Stampa

Il disincanto dell'umanesimo

on .

Intervista a Paul Gilroy di Anna Curcio

Insistere sulla centralità del razzismo nei processi di gerarchizzazione sociale è fin troppo semplice alla luce di ciò che accade nelle nostre città e lungo i nostri confini. Resta tuttavia l’urgenza di dare efficacia alla lotta antirazzista. Se come crediamo non basta l’espressione di buoni sentimenti o il richiamo ad una disincarnata equità sociale che perde di vista la materialità della razza, definire una strategia antirazzista all’altezza dei tempi resta la scommessa politica. Di questo abbiamo discusso con Paul Gilroy, studioso militante noto esponente dei Cultural Studies britannici. Il suo più recente lavoro mette a critica la ragione umanitaria della sinistra e le sue scivolate manichee a cui contrappone l’esigenza di un nuovo umanesimo di fanoniana memoria. Se sulla possibilità di rifondare l’umanesimo occidentale il dibattito resta aperto e le posizioni divaricate, la critica di Gilroy è uno strumento prezioso per separare il grano dell’antirazzismo materialista dal loglio di un antirazzismo umanitario. Ma andiamo con ordine.

Vorrei, per cominciare, chiederti come funzionano razza e razzismo nell’Europa neoliberale, mentre cresce l’islamofobia e la guerra arriva fin dentro le metropoli postcoloniali, mentre si costruisce ad arte un’emergenza rifugiati e il migrante diventa invasore…

In tutta Europa stiamo assistendo all’emergere di una politica populista che è xenofoba, razzista e ultranazionalista. Un fenomeno contraddittorio che articola attraverso il linguaggio della razza, dell’appartenenza, della cultura e della nazionalità vecchie lagnanze contro governi e partiti politici. L'elemento razziale, sebbene con accenti diversi da paese a paese, ne costituisce la parte prevalente. È l’elemento razziale che rende possibile connettere l’odio verso gli stranieri con la difesa dell’identità nazionale. È la presenza del pericolo raffigurato dall’Altro razziale, che produce coesione, indicando la strada verso un luogo perfetto da cui è stata espulsa l’alterità. A volte questo significa un mondo senza stranieri. A volte significa ritornare al fascismo classico: far rinascere l’idea di nazione forte dopo un periodo di disorientamento. In tutti i casi la questione della razza è centrale, secondo una schema che funziona ovunque in Europa: l’odio per gli stranieri e la ricerca di certezza e stabilità in mezzo alle turbolenze della trasformazione neoliberale.

Se guardiamo ad un’ecologia dei media, questa centralità della razza è in parte effetto di internet. In alcuni luoghi del mondo dove la whiteness non esiste come categoria dirimente, è possibile oggi scoprire una generica identità razziale bianca. Allo stesso modo, i neri fanno i conti con la propria identità mediata da internet. Scoprono online un’identità generica spesso basata sulla realtà e la storia degli Stati Uniti e la fanno propria. Così il mondo appare in una forma manichea. La stessa forma che Fanon ha criticato a metà del XX secolo.

Questa reazione è anche profondamente culturalista, direttamente collegata all’idea di civilizzazione entrata nel discorso politico dopo il 2001 con l’inaugurazione della guerra globale senza fine. Questa contro-insurrezione globale non coinvolge tutti i paesi allo stesso modo, tuttavia attraverso la NATO e gli altri apparati militari, anche i paesi non colonizzatori sono ora invischiati nel conflitto postcoloniale che attraversa il mondo.

Nella cosiddetta “era post-razziale” è tutta la narrazione sulla razza ad assumere una forma manichea, quando persino Disney produce nel film Black Panther il suo primo supereroe nero, anche se completamente svuotato di tutti gli elementi radicali e del suo potere conflittuale…

Si parla spesso del potere militare americano, del potere finanziario americano, ma non si parla abbastanza del potere culturale americano. Siamo appena stati in una conferenza piena di accademici americani che dicono cose molto interessanti, ma universalizzano i loro concetti, i loro paradigmi e la loro storia, sempre, come se questa si ripetesse uguale ovunque. Sono stato, un po’ di tempo fa, in una conferenza dove gli accademici americani annunciavano che la situazione in Sudafrica era esattamente come negli Stati Uniti. Una donna sudafricana molto educata ha alzato la mano e ha detto “credo che dovreste considerare che qui i neri sono in maggioranza”. I bianchi in Sudafrica sono il 13%, quanto sono i neri in America. Io leggo in questo atteggiamento una mistificazione, la mistificazione del potere accademico statunitense. Sicuramente riguarda il mio mondo: se vuoi avere successo nel mondo accademico devi pubblicare i tuoi libri con un editore americano, mettere il tuo nome nelle riviste americane, e cose di questo tipo. Questo è il gold standard del mondo accademico. È una cosa imperialistica che sottende un progetto culturale e politico.

Non credo che blackness e politica della razza possano essere dedotte da ciò che Beyoncé indossa, da quello che ha fatto Jay Z, o da quello che Kanye West ha detto sulla schiavitù. Il film Black Panther appartiene a una tradizione risalente all’inizio del XX secolo, in cui gli afroamericani cercano di immaginare l’Africa e falliscono. Nel 1903 la scrittrice afroamericana Pauline Hopkins scrive un romanzo di fantascienza su un paese in Africa che è tagliato fuori dal resto del mondo, che ha un’alta sofisticazione tecnologica per monitorare quello che succede ovunque, ecc. Il film e la discussione sul film sembrano suggerire che c’è un blocco nella capacità degli afroamericani di immaginare l’Africa, di vederla, come direbbe Eduard Glissant, in relazione alle circostanze della loro vita. Tale blocco è anche l’effetto delle identità razziali generiche che sono ora disperse in tutto il mondo attraverso internet.

In questo contesto sociale e culturale, cosa significa lotta antirazzista? Come pratichiamo un anti-razzismo veramente efficace?

Una cosa che dobbiamo fare è svelare il processo di criminalizzazione di chi agisce in solidarietà con i rifugiati, i richiedenti asilo e le persone prive di documenti. Occorre mettere in luce i meccanismi legali, militari, geografici e storici della securitocrazia.

Ma ci sono anche altre due cose a cui darei priorità. La prima è una questione generazionale. Molti giovani attivisti non hanno idea della storia del movimento nero. Pensano che sia esistito solo ciò che trovano su internet! Per fare un esempio, quando è morto il mio amico Stuart Hall, la versione della sua vita e del suo progetto intellettuale che ha cominciato a circolare non faceva minimamente riferimento al suo coinvolgimento diretto nelle lotte antirazziste. I documenti, le indagini legali della comunità, tutti i progetti a livello di strada a cui aveva contribuito erano completamente assenti. Completamente sparito è un documento sulla rivolta della polizia di Southall del 1979, in cui spiegava come la polizia avesse organizzato una rivolta e descriveva un modello alternativo di giustizia che era una giustizia demotica e non statuale. Tutta questa storia nascosta deve essere recuperata, diffusa e deve diventare centrale per il dialogo intergenerazionale tra gli attivisti che, in questo modo, smetterebbero di rifarsi a definizioni generiche di stampo americano trovate su internet. E finirebbero di pensare di poter trovare le informazioni di cui hanno bisogno su un portale di proprietà privata come Google. Naturalmente internet offre cose meravigliose, ma nella transizione a un ordine digitale le informazioni di tipo analogico sono spesso filtrate e questo è il punto.

La seconda cosa a cui vorrei dare priorità è più controversa. È il cercare di articolare nel nome di una politica antirazzista una nuova definizione di cosa è un essere umano. La premessa di questa ambizione è una critica al razzismo e alla gerarchia razziale vecchia di due o trecento anni. Qualcosa che non siamo più soliti considerare come ancora rilevante. Qualcosa che a volte appare e a volte scompare. Penso invece che oggi abbiamo bisogno di una comprensione più coerente e complessiva di quella contro-storia, di quelle idee e di ciò che quelle idee hanno sviluppato. Non sto parlando solo delle lotte contro la schiavitù, ma delle lotte contro il potere coloniale, delle lotte per i diritti politici delle donne che spesso erano anche attiviste nelle lotte anti-coloniali e nelle lotte emancipazioniste, abolizioniste e per l’affrancamento dei neri. Nel mondo atlantico queste cose erano intrecciate insieme. Dobbiamo tornare a far nostra la scommessa di dire con spirito diverso cosa è l’essere umano. Dobbiamo sbrogliare questa matassa e usare la discussione per articolare una nuova comprensione di ciò che significa esseri umani tra loro in relazione. Sylvia Winter chiede di reincantare l’umanesimo. Lei è una fanonista. Fanon si ispirava certamente a un nuovo umanesimo. Così anche Senghor, Du Bois, Césaire, Alain Locke, Baldwin, Jordan, Morrison e il resto. Possiamo rintracciare questo desiderio indietro nel tempo e persino provare a riportare questa genealogia nel periodo moderno alle radici storiche dell'Europa.

Il tuo richiamo ad un nuovo umanesimo offre spunti di riflessioni molto utili. Nella pratica antirazzista in Italia prevale oggi un approccio umanitario che proprio nella misura in cui non vede la gerarchia della razza funziona come mistificazione che lascia inalterato l’ordine di classe esistente. Detto altrimenti, il discorso umanitario che oscura la materialità degli interessi sociali e il conflitto di classe non è altro che l’altra faccia speculare del razzismo delle destre. E se le destre cavalcano i processi di impoverimento nella crisi, l’affermazione astratta da parte della sinistra di un umanitarismo svuotato della gerarchia della razza finisce per riprodurre quelle stesse gerarchie. Se non si svela questa mistificazione, io credo, non sarà possibile mettere in discussione il razzismo e rapporti materiali di sfruttamento che produce e riproduce…

Da questo punto di vista, la cosa che più mi preme oggi è svelare la mistificazione razzista fin dentro il quotidiano, nei rapporti interpersonali, e farne un affare privato, in modo che possa essere chiaro chi è il razzista e come si comporta. Discutere delle forme strutturali, sistematiche e istituzionali di razzismo che producono disuguaglianze nel campo della salute, all’interno del sistema abitativo, nel sistema scolastico non svela la portato del razzismo, non identifica il razzista. Quindi, per prima cosa dobbiamo chiarire questo aspetto, poi possiamo chiederci come lottare insieme. Al momento quello di cui posso parlare è delle volte in cui abbiamo vinto e di quelle in cui abbiamo perso nell’affermare questa idea.

Sul piano pratico, una cosa che abbiamo fatto per evocare una nozione alternativa di umanità oltre la gerarchia razziale è stato lavorare sull’impunità della polizia e sugli assassini di Stato. Abbiamo esaminato i casi di persone morte in seguito al loro contatto con la polizia o con le autorità carcerarie, o nel settore sanitario dove la fornitura di assistenza sanitaria spesso dipende da operazioni di gerarchia razziale. È a partire da un lavoro pratico di questo tipo che è possibile restituire un volto umano alla figura generica e senza volto del nero. Si tratta cioè di capire cosa esclude il nero dall'essere riconosciuto come essere umano. E non basta dire che “il nazismo era un umanesimo”, perché Heidegger era razzista. È solo una mistificazione che giustifica scelte politiche deleterie. Aver riportato queste posizioni nel discorso della sinistra e aver articolato in tal senso la ragione umanitaria è stato un errore enorme.

So che anche in Italia gli africani vengono attaccati per strada e alcuni sono stati uccisi. Questi sono problemi decisivi e immediati, non perché penso che siano più importanti dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia strutturale o istituzionale. Nel nostro movimento, negli anni Settanta, negli anni Ottanta e ancora oggi, ci siamo ripetutamente scontrati sulla necessità di concentrare il nostro lavoro sui neonazisti e il rilancio dell'estrema destra o sul dare priorità alle lotte contro il razzismo di Stato. Penso che le cose non siano in contraddizioni fatta salva la quantità di risorse a disposizione. Queste lotte devono andare di pari passo. In molti, nel movimento nero non sentivano l’antifascismo come rilevante. Io sono sempre stato in disaccordo, la mia partner è stata redattrice di una rivista antifascista che monitorava l’attività dell’estrema fino dai tempi di Stefano Delle Chiaie. Abbiamo sempre avuto un occhio attento alle forze dell’estrema destra.

Per me, la polizia e il sistema della giustizia sono il luogo in cui fascismo e razzismo storicamente si incontrano. La polizia e il personale carcerario a volte hanno le insegne fasciste dietro il bavero della loro uniforme e te lo mostrano di nascosto mentre ti picchiano. La cultura dell'impunità è il luogo decisivo in cui cominciare a riconquistare la nostra umanità negata. Si connette con la lotta per una diversa idea di giustizia che sappia riconoscere la perdita di senso della vita e la distribuzione diseguale della sofferenza secondo le linee dettate dalla gerarchia razziale.

Come lavoriamo insieme? Lo vediamo sul piano pratico. Spesso dipende da come la città è stata segregata, organizzata spazialmente, dalle forme che assume la disuguaglianza nell'ambiente urbano. Una ragione per cui abbiamo lasciato l'America e siamo tornati a Londra è perché apprezziamo la possibilità di vivere in un posto misto. Questo non vuol dire che non ci sia conflitto, ma insieme al conflitto ci sono anche le risorse per gestire quei conflitti che si presentano come razziali. Le persone diventano interdipendenti in modi molto stretto. Nei giardini della scuola, nella cella della prigione, nei cortili. Se vuoi che la tua auto venga riparata o che tuo figlio si occupi di te, rimani all’interno di una rete di relazioni. Per ogni cosa che vuoi, devi entrare in una complicata relazione multilingue e negoziare le differenze nel loro svolgersi. Scoprirai presto ciò che è importante e ciò che è semplicemente narcisismo.

Esattamente un anno fa, c’è stato un attacco terroristico nel nostro quartiere di Londra e la gente si è riunita la stessa sera per esprimere solidarietà alle famiglie e agli amici in lutto per i morti e i feriti. Alcuni dei giovani attivisti che erano dietro di me, hanno iniziato a dire cose del tipo: “C’è molta colpa bianca qui”. Mi sono rivolto a loro e ho detto “Fanculo, cosa sai di questo posto? Non vivi in questa comunità, non conosci questa storia né l’ecologia culturale di questo posto, perché sei così sprezzante rispetto a questi gesti onesti?”. La gente era lì con degli striscioni di solidarietà. Perché veniva giudicato cattivo o disonesto? Cosa vogliamo che facciano? Paracadutarsi dal cielo e iniziare a imporre una lettura manichea di quelle forze è idiota. Non è serio, è banale. Non sono interessato alla banalità del male, mi interessa la banalità del bene. È molto più importante. È la vita di tutti i giorni. È una politica della vita quotidiana. Sono piccoli episodi ma sono importanti. Guarda il movimento silenzioso intorno all’omicidio di Grenfell Tower. All'ombra di quegli orrori vedrai effetti e conflitti simili.

Il nostro obiettivo politico dovrebbe essere quello di sostenere un'analisi non catastrofista che rende visibile l’umanità comune. Lo stile di pensiero che abbiamo ripreso dal XX secolo non ci serve più. Nel quotidiano della differenza ordinaria, le cose sono più fluide, più dense, in divenire. Non possiamo governare il mondo dalle tastiere dei nostri computer, né riprendendo concetti che sono vecchi di quarant’anni. Audre Lorde non ci aiuterà. Cito lei perché è una dei punti di riferimento di una giovane generazione di militanti cresciuti nell'idea che possiamo sempre conoscere in anticipo qual è lo strumento legittimo per atti di smantellamento e risignificazione politica. C’erano molte altre femministe nere di quella generazione che hanno fatto un lavoro incredibilmente interessante valido ancora oggi, ma il modo in cui la conoscenza è oggi canalizzata e filtrata online fa sì che le persone finiscano per non leggere il loro lavoro o persino non conoscerne i nomi. I giovani attivisti non si rendono conto di quanto altro ci sia nel lavoro di Audre Lorde oltre alle frasi incisive e agli #hashtag. Né riescono a vedere oltre una versione caricaturale dell’analisi intersezionale che coincide con le priorità del presente. A partire da qui c’è da ricostruire una comprensione più ampia. Pensa a un’altra femminista nera della generazione di Lorde, June Jordan, i suoi libri non sono online, la sua poesia è poco conosciuta, dobbiamo quindi lavorare a far circolare queste cose se vogliamo un serio dialogo intergenerazionale. Dobbiamo tradurre, dobbiamo essere generosi l’uno con l’altro nel modo in cui ascoltiamo, e non essere sprezzanti secondo lo stile di internet. Nella discussione online, le persone sono molto inclini all’aggressività e più duri di quanto sarebbe se si parlassero faccia a faccia. Dobbiamo dunque lottare per il modo in cui le nostre abitudini e i nostri discorsi politici vengono organizzati all’interno di un ambiente tecnologico.

* Una versione ridotta è stata pubblicata sul manifesto del 25.07.2018