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Il divenire vita del macchinico

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Loris Narda recensisce Blade Runner 2 e Westworld

Guardando l’ultimo lavoro di Denise Villeneuve salta subito agli occhi da dove riparta il sequel del film di Ridley Scott, ovvero dal possibile intreccio di umano e macchinico, laddove questa volta la ricerca si sposta sul tentativo di catturare il figlio di uno degli androridi Nexus a cui Deckart dava la caccia nel primo film.

Qui viene messo a nudo uno dei concetti propriamente umani, ovvero quello della capacità di riproduzione, capacità che avvicinerebbe ancora di più gli androidi, distinguibili già nel primo film solo attraverso una speciale esame delle reazioni emotive, agli esseri umani e al concetto più largo di vita biologica.

La stessa cosa sembra avvenire, seppure in una trama diversa, nella serie Westworld, laddove per la prima volta viene immaginata una rivolta di androidi confinati fino a quel momento in un parco giochi per miliardari, alla mercè dei loro più brutali desideri.

Tale rivolta avviene a partire da tracce mnestiche che rimangono presenti nonostante ogni volta che vengano uccisi tutta la loro memoria, satura delle angherie e delle torture o degli stupri inflitti dagli ospiti umani del parco, venga cancellata.

Anche qui una capacità prettamente umana, quella della rivolta a ordini e schemi predefiniti, viene incarnata in macchine così indistinguibili dagli esseri umani da far giocare il regista in un continuo gioco di specchi in cui gli attori, i quali inizialmente sembra che siano umani, sembrano poco dopo rovesciare questa sensazione.

Chiariamoci bene, quello affrontato qui non ha a che fare con il nostro quotidiano dibattito e scontro con l’innovazione tecnologica del capitalismo, ma già il fatto che vengano poste questioni del genere all’interno dell’inconscio collettivo tramite delle opere cinematografico/televisive ci pone di fronte a delle tendenze che, seppur quantomeno per i prossimi cinquant’anni non costituiranno la nostra realtà, ci possono fornire delle linee di immaginazione a cui l’innovazione quantomeno “aspira”.

E questa tendenza la vediamo nel farsi sempre più labile del confine fra vita “biologica” e vita artificiale, cosa ben visibile sia nel concetto di cyborg nella sua dimensione concettuale/filosofica sviluppata da Donna Haraway, la quale ci ricorda che il corpo non è soltanto un dato biologico ma un campo di iscrizione di codici sociali e culturali legati anche all'innovazione tecnologica, di cui nella materialità delle nostre vite troviamo un esempio nelle para-olimpiadi, giocate da chi vive una forma di disabilità e dove però l’ausilio di una protesi innestata permette loro di gareggiare.

Il cyborg viene così definito dalla Haraway: ”Un cyborg è un organismo cibernetico, un ibrido tra uomo e macchina, una creatura tanto della realtà sociale quanto della fiction. La realtà sociale sono relazioni sociali vissute, la nostra più importante costruzione politica, una fiction che è in grado di cambiare il mondo” (Un manifesto cyborg).

Qui Haraway esprime la sua posizione, in parte incapace di sufficiente differenziazione dei vari livelli di realtà, coagulata nel fatto che la differenza tra fiction e realtà sociale sia soltanto un’illusione ottica.

Certamente qui ancora si tratta di protesi poco più sofisticate di quelle che esistono da cinquant’anni a questa parte, eppure anche la ricerca bio-ingegneristica ci indica una tendenza da indagare e analizzare.

Altro elemento che viene fuori da Westworld è la paura, potremmo dire ancestrale, che un giorno l’intelligenza artificiale possa prendere il controllo del pianeta così come ha fatto l’uomo negli ultimi millenni di storia.

Esistono già libri, principalmente nel mondo anglosassone, che definiscono qual è il punto di rottura oltre il quale questo potere artificiale diverrà non più arrestabile da nessuno, e questo punto indica più o meno che ci si arriverà nel momento in cui l’intelligenza artificiale avrà capacità di imparare e cambiare pari a quella mediana di ognuno degli esseri umani presenti sulla terra.

Ovviamente anche qui non vengono tenute in conto le variabili sociali legate all’innovazione, che possono cambiare moltissimo la direzione dello sviluppo, e ri-orientarlo in maniera completamente diversa.

L’esempio più calzante è qui quello della sottomissione dell’innovazione tecnologica in generale a quella di matrice militare, che ha da sempre l’egemonia dei percorsi di nascita e crescita di quelle che poi diventano anche strumenti non militari.

Da questo punto di vista è esiziale agli sviluppi futuri la permanenza in essere del modo di produzione capitalistico e delle guerre di spartizione dell’egemonia mondiale che sono una diretta conseguenza.

Qui si viene a collocare il punto di giuntura fra un percorso di ragionamento su tematiche “futuristiche” e l’immaginario che parla oggi alle soggettività della nostra quotidianità.

E allora questo potrebbe rivelarsi non soltanto un esercizio di astrazione “pura” o di stile, ma di ricucitura fra livelli diversi di realtà che influenzano non poco l’immaginario delle generazioni più giovani, i cosiddetti millenials, e più in generale l’inconscio inter-soggettivo all’interno del quale le soggettività stesse si vengono a formare.

E soprattutto questi ragionamenti ci lasciano in essere la capacità e il compito di creare immaginari diversi da quelli proposti dal capitale, immaginari in grado di dare sostanza e prospettiva ad un progetto rivoluzionario all’altezza dell’epoca in cui viviamo, che sia in grado di rovesciare il futuro distopico che alcuni vorrebbero fosse la gabbia di un futuro senza storia né visione.