Basta piangere, basta con la voglia di vittimità, basta con la cultura di sinistra: il militante rivoluzionario ricerca la forza, non la debolezza. Ecco perché possiamo dire che l’operaismo è un’esperienza comunista in rottura con il partito comunista ed estranea alla cultura di sinistra.

Questa ricerca della forza non è però mai basata sull’ideologia o sulla soddisfazione della propria identità, ma è sempre radicata dentro la composizione di classe, e in una scommessa politica all’interno di una composizione di classe storicamente determinata. E qui si apre una questione decisiva, perché questo concetto è centrale nel metodo operaista.

Affrontare la composizione della classe implica porsi il problema soggettivo della ricomposizione politica. Come bisogna intendere la questione della ricomposizione? Ha più a vedere con la sintesi o con la rottura?

Per continuare il discorso, potremmo ora dire che non c’è lotta di classe senza ricomposizione di classe. Prima, però, dobbiamo intenderci sul concetto di composizione di classe, e sul rapporto tra composizione tecnica e composizione politica, cioè tra l’articolazione capitalistica della forza lavoro nel suo rapporto con le macchine e il formarsi della classe come soggetto indipendente. La composizione tecnica e la composizione politica non ci restituiscono delle fotografie di elementi statici, cioè della forza lavoro totalmente subordinata al capitale da una parte e della classe totalmente autonoma dall’altra: si tratta di processi entrambi attraversati dal conflitto, dallo scontro, dalla possibilità della rottura e del rovesciamento, perché entrambi sono all’interno del rapporto sociale di capitale in quanto rapporto antagonistico. Tra questi due processi non vi è una dialettica conciliativa, così come non vi è sintesi e specularità. Il soggetto centrale o più avanzato per l’accumulazione capitalistica non è necessariamente il soggetto centrale o più avanzato delle lotte, come si pensava nella tradizione socialcomunista, e come si è spesso implicitamente tornato a pensare nelle elaborazione sul cosiddetto “postfordismo”. Non si tratta quindi della riproposizione del rapporto marxista tra classe in sé e classe per sé, mediato da un’idealistica coscienza di classe semplicemente da disvelare. Come già abbiamo visto, infatti, la soggettività – base e posta in palio della composizione di classe – non è la coscienza: non va disvelata, va prodotta. La produce il capitale, la possono produrre le lotte.

La composizione politica implica sempre un doppio processo: la ricomposizione per i propri fini autonomi, e la scomposizione dei fini del nemico. Ricomposizione non significa una sommatoria di elementi così come sono, ma la loro trasformazione in un processo di rottura con il quadro esistente e di costruzione di un nuovo quadro. Non si tratta perciò di riunificare una supposta unità originaria frammentata dall’azione del capitalismo, ovvero ritornare a ciò che c’era prima: la ricomposizione di classe è la creazione di un soggetto nuovo e autonomo. È l’azione della classe contro il proprio nemico è anche azione della classe contro se stessa, per distruggere il rapporto di capitale che si incarna nel proletariato. Potremmo dire che la ricomposizione è il ritorno all’autonomia che non c’è. Il ritorno cioè a elementi che rompendo con il quadro dato si compongono in modo radicalmente differente, creando un nuovo quadro di rapporti sociali. E ricomponendosi nella rottura, questi elementi sovvertono se stessi, cambiano nella loro essenza, si rovesciano rispetto alla loro funzione originaria.

Anche il capitale del resto scompone, compone e ricompone continuamente, cioè distrugge e trasforma: la chiama innovazione. Ai movimenti rivoluzionari degli anni ’60 e ’70 il capitale ha risposto in primo luogo non con la repressione, bensì con l’innovazione. L’innovazione è una rivoluzione al contrario, tesa a un cambiamento anche profondo sui livelli medi e bassi di realtà in grado di rafforzare la riproduzione dei livelli alti, cioè l’accumulazione di dominio e capitale. Questo cambiamento porta in sé il segno di parte del suo antagonista, privato della possibilità di rottura, sussunto e piegato verso i fini sistemici. Per esempio, alla lotta contro il lavoro salariato e all’autonoma flessibilità operaia e proletaria, il capitale ha risposto con la precarizzazione. A partire dagli anni ’80 e ’90, nel pieno sviluppo neoliberale, c’è da un lato chi si è dimenticato il segno di parte, e ha finito per rivendicare il ritorno a ciò che operai e proletari avevano rifiutato e combattuto, ossia le catene del lavoro a tempo indeterminato; dall’altro, chi ha scambiato l’innovazione per la rivoluzione, dipingendo in modo fantasioso una cooperazione sociale ormai pienamente libera e autonoma, e un capitale come puro involucro parassitario. Gli uni e gli altri non vedono la continuità e la possibilità dell’antagonismo, e quindi assumono un’ormai avvenuta separatezza tra le due classi-parte: per gli uni ciò significa l’impossibilità della liberazione, per gli altri la liberazione già avvenuta. Entrambe sono posizioni ideologiche, entrambe impotenti, entrambe indicano la rimozione del problema della rottura rivoluzionaria. Ed entrambe non vedono la questione centrale della composizione di classe come processo attraversato continuamente dal conflitto.

Potremmo allora dire così, con una formula: il contrario di innovazione non è conservazione, ma rivoluzione. Se poi a innovazione e conservazione sostituiamo i termini di sinistra e destra il risultato non cambia, si tratta di sinonimi: il contrario di destra non è sinistra, ma rivoluzione. Per questo non possiamo definirci di sinistra: non perché la sinistra è diventata questo, ma perché la sinistra è sempre stata questo. La sinistra è ab origine illuminista, progressista, innovazionista. È il pensiero della vittimità e della sconfitta, dell’affidamento alla Storia e dell’ostilità verso chi lotta contro il proprio tempo, della compatibilità con la potenza del capitale e della scomunica paranoica della potenza antagonista – ecco perché appena i comportamenti proletari fanno di testa propria, scatta la dietrologia e l’accusa di essere provocatori. La sinistra dipinge nature morte sulla riva del lago; noi che vogliamo organizzarci nei mulinelli, perfino nella loro pericolosa sporcizia e ambiguità, dobbiamo tenerci alla larga non da questa o quella sinistra, ma dalla sinistra sans phrase.

A tal riguardo, Romano Alquati – figura decisiva dell’operaismo, sebbene poco valorizzata in Italia e quasi sconosciuta all’estero – parlava di “spontaneità organizzata”. Che cosa intendeva?

Questa impostazione della composizione di classe e della ricomposizione la dobbiamo innanzitutto ad Alquati. Se vogliamo dirla con una battuta, non c’è operaismo senza Alquati, per quanto Alquati non sia riducibile esclusivamente all’esperienza operaista. Spesso è stato visto come l’“inventore della conricerca”, affermazione a cui ribatteva dicendo che i militanti hanno sempre fatto conricerca e semplicemente lui, essendo un militante, faceva conricerca; è come sostenere – ci ammoniva – che se per attraversare una strada piena di sassi mi metto le scarpe, allora significa che ho inventato le scarpe. C’era ovviamente un’esagerazione paradossale in ciò, perché la conricerca per come ne parliamo oggi o che tentiamo di reinventare è fondata innanzitutto sul contributo di Alquati e delle realtà collettive da lui costruite per praticarla. Tuttavia, è vero che definirlo semplicemente come l’inventore della conricerca ha finito per limitare il suo percorso agli anni ’60, ai pur decisivi scritti sulla Fiat o l’Olivetti. Alquati è invece molto altro e molto di più. Ancora oggi fondamentali sono i suoi percorsi di ricerca dentro e contro l’“università di ceto medio” negli anni ’70, in cui anticipò l’emergere dell’operaio sociale e del proletariato intellettuale. Tra gli anni ’80 e ’90 elabora un modello complessivo (da lui chiamato “modellone”) di funzionamento del capitalismo, volto al macro-obiettivo rivoluzionario della rottura e della fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. In quella fase Alquati produce straordinarie anticipazioni di temi, nodi e questioni (dall’iperindustrializzazione alla centralità della riproduzione) che oggi si mostrano assolutamente decisivi.

La definizione di “spontaneità organizzata” emerge dai processi di conricerca nella carne viva delle lotte operaie degli anni ’60. Nella tradizione del movimento operaio c’è una divisione tra il culto della spontaneità e il feticcio dell’organizzazione, oppure una sua dialettica per stadi di sviluppo: prima c’è la spontaneità, poi c’è l’organizzazione. Alquati spacca definitivamente questa dialettica e propone quell’apparente ossimoro: alla Fiat non è un’organizzazione esterna a produrre il conflitto, non è la semplice spontaneità a spingerlo avanti. Si è creata una sorta di “organizzazione invisibile” attraverso cui gli operai comunicano, preparano le lotte, ne scandiscono i tempi, bloccano la fabbrica. È questa organizzazione invisibile a porsi come avanguardia dei processi ricompositivi, mentre i militanti di partito seguono esitanti, smarriti e spesso fanno da tappo. La forma di lotta a “gatto selvaggio”, che si nutre appunto dell’organizzazione invisibile, è imprevedibile, quindi non controllabile per una mediazione riformista. Si attua attraverso una rotazione continua delle tattiche, dei metodi, dei tempi e dei luoghi, e “non rivendica nulla”. È il livello più avanzato della “non-collaborazione” operaia, per quanto non sia certo l’unica forma di lotta, alternandosi con lo sciopero di massa o il conflitto di piazza. Il problema è combinarle e rilanciarle, potenziandole reciprocamente. Scrive a questo proposito Alquati: “Il compito di un’organizzazione politica non è pianificare in modo predeterminato il gatto selvaggio, perché correrebbe proprio il rischio di renderlo assorbibile al padrone addomesticandoglielo: essa deve invece contribuire a intensificarlo, mentre a organizzarlo ed estenderlo basta anche l’‘organizzazione invisibile’ operaia della quale lo sciopero ‘a gatto selvaggio’ diventa un dato di fatto permanente”.

Andando oltre la specificità di quelle lotte, la questione della spontaneità organizzata ci permette di collocare questo rapporto nei termini politicamente corretti, di distinguere risolutamente la spontaneità dallo spontaneismo, che ne costituisce l’ideologia, così come bisogna distinguere l’organizzazione dalla mera gestione. I due termini del rapporto non vanno perciò mai disgiunti e contrapposti: bisogna alimentare di spontaneità l’organizzazione e condurre l’organizzazione dentro la spontaneità. Possiamo dire che l’autonomia è l’organizzazione che riflette sulla propria spontaneità, è la spontaneità che riflette sulla propria organizzazione. E possiamo dire che il partito (in modo radicalmente diverso dall’uso e dell’idea correnti) è il soggetto che ricompone continuamente il rapporto tra spontaneità e organizzazione, tra negazione e macro-fini.

Anche tu, nei tuoi scritti, fai sovente riferimento al “metodo della tendenza”: in che cosa consiste precisamente?

È un aspetto centrale e, come e forse più di altri, foriero di molti equivoci. Da alcune figure che provengono dall’operaismo la tendenza è stata interpretata in termini sempre più meccanicistici, come se la linea dello sviluppo capitalistico ci consegnasse immediatamente i soggetti della trasformazione sociale. In questo modo la composizione politica è diventata il frutto della composizione tecnica, e non più la sua rottura. Questo meccanicismo ha assunto il nome di ontologia, compiendo un semplice ribaltamento intellettuale del processo. Vale a dire: i soggetti prodotti dallo sviluppo capitalistico sono ritenuti ontologicamente i soggetti rivoluzionari. Per far quadrare i conti, è stato quindi rimosso il nodo della composizione di classe, dei rapporti di forza, dei processi di lotta attraverso cui la soggettività forma la propria autonomia, rompendo con il processo di soggettivazione capitalistico.

Al contrario, dal punto di vista rivoluzionario tendenza non significa oggettività e linearità del percorso storico, e non ha niente a che vedere con la previsione del futuro. Conviene lasciare ai metereologi il pronostico sulle piogge, come militanti dobbiamo impegnarci a creare tempeste. E ovviamente tendenza non significa irreversibilità dei processi, cioè il dogma alla base della religione innovazionista e accelerazionista: al contrario, poiché fondati e plasmati dai rapporti di forza, i processi possono essere continuamente interrotti, deviati, rovesciati. Tendenza significa perciò la capacità di cogliere la possibilità di uno sviluppo di contrapposizione e radicale diversità nella composizione degli elementi del presente. La tendenza è come la profezia: significa vedere e affermare in modo differente quello che già esiste virtualmente nel presente.

Insomma, tendenza significa infatti anticipazione, è la capacità di cogliere il terreno di possibilità antagonista dentro le ambivalenze e le ambiguità della composizione, della soggettività e dei comportamenti esistenti. Tendenza significa scommessa politica. La scommessa non è un lancio di dadi, e non è nemmeno una previsione scientifica. È una scelta di percorso, l’individuazione di una linea di tendenza che non c’è ma potrebbe esserci. È una scommessa materialista, cioè dentro e contro il campo di forze esistente. Senza scommessa politica non c’è infatti politica in senso rivoluzionario, ma solo amministrazione dell’esistente, ovvero tecnica della politica istituzionale.

A metà degli anni ’70, parlando del nodo della formazione e dell’università, Alquati scriveva che la conricerca serve per riuscire ad avere un ruolo che non sia di mera coda del movimento: “la ricerca volta a prevedere, ad anticipare, non a razionalizzare ideologicamente quello che già è avvenuto man mano che ‘spontaneamente’ avviene quando il movimento di massa per l’appunto si ‘muove’. Il problema è generale: della strategia che serve a dirigere e della direzione politica che riesce ad anticipare secondo una strategia. Arrivare dopo non serve”. Il militante deve assumersi il rischio. L’importante è agirlo dentro e contro la materialità dell’esistente, e non – come è troppo spesso successo nel cosiddetto “post-operaismo” – dentro la propria fantasia individuale e contro le possibilità collettive.

Ai due nomi più conosciuti a livello internazionale – Mario Tronti e Toni Negri – sono riconducibili due varianti dell’operaismo cui hai fatto riferimento, una “katechontica” e l’altra “accelerazionista”. Attraverso figure come Romano Alquati o Sergio Bologna, tuttavia, è possibile identificare un terzo paradigma teorico e politico interno all’operaismo, che potremmo definire “composizionista”. Perché può risultare importante approfondire tale filone di ricerca?

È attraverso questo paradigma (definito composizionista per intenderci, se volete trovate un altro termine, ciò che conta è la sostanza) che l’operaismo ha potuto rompere il sistema parzialmente chiuso della logica marxiana, quella che rischia di restare intrappolata nella spiegazione di come si produce e riproduce la gabbia d’acciaio, introducendo l’elemento decisivo della soggettività. Questa non è formata in modo deterministico dalla collocazione materiale, né si forma a prescindere da essa: come già abbiamo visto, la soggettività è legata alla lotta, cioè alla potenza formatrice del capitale e alla possibilità di comportamenti e forze che si formano contro il capitale. Guardare alla composizione di classe, conricercare e agire dentro di essa per curvarla e piegarla in una direzione antagonista, significa incentrare continuamente l’iniziativa politica sul rapporto tra processo e soggetto. Per dirla in modo semplice: in un processo con rapporti di forza a favore del capitale, il soggetto che si forma sarà innanzitutto da esso plasmato; in un processo con rapporti di forza differenti, si forma un soggetto differente. Dire che il soggetto è plasmato dal capitale, come accade nella fase odierna, non significa che non vi siano possibilità di conflitto o autonomia, niente affatto. Alquati parlava di un “residuo irrisolto” e irrisolvibile per il capitale, quello che lui definiva la capacità attiva umana, di cui il capitale si deve continuamente alimentare per far funzionare il suo sistema. Potremmo addirittura dire che vi è una strutturale asimmetria potenziale tra le due classi: mentre il capitale ha bisogno del proletariato, il proletariato non ha bisogno del capitale, e alla fin fine nemmeno di se stesso come prodotto di quel rapporto sociale. Questa è la contraddizione irrisolvibile per il capitale, ciò da cui deriva la permanente possibilità dell’antagonismo, che assume di volta in volta forme ed espressioni differenti, oppure in alcune fasi non assume forme ed espressioni esplicite.

L’antagonismo non può essere atteso messianicamente, né immaginato a partire da quello che ci piacerebbe – con il risultato che quando i proletari non si comportano come vorremmo, pratichiamo fughe in avanti individuali e intellettuali. I militanti devono scavare nelle ambivalenze e nelle ambiguità, nella “sporcizia” dei comportamenti reali: non per esaltarli populisticamente, ma per cercare in essi una politicità al livello delle sue forme ed espressioni intrinseche, quando c’è una virtualità non ancora trasformata in atto collettivo. Per esempio, prima di diventare forma esplicita e collettiva di contrapposizione e negazione, il rifiuto del lavoro si incarnava in comportamenti di sottrazione frammentati sul piano singolare. Dalla politicità intrinseca alla politicità esplicita non vi è un passaggio necessario di stadi di sviluppo. C’è invece la costruzione di un processo organizzativo, c’è il percorso di conricerca, c’è tutta la forza della scommessa militante. Potremmo dire che la ricerca della politicità intrinseca è la ricerca dello spazio tra la potenzialità astratta dell’antagonismo e la sua forma di espressione conclamata; è lo spazio in cui in comportamenti possono prendere direzioni differenti o addirittura opposte; è lo spazio in cui il processo può concretamente essere deviato, curvato, interrotto, rovesciato. È, dunque, lo spazio proprio dell’intervento militante.

Il problema, allora, è che tanto il paradigma “accelerazionista” quanto quello “katechontico” finiscono per assumere la temporalità dello sviluppo capitalistico e far discendere da questa la composizione di classe e le sue possibilità rivoluzionarie. Per il primo paradigma bisogna semplicemente accelerare lo sviluppo della nuova composizione tecnica per trasformarla in composizione politica, per il secondo bisogna trattenere la forza della vecchia composizione politica per combattere la composizione tecnica. Entrambi rischiano di considerare lo sviluppo a un livello di astrazione che perde contatto con il medio raggio, cioè con il livello su cui si danno le possibilità concrete della rottura e del rovesciamento. Il metodo della tendenza che ci interessa, invece, non è l’identificazione di uno sviluppo “oggettivo”; significa porre il problema dell’interruzione e della deviazione, cioè dell’accumulo di forza per costruire processi ricompositivi. Tale forza si accumula tanto nell’accelerazione quanto nel trattenimento, di più o di meno nell’uno e nell’altro a seconda delle fasi e innanzitutto delle lotte che determinano resistenza o spingono in avanti. Perché il punto di vista da cui valutare accelerazione e trattenimento è quello della composizione di classe, della sua potenziale autonomia e delle sue possibilità di trasformazione rivoluzionaria.

Nel caso dell’accelerazionismo di Negri, al contrario, la tendenza diventa teleologia, il processo di organizzazione, conflitto e rottura interno al rapporto tra composizione tecnica, politica e ricomposizione lascia il posto a un’idea di immediatismo del rovesciamento. Negri finisce cioè per non vedere il processo e identificare immediatamente il soggetto come ontologicamente libero e autonomo. Non si rende conto che quel soggetto non è affatto libero e autonomo, ma profondamente segnato dalla soggettivazione capitalistica. Solo afferrando l’ambivalenza e piegandola in senso antagonistico può arrivare a contrapporsi a se stesso. Solo attraverso il processo di lotta il soggetto conquista libertà e autonomia. C’è in questo anche un vizio intellettuale, di chi non misura più le proprie categorie sulla base della militanza dentro e contro la realtà, ma misura la realtà sulla base delle proprie categorie. All’autonomia del politico fa qui seguito l’autonomia della filosofia politica. Ed è, forse, tristemente paradossale che uno di quelli che ha parlato dell’egemonia dell’“intelletto generale”, termini il suo percorso nella presuntuosa solitudine dell’intelletto individuale.

Spesso all’operaismo è stata rivolta un’accusa di sviluppismo...

In parte è motivata, soprattutto per quella evoluzione in cui la tendenza diventa teleologia. Credo però che altrettanto problematica, o ancora di più, è la retorica contro lo sviluppo che si è fatta largo negli ultimi decenni, perché assume spesso dei tratti moralistici e in fondo di classe, in questo caso dell’altra classe. È piuttosto facile essere per la decrescita sorseggiando cognac dal proprio comodo ufficio della Sorbona... Non tutte le posizioni contro lo sviluppo sono riducibili alla decrescita, ma anche le migliori e più interessanti per le lotte rischiano di essere speculari al loro oggetto polemico. Infatti, tanto lo sviluppismo quanto l’anti-sviluppismo non c’entrano il bersaglio e finiscono per essere piuttosto ideologici: uno immagina i soggetti rivoluzionari in tutto ciò che è prodotto dallo sviluppo del capitale, l’altro li immagina in tutto ciò che precede o è illusoriamente ritenuto “fuori” da quello sviluppo. Un’opzione è talmente dentro da dimenticarsi di essere contro, e viene così risucchiata nelle fauci di un riformismo impossibile; l’altra invoca un attacco della fortezza dall’esterno, affidandosi a uno spontaneismo irrealistico. Il materialismo privo della volontà rivoluzionaria sfocia nel determinismo; la volontà rivoluzionaria priva del materialismo sfocia nell’idealismo. Che lo vogliamo o no, quindi, siamo comunque interni allo sviluppo e alle sue caotiche contraddizioni, non possiamo perciò che avere uno sguardo conflittuale ambivalente: dobbiamo cioè comprendere quanta controsoggettività e quante possibilità antagoniste si creano e si distruggono dentro lo sviluppo, quante si creano e si distruggono nella resistenza o nello spingere i processi in avanti. Contro-uso dei processi significa non solo usare i mezzi prodotti dallo sviluppo per un altro fine, ma facendo questo piegarli, trasformarli, crearne altri. Poiché allora essere dentro non è una questione di desideri individuali o esperienze esistenziali ma di dura materialità del rapporto sociale che combattiamo, il punto è come essere contro.

Insomma, la dialettica tra sviluppismo e anti-sviluppismo, accelerazione e decrescita, modernità e anti-modernità, è tutta interna al punto di vista del capitale. Il capitale si compone di accelerazione e trattenimento, distrugge la composizione del proprio antagonista e ne ricompone i frammenti prodotti secondo le sue esigenze di sviluppo. Allora il problema per il militante è impostare lo sviluppo dal punto di vista della nostra macro-parte, reale o potenziale, per trattenere gli elementi che impediscono l’accelerazione distruttiva dell’innovazione capitalistica, cioè che ci impoveriscono, e accelerando gli elementi che producono rottura nella controparte, arricchimento della soggettività e autonomia nella nostra parte.

Per capire il che fare del militante si può usare, scusate la brutalità, la metafora del cancro. Nel nostro corpo dobbiamo trattenere la forza del male, che sviluppa il cancro; nel corpo del nostro nemico dobbiamo accelerare le metastasi prodotte dalla lotta di classe. Tra i due movimenti vi è un rapporto, ma non è mai simmetrico, temporalmente lineare, teleologico. Il conflitto dovrebbe perciò funzionare come cancro verso la controparte e vaccino al nostro interno, cioè inoculazione controllata di veleno per rafforzare l’organismo. Per noi avviene spesso l’opposto: il conflitto diventa cancro al nostro interno, ossia fonte di spaccature spesso inutili, e vaccino per la controparte, dunque innovazione capitalistica.

Veniamo allora alla figura del militante, cui ha consacrato un saggio recentemente. Chi è il militante? Quali sono il suo ruolo e la sua importanza?

Da quanto abbiamo fin qui detto emergono già vari pezzi di risposta, perché la militanza non è un aspetto specifico: è il nostro punto di vista, è la nostra forma di vita, è quello che siamo, che diciamo, che pensiamo. Il militante è per definizione colui o colei che mette interamente in gioco la propria vita. Questa verità assume forme differenti in relazione alla fase storica, alla composizione di classe, ai processi organizzativi. Quando al giro di boa del millennio si è iniziato a chiamarlo attivista, seguendo l’imperante moda anglosassone e americana, non si è trattato di una semplice concessione linguistica, ma di un cedimento strutturale. Si è così persa la sua incommensurabilità rispetto ad altre figure, come quella del volontario. Figure dell’interesse generale, dunque della riproduzione dell’esistente. Il militante è al contrario un soggetto divisivo, produce continuamente il “noi” e il “loro”, prende posizione e costringe a schierarsi. Separa per ricomporre la propria parte. È una figura innanzitutto della negazione, perché rifiuta l’esistente e si batte per distruggerlo. A partire dalla negazione, produce i macro-fini collettivi e nuove forme di vita.

Troppo spesso, soprattutto in fasi difficili come questa, sentiamo molti compagni lamentarsi dell’assenza di lotte oppure compiacersi di quelle altrui. Depressione ed euforia mimano quelle dei mercati finanziari, bolle e voyeurismo viaggiano e scompaiono alla velocità di un tweet. E tuttavia, le fasi storiche non sono belle o brutte: sono spazi dentro e contro cui collocarsi progettualmente. Non vanno giudicate sulla base dei nostri desideri, ma vanno combattute sulla base dei nostri compiti. Pena sprofondare nella cronaca ciclotimica delle lotte e della loro assenza, ondeggiando tra l’euforia del tifoso e la depressione dello spettatore, tra un immotivato senso di sconfitta e ingiustificate proclamazioni di vittoria. Liberiamocene, se vogliamo essere all’altezza della fase. Anzi, dobbiamo comprendere che la fase più importante per il militante rivoluzionario è proprio quella in cui le lotte non ci sono. Quando ci sono, infatti, il militante rivoluzionario arriva troppo tardi. Dobbiamo anticipare per organizzare e dirigere, non osservare per raccontare e descrivere. E dovremmo anche aggiungere che quando le lotte ci sono, spesso i militanti – parlo in questo caso del contesto italiano – non le sanno comprendere perché sfuggono ai loro schemi, oppure fanno da tappo al loro sviluppo. Allora, non facciamoci deprimere da un panorama piatto oppure affascinare dalle onde del mare in tempesta, cerchiamo invece di cogliere i mulinelli invisibili che si agitano sotto l’apparente calma del fiume. Questo è il compito dell’oggi, il nostro che fare da costruire.

Veniamo ora alle categorie forgiate dal “post-operaismo”, che come hai osservato rischiano talvolta di condurre a una falsa immediatezza della traduzione della composizione tecnica nella composizione politica…

Dobbiamo sbarazzarci definitivamente dell’ideologia del post, che a partire dagli anni ’80 e ’90 per troppo tempo ci ha tenuto attanagliati nella morsa di un ricatto: la scelta tra chi dice nulla sarà più come prima e chi dice tutto sarà sempre come prima. Hanno entrambi torto. Per riprendere ancora gli strumenti concettuali del modellone alquatiano, possiamo dire che sui livelli di realtà alti (come abbiamo visto, quelli dell’accumulazione di dominio e di capitale) nulla è cambiato, sui livelli di realtà intermedi ci sono state delle mutazioni significative, sui livelli di realtà bassi le cose cambiano velocemente. Per afferrare permanenze e cambiamenti ci vuole ricerca, capire dove le cose variano e perché, e quali spazi di possibilità antagonista aprono. L’ideologia del post ha invece preteso di raccontarci di un mondo nuovo, sempre nuovo; è il mondo che ci ha raccontato la retorica dell’innovazione, che è la vera retorica del capitalismo contemporaneo. Una retorica che organizza una materialità concreta, quella come abbiamo visto della controrivoluzione capitalistica.

Assumendo l’ideologia del post, una parte di coloro che hanno rivendicato l’eredità operaista ha immaginato la classe (termine che per un certo periodo è stato abrogato per decreto) come oggettivamente conseguente alle reali o supposte trasformazioni del capitale. Ovvero, è stato rimosso il nodo della composizione di classe, del processo politico di controsoggettivazione e della sua trasformazione. È stato rimosso il nodo della rottura, con il capitale e interno alla composizione di classe. Non più la classe contro se stessa, ma una classe che per magia diventa autonoma e deve solo essere riconosciuta in questa sua autonomia. Non c’è più bisogno di rompere con il capitale, ma semplicemente esodare da esso (paradossalmente, anche posizioni che si sono fortemente caratterizzate dalla critica e contrapposizione a Negri, finiscono talvolta per giungere a conclusioni simili). Pur nate dal rifiuto del lavoro, alcune punte del cosiddetto “post-operaismo” hanno paradossalmente finito per dar vita a una sorta di lavorismo immateriale e cognitivo, laddove hanno perso di vista la differenza fondamentale tra le competenze capitalistiche e i saperi di parte, tra la valorizzazione e l’autovalorizzazione, tra la ricchezza dell’accumulazione e la ricchezza delle lotte. Il problema, appunto, deriva dall’idea di una cooperazione già libera rispetto a cui il capitale è agente parassitario, mentre il lavoro sarebbe divenuto comune – cosa che può essere vera, a patto di aggiungere che quello è il comune dello sfruttamento e del lavoro astratto comandato dal capitale.

La stessa definizione di “post-operaismo” è stata coniata nelle università anglosassoni e americane, come tentativo di catturare la potenza dell’operaismo, depoliticizzarlo e astrarlo dal conflitto e dalla composizione di classe. Per renderlo, cioè, buono per l’accademia e l’economia politica della conoscenza, ossia non più buono per le lotte. Poi è diventato “Italian Theory”, che si differenzia dall’“Italian Thought”, e poi ci sarà la “Critical Italian Theory”, il “Critical Italian Thought” e così via verso il loro cattivo infinito, in una teoria sganciata dalla composizione e dalla lotta di classe, per essere saldamente agganciata alla valorizzazione e riproduzione del capitale, oltre che di convegni e cattedre universitarie.

Quell’insieme di teorizzazioni e analisi che poi è stato raccolto nella definizione accademica di “post-operaismo” è cresciuto tra gli anni ’80 e ’90 nel tentativo di rovesciare le annichilenti immagini – tra loro speculari – della fine della storia e del pensiero unico. L’obiettivo polemico era e resta corretto, lo sviluppo pratico non sempre all’altezza. Alcuni di questi sforzi concettuali erano problematici fin dall’inizio, per le ragioni a cui abbiamo schematicamente accennato, innanzitutto l’idea che la composizione politica discenda in modo automatico dalla composizione tecnica; altri sono stati estremamente produttivi e lo possono ancora essere, a patto che vengano ripensati dentro le mutazioni intervenute nella crisi e l’esaurimento di un modello complessivo. In questo caso, non ricominciare da capo significa davvero tornare indietro. Significa, in altri termini, correre il rischio di ossificare le categorie, di trasfigurarle in dogmi, di far diventare l’operaismo ciò che non è mai stato: una scuola e non un movimento di pensiero. Significa, in subordine, dare spazio a fastidiose operazioni di rancoroso attacco a un intero impianto teorico rivoluzionario. Si tratta di operazioni irrilevanti, certo, ma che rischiano di spostare il dibattito sulla difesa dei concetti anziché sulla loro utilità nelle lotte. Rischiano dunque di trascinare tutto nella marginalità politica. In un recente seminario politico un compagno ha giustamente osservato che un ragazzo non va via da casa quando i genitori lo cacciano, ma quando non ci sta più dentro. Ecco, senza paura diciamo che una certa casa è oggi improduttiva per i nostri compiti rivoluzionari e proviamo a compiere quella mossa originaria che fu propria dell’operaismo rispetto a Marx: il machiavelliano ritorno ai princìpi, cioè a Marx, contro il marxismo. Ora il compito è ritornare all’operaismo, magari non contro ma sicuramente in modo critico rispetto a ciò che del “post-operaismo” non funziona più, oppure non ha mai funzionato. Se lo facciamo, siamo nella condizione di non buttare via quello che ci è utile, e ripensare alla radice il resto.

Per esempio capitalismo cognitivo, a fronte dei processi di stratificazione e industrializzazione del lavoro, è una categorie ancora utile?

Noi abbiamo sempre preferito parlare di cognitivizzazione del lavoro, da un lato per differenziarla in modo risoluto dall’astrusa categoria di lavoratore immateriale, dall’altro per insistere sul processo di riorganizzazione e gerarchizzazione globale delle forme della produzione e dello sfruttamento in una fase in cui i saperi diventano sempre più centrali nell’accumulazione del capitale, evitando quindi di scivolare nell’identificazione tra lavoro cognitivo e soggetti definiti in senso settoriale, ovvero nella contrapposizione tra lavoratori manuali e lavoratori della mente, oppure ancora una volta nell’immaginare la supposta punta più avanzata nella composizione tecnica (i knowledge worker) come punta più avanzata delle lotte. Dunque, va combattuta qualsiasi idea di una linearità progressiva: cognitivizzazione del lavoro significa anche cognitivizzazione dello sfruttamento e della misura, cognitivizzazione delle gerarchie, cognitivizzazione delle mansioni.

La crisi economica globale ha inoltre, come già sottolineavi, accelerato dei processi di stratificazione e differenziazione che erano già in corso, in forme contraddittorie e con intensità diverse a seconda dei settori e delle aree mondiali. Seguendo la traccia alquatiana Salvatore Cominu parla a questo proposito di industrializzazione del lavoro cognitivo: competenze, funzioni e professionalità finora ritenute inseparabili dalla persona che ne è portatrice e dalla cooperazione sociale in cui si connettono, sono ora sottoposte a processi di sussunzione reale – nella produzione di beni e contenuti, di servizi, nel tempo di consumo, riproduzione, ecc. Si tratta, al contempo, di espropriazione di saperi e potenziamento della loro forma combinata, come da sempre il sistema industriale fa: ma è un potenziamento per l’accumulazione del capitale, che in modo ambivalente allarga la cooperazione sociale e mangia capacità umana, incorporandola nel marxiano sistema automatico di macchine. Dentro la cognitivizzazione del lavoro, dunque, l’homo faber è diventato sapiens e l’homo sapiens è diventato faber. Cognitivizzazione e banalizzazione procedono, almeno parzialmente, insieme.

Su queste basi, sviluppando le ricerche sull’università condotte da Alquati negli anni ’70, abbiamo parlato di sapere vivo per definire in modo storicamente determinato la nuova qualità del lavoro vivo, ovvero il tendenziale incorporamento in esso del sapere sociale. Non si tratta, infatti, di mettere semplicemente in evidenza il ruolo centrale assunto dalla conoscenza e dalla scienza nelle forme della produzione e dell’accumulazione contemporanee, ma di concentrarsi appunto sulla loro socializzazione e il loro incarnarsi nel lavoro vivo. Questa socializzazione, negli anni ’70, avveniva sulla spinta delle lotte, del rifiuto del lavoro, della riappropriazione, dell’autonomia operaia. Questo era l’operaio sociale: figura politica, non tecnica. Oggi, quarant’anni dopo, i rapporti di forza si sono rovesciati: la socializzazione avviene innanzitutto in modo coatto, a partire dalle esigenze del capitale. Il sapere infatti non è in sé buono o neutro, come molti sinistri pensano: è il frutto di un rapporto di produzione, dunque un rapporto di conflitto e di forza. Dall’operaio sociale al lavoratore cognitivo il soggetto si incarna tecnicamente, si disincarna politicamente. L’operaio sociale è così stato trasmutato in attore dell’innovazione e della precarietà: ha continuato a essere sociale, ha smesso di essere operaio.

Da qui dobbiamo ripartire, dentro e contro il presente. La nostra ipotesi, volendo forzare e semplificare, è che oggi dentro la crisi la ricomposizione tra ceto medio destrutturato e proletariato gerarchizzato nei processi di “cognitivizzazione” e riproduzione della capacità attiva umana potrebbe essere l’equivalente funzionale dell’alleanza tra operai e contadini nella crisi di un secolo fa. Diciamo potrebbe, ovviamente, perché il fatto che lo sia oppure no dipende da noi, da un noi potenziale, da un noi non racchiudibile in quello che effettivamente siamo. Se non avremo questa capacità, tali figure saranno il combustibile di opzioni reazionarie, o comunque si riprodurranno in quanto frammenti prodotti dal governo della crisi. Oggi più che mai dobbiamo quindi saperci muovere con un punto di vista unilaterale dentro l’ambiguità dei processi, con estrema flessibilità tattica e dura rigidità strategica: molto meglio la sporcizia del reale che la purezza dell’ideologia, molto meglio contendere i territori sociali alla conflittuale destra materialista che catechizzare l’imbelle sinistra idealista, molto meglio cioè i problemi della conricerca militante che l’inutile sicurezza dei selfie degli attivisti. Per usare le parole del poeta, là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva.

Proprio a questo proposito, una doppia questione: è appena cascato il centenario della Rivoluzione… Ti chiederei perciò in che modo l’operaismo si è appropriato di Lenin negli anni ’70 e in che modo riflettere sull’esperienza leninista può ancora essere utile oggigiorno?

La risposta richiederebbe molto tempo e spazio, per questo rinvio a un pamphlet di recente scritto per DeriveApprodi, Il treno contro la Storia. Considerazioni inattuali sui ’17. E così qui la faccio non troppo lunga.

Un disperato Winston Churchill osservò: “Fu con un senso di timore reverenziale che i comandanti tedeschi scatenarono contro la Russia la più atroce delle armi. Trasportarono Lenin dalla Svizzera alla Russia su un autocarro sigillato, come fosse un bacillo della peste”. Lasciamo perdere la versione per cui fu un calcolo della Germania quello di consentire il ritorno a Pietrogrado del dirigente bolscevico. Concentriamoci invece su chi ha fatto saltare il banco, qualunque esso fosse. Churchill involontariamente ci fornisce così una straordinaria definizione di cos’è il militante rivoluzionario: un bacillo della peste. E come organizzare il bacillo della peste è da subito il rovello di Lenin. Marx ci ha consegnato il meccanismo di funzionamento della macchina capitalistica, il problema – che ritornerà con l’operaismo, e che dobbiamo sempre aver presente nella pratica militante – è non restare intrappolati in quel meccanismo, rompere quel circolo chiuso. Dove colpire, come diffondere la peste, in che modo e in quali punti distruggere il nemico. Partire non dalle leggi di movimento del capitale, ma dalle leggi di movimento della classe operaia dentro e contro la società capitalistica: ecco al contempo la continuità e il rovesciamento leniniano di Marx.

Il Lenin tramandatoci dal leninismo, storicista e oggettivista, fedele agli stadi di sviluppo, è una pura menzogna ed è completamente da dimenticare. In tutto il suo percorso Lenin tenta continuamente di forzare, interrompere e rovesciare lo sviluppo del capitale, ovvero di imporre la volontà rivoluzionaria dentro e contro la Storia. Ai tempi della polemica con i populisti russi, Lenin non dice che lo sviluppo del capitalismo in Russia è necessario e auspicabile, dice semplicemente che lo sviluppo del capitalismo in Russia è un dato di fatto. La battaglia condotta dai narodniki rivoluzionari è stata persa, la guerra è tutta da combattere. A partire da qui bisogna ricercare le nuove forme di espressione della soggettività rivoluzionaria e costruire adeguate forme di organizzazione. Ecco la scommessa di Lenin: il proletariato industriale che sembra un “angoletto” ai populisti a lui coevi (sbiaditi parenti che hanno tradito l’eredità del populismo rivoluzionario), è in tendenza la prima linea, “l’avanguardia di tutta la massa dei lavoratori e degli sfruttati”. Questa tendenza è destinata a realizzarsi per le ineluttabili leggi di movimento del capitale? Non scherziamo neppure. Solo la lotta deciderà del destino. Gli altri restino imprigionati nella gestione delle fallaci certezze del presente. Bisogna scegliere, bisogna scommettere, bisogna osare: “chi vuol rappresentare un qualsiasi fenomeno vivo nel suo sviluppo deve inevitabilmente e necessariamente affrontare il dilemma: o precorrere i tempi, o rimanere indietro”. Non c’è via di mezzo, sentenzia. E così nel 1905 e poi nel febbraio del ’17 è da codisti pensare che quelle siano rivoluzioni borghesi e i proletari debbano aspettare il loro turno, debbano cioè attendere che sia lo sviluppo storico e non le lotte a consegnare nelle loro mani il socialismo e poi il comunismo: niente affatto! Bisogna essere dentro il movimento rivoluzionario, romperne la linearità, dirigerlo verso altri fini. Bisogna saltare gli stadi di sviluppo, rovesciare la potenza del possibile contro la miseria dell’oggettività. Solo così si può fare la rivoluzione contro Il Capitale, rompendo il circolo vizioso di Marx.

Perché i rivoluzionari – questo il grande insegnamento leniniano – devono sempre essere preparati per l’occasione, senza pensare che questa cada dal cielo e trascenda la materialità delle dinamiche storiche, della continuità organizzativa e della paziente costruzione dei rapporti di forza. Il punto è creare con metodo le condizioni di possibilità per conquistare l’occasione, per afferrarla. Si tratta allora di pensare il rapporto tra processo ed evento, ovvero durata e salto, in modo completamente differente, assumendo che la semplice continuità del processo senza la discontinuità dell’evento conduce all’oggettivismo, mentre la pura discontinuità dell’evento senza la continuità del processo conduce all’idealismo. Ecco come il dirigente bolscevico ha messo la volontà ereditata dai populisti rivoluzionari sulle gambe del materialismo storico, e ha sottratto il materialismo storico di Marx dalla gabbia dell’oggettivismo.

Se bisogna dimenticare il Lenin dei leninisti, così bisogna dimenticare il Lenin degli anti-leninisti, che alla fine è lo stesso. Perché entrambi riducono il dirigente bolscevico a ciò che non è mai stato, ossia un grigio funzionare dell’organizzazione. Dimenticando che nella sua organizzazione Lenin sarà quasi sempre in minoranza, perché in fondo un rivoluzionario è sempre portatore di una linea di minoranza, una minoranza non minoritaria, ovvero ideologica e di testimonianza di un’identità marginale, una minoranza con vocazione egemonica. Bisogna sognare?, chiede sprezzante davanti al comitato centrale del partito, e risponde: sì, bisogna sognare, perché quando vi è contrasto tra il sogno e la realtà, quando si agisce materialisticamente e tenacemente per attuare il proprio sogno, quando vi è contatto tra il sogno e la vita, tutto va per il meglio. Di sogni di questo genere, conclude, ve ne sono disgraziatamente troppo pochi nel nostro movimento. Allora, ieri come oggi, bisogna riconquistare la capacità di sognare e dare forma organizzata al sogno, questo è innanzitutto il Che fare? di Lenin. Con buona pace dei leninisti evoluzionisti e degli anti-leninisti desideranti. Ed è questo il Lenin che – in una sorta di “alquatismo” ante-litteram – critica continuamente tanto il culto della spontaneità quanto il feticcio dell’organizzazione. La spontaneità non è sempre buona e non è sempre cattiva, ci sono dei momenti in cui è avanzata e dei momenti in cui è arretrata. Nelle fasi di lotta o insurrezionali, spesso è la spontaneità a imporre un terreno offensivo mentre l’organizzazione è arretrata e va ripensata a quell’altezza, dentro quel terreno. In altre fasi la spontaneità rincula o è plasmata dall’ordine del discorso nemico: l’organizzazione deve riaprire la strada al suo sviluppo antagonista.

Questo è grosso modo il Lenin che, in forme diverse, è emerso dalle punte migliori dell’operaismo (le 33 lezioni di Toni Negri sono certamente uno dei libri di riferimento). Il limite è che questo tentativo importante di portare il metodo di Lenin oltre Lenin non si è coniugato con un piano di reinvenzione organizzativa adeguato. Si è così spesso finiti per ripetere ciò che non era ripetibile, cioè le soluzioni specifiche date da Lenin. E di fronte al loro inevitabile fallimento, sono stati rimossi i sempre attuali problemi posti da Lenin nel mutevole rapporto tra composizione di classe e forme dell’organizzazione rivoluzionaria.

Un’ultima domanda: in che modo, oggigiorno, studiare il passato per modificare il presente, o, per dirlo diversamente, produrre teoria al fine di organizzare le lotte?

In conclusione, proseguendo quello che stavo dicendo, vorrei che fosse ulteriormente chiara una cosa. Il passato non ci consegna mai il che fare del presente. Ci consegna invece degli errori da non ripetere, dei limiti da superare, delle ricchezze da reinventare. Ci consegna delle domande, non delle risposte. E ci consegna ciò di cui vendicarci. Ma il come, questo è parte dello sforzo e dei percorsi di ogni generazione militante. Così, se vogliamo appropriarci di un’eredità politica, non la dobbiamo celebrare trasformandola in vuota identità testamentaria: la dobbiamo infiammare, trasformandola in arma contro il presente. Oppure non serve a nulla. L’operaismo, e Marx o Lenin, sono per noi uno stile e un metodo politico di parte; non sono quelli della filologia accademica, o del catechismo post-operaista, marxista e leninista, quelli possiamo buttarli a mare senza lacrime. Insomma, il problema per il militante è appropriarsi della tradizione senza culti reverenziali e senza ipostatizzarla: ripensando le ricchezze, criticando i limiti, superando ciò che è inutilizzabile. Così ha fatto Lenin con Marx (e anche con i populisti rivoluzionari), così hanno fatto gli operaisti con Marx e con Lenin, così dobbiamo fare noi. E anche appropriandoci di ciò che è utile del pensiero dei nemici: per dirla con Tronti, infatti, meglio un grande reazionario che un piccolo rivoluzionario.

Ecco allora perché è un problema che a livello internazionale l’operaismo sia ridotto al post-operaismo, e soprattutto al Negri di Impero. Non per una questione di proprietà intellettuale o di brand: le dispute sull’eredità notarile le lasciamo ai parenti dei defunti, a noi interessa l’utilizzabilità politica. Ed è proprio quella riduzione che priva molti militanti della possibilità di esplorare l’Atlantide sommersa di figure come Alquati, di usare dunque delle armi che sono oggi maledettamente indispensabili.

Complessivamente, quel metodo rivoluzionario ci ha insegnato che abbiamo bisogno di studiare ciò che vogliamo distruggere: il capitalismo, e il capitale che si incarna in noi. Chi si innamora del proprio oggetto di analisi, per poter riprodurre i ruoli acquisiti in questa società, abbandona la militanza e passa al campo nemico. Non vale nemmeno la pena di tirare fuori il tradimento, è più semplicemente incapacità di rompere la separatezza della propria condizione. Ha scelto la strada individuale, morirà solo. Quello che distingue il militante è l’odio per ciò che studia. Al militante serve odio per produrre sapere. Tanto odio, studiare a fondo ciò che più si odia. La creatività militante è innanzitutto scienza della distruzione. Dunque, la pratica politica è pregna di teoria, oppure non è. Bisogna studiare per agire, bisogna agire per studiare. E fare le due cose insieme. Ora più che mai, questo è il compito politico.

E serve formazione al metodo: è qui che la soggettività si costruisce in modo duro e non effimero, acquisendo un modo di pensare e ragionare non standardizzato, capace quindi di costruire autonomamente risposte adeguate a situazioni differenti, in grado di modificare flessibilmente ipotesi e comportamenti a partire dalla rigidità dei fini collettivi. Metodo di ragionare comune, cambiamento e messa in discussione delle procedure specifiche attraverso cui questo metodo si esprime: ecco il problema della formazione autonoma, che non può essere affidata unicamente ai singoli, ma va organizzata collettivamente.

Formazione per cosa? Per riconquistare la capacità di scommettere. Sì, scommettere. Una scommessa materialista, una scommessa rivoluzionaria. Scommettere sulla possibilità di trasformare la crisi capitalistica in crisi rivoluzionaria; e ancor prima, di trasformare la crisi della soggettività in urgenza di un salto in avanti. Non scimmiottiamo quello che è stato, sarebbe grottesco: lo studiamo, per piegarlo ai nostri problemi. L’autonomia è infatti la disponibilità continua a sovvertire ciò che si è per distruggere e rovesciare l’esistente. È la costruzione di una prospettiva collettiva di potenza e possibilità a partire dalla liberazione e trasformazione radicale degli elementi del presente. Ecco perché l’autonomia vive nel metodo rivoluzionario, non sui loghi del merchandising antagonista. Allora osare scommettere, osare agire, osare fare la rivoluzione. Non è forse per questo che viviamo?