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Il piano politico della temporalità

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Intervento di Franco Milanesi su temporalità e militanza (Festival di DeriveApprodi, 6 maggio 2018)

La più suggestiva definizione di tempo lo qualifica “come immagine mobile dell’eternità”. Questa costitutiva mobilità va attribuita tanto all’eternità – che ne risulta negata e rovesciata nel divenire – quanto all’immagine, che riconduce così il tempo alla sua rappresentazione storicamente determinata. Già nell’idealismo platonico si svela quanto il tempo sia, per l’umano, tanto un a priori – il trascendentale kantiano – quanto una “forma multiforme” che si offre solo nei modi del suo esser dato. Una polarità che si ripropone come oscillazione tra funzione performante e progetto dell’intelligenza sociale nel suo autorganizzarsi.

Il tipo di rappresentazione del tempo condiziona in profondità la conoscenza e l’agire dell’uomo e la politica, con la sua incessante interrogazione/azione sulla temporalità, svela appieno l’intensità di questa relazione cadenzata lungo quattro “stazioni”: il tempo ciclico pagano, la linearità cristiana, la sua laicizzazione moderna, la nuova eternizzazione del presente.

Il tempo pagano, premoderno, si caratterizza come prepolitico. Ciclico e sacrale, scandito dal ritmo naturale, decentra l’umano nel Tutto e immobilizza la politica nell’atto di rispetto di una consegna superiore. “L’essenza primitiva del fatto religioso è tutta in questa diposizione contro la storia. (…) che colloca il presente in una fedeltà assoluta verso il passato mitico e che garantisce l’immutabile fedeltà del complesso delle attività umane alla loro verità primigenia, mentre in pari tempo suggella lo spossessamento senza appello degli attori umani” (Marcel Gauchet, Il disincanto del mondo, p. 12). Il mondo pagano, adagiato nella circolarità acreativa, privo di un prima e un poi, non ha alcuna percezione cumulativa della storia, che viene ridotta, per esempio in Aristotele, a fatto singolo, in-forme, svuotato di universalità. La storia come cadenza inutile, puro accadere che nulla deposita e nulla dice all’umano. Certo, la Grecia classica ha fissato alcuni concetti basilari del pensiero politico, in particolare nella grande sintesi aristotelica. Ma la ciclicità sottrae di fatto l’alternativa tra le forme di governo alla decisione umana, immettendole nell’ordine superiore della natura. È quanto ha sottolineato, riferendosi proprio ad Aristotele, Fukuyama, non a caso un convinto assertore dell’immutabilità del liberalismo, l’apologeta di un ordo capitalistico-democratico definitivamente naturalizzato, eterno, ciclicamente “aggiornato” dal riformismo di sistema (Fukuyama, La fine della storia, p. 348).

Introducendo il tempo lineare il cristianesimo scardinava il puro accadere pagano e immetteva con forza il principio antropocentrico inscritto nel suo canone: il mondo è affidato da Dio all’uomo che ne è, pur delegato, padrone. Il superamento della temporalità pagana, circolare, sacra e naturale, antropodecentrata è dunque attuato introducendo una serie di cadenze che spezzavano il moto unitario e innocente del circolo: creazione, caduta e redenzione, peccato originale, sacrificio salvifico, ritorno all’origine. È ”lo schema generale dell’interpretazione ebraico-cristiana della storia come divenire provvidenziale della salvezza verso un fine ultimo dotato di senso” (Karl Löwith, Significato e fine della storia, p. 65).

Ma come Marcel Gauchet ha evidenziato, il cristianesimo, con la consegna dalla Natura all’umano e con l’affermazione della centralità ha “generato un mondo che lo contesta e che ha l’ambizione di fare a meno del suo apporto” (Marcel Gauchet, Un mondo disincantato?, p. 72). È il processo di disincantamento che prepara il sapere laicizzato della modernità su cui si attivano i tre grandi dispositivi pratico-teorici della scienza, della politica e dell’economia. L’atto creatore viene strappato a Dio e affidato alla potenza prometeica dell’umano, all’artificio dello scambio monetario, dello Stato-macchina, della tecnica che piega la natura alle proprie regole. Se Agostino aveva fondato la filosofia della storia attraverso la relativizzazione del tempo a misura soltanto umana (Dio è oltre il tempo, Dio immette il creato nel tempo lineare), ora l’atto di appropriazione del mondo da parte della potenza umana mantiene la cadenza lineare, scandita tra passato, presente e futuro, ma l’affida alla volontà dell’uomo che, come dice Deleuze, ha ucciso Dio per prenderne il posto (Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p. 227). L’agire non è più orientato al rispetto del nomos divino ma alla creazione di mezzi artificiali, macchine, strutture d’ordine. Scienza e tecniche ma non meno politica e Stato, il “Dio mortale” hobbesiano che trasferisce la creatio ex nihilo (Agostino) “dall’ambito teologico a quello politico, legando in un nesso saldissimo antinaturalismo teologico e decisionismo politico” (Roberto Esposito, Politica e negazione, p.162).

La modernità si incardina dunque su una nuova concezione del tempo: omogeneo, scomponibile, lineare, spazializzato e dotato di un “senso” proprio. Tra politica e temporalità si instaura così un continuo rimando: il tempo diviene la funzione performativa del politico (e della scienza) che a loro volta incessantemente lo riconfigurano e lo confermano come “incedere” progressivo e lineare, scandito da cesure, salti paradigmatici, minacce di regressi. La trama temporale della terminologia politica rivela questa reciprocità: la rivoluzione e la reazione; conservatori e progressisti; il possesso della contingenza; la costruzione della memoria; la strategia verso il futuro; l’ucronia, la nostalgia del passato, l’attesa dell’evento. Un campo di infinte tensioni, pensate e agite sul cursore lineare che fa “scorrere” la politica dentro e fuori l’attuale. Il militante – il punto di caduta antropologico e soggettivo del politico – non può che vivere il tempo in questa dimensione “stressante” tra passato, presente, futuro.

Per la prassi politica la memoria del passato non è ricostruzione storico-filologica ma un rammemorare infuocato. “Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo”. Vuol dire vivificare il passato nelle lotte di oggi fino allo scandalo di farle agire “retroattivamente nella lontananza dei tempi” (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, p. 77). Questo passato è nella misura delle esigenze del presente.

Il presente, cioè la “realtà effettuale” di cui Machiavelli e Lenin hanno acutissimo sentire. Il presente della composizione di classe, scandagliato e attivato con la conricerca. Il presente come tattica, comunque protesa e illuminata dalla strategia verso un dopo annunciato e prefigurato nell’azione. Tutta la politica moderna si svolge in un presente/futuro che intreccia la “lettura della fase” ai “nostri compiti”, la faticosa comprensione del fattuale con grandiose alterità a venire.

Ma come pensa la temporalità il terzo grande attore della modernità? Cosa significa il tempo per l’economia capitalistica, il mercato, la produzione, lo scambio monetario? Il capitale ai suoi esordi ha bisogno di politica. Sappiamo come l’autorappresentazione liberale abbia escluso la politica dalla propria genesi, esaltando il libero fluire degli spiriti animali contro i vincoli del politico. È uno scenario mistificato: il capitale nasce avvinghiato allo Stato, ai suoi eserciti, alle Compagnie “partecipate”, fin dal Cinquecento. Cresce protetto dai dazi doganali, affida la società alla cura sedativa dell’amministrazione borghese. È un “matrimonio di interesse” (di cui si dovrà, appena possibile, fare a meno) perché la politica porta in sé l’irrequietezza di una temporalità mai pacificata. Perché anche quella del dominio borghese, dentro i rapporti di forza incessantemente disequilibrati dall’organizzazione dei ceti subalterni, deve accogliere riforme, imporle al capitale generale che si vede costretto ad accettare la riduzione dell’orario di lavoro e il voto ai cafoni, il diritto alla mutua e la cassa integrazione. Accorgimenti e concessioni non troppo squilibranti, certo, e garantite dall’architettura solida dello Stato liberale (o fascista). Ma non di meno segnali di un volontà orgogliosamente di parte che si manifesta anche come temporalità antagonista: costruzione di una memoria delle lotte e delle vittorie; conoscenza del presente orientata all’azione modificante, prefigurazione militante della “città futura”. Contro il tempo del capitale, contro la sua ossessione del presente come equilibrio, contro il disciplinamento temporale del lavoro vivo.

Questo campo di forze fibrilla nel grande Novecento, scoloritosi con la vittoria di una parte, non certo la nostra. Ridotta la politica ad ancella, il capitale egemone sparge attorno a sé l’immaginario di una circolarità in sedicesimo, immiserita nella versione del presentismo. Non c’è più bisogno di passato e di futuro, il tempo è schiacciato nella puntualità di un presente appena “esteso” oltre la propria puntualità. La fine del valore d’uso è anche la compressione del tempo sul presente di un “gesto”, lo scambio, immemore di tutto ciò che lo trascende. È quanto dice Adorno a Benjamin scrivendo che “ogni reificazione è un oblio” (cit. in Martin Jay, L’immaginazione dialettica, p. 5), sottolineando come la mercificazione del mondo rimuova la densità temporale che sta nelle cose, tanto come lavoro vivo incorporato quanto come passato dell’intelligenza collettiva e del lavoro sociale storico.

Se non si può eliminare il tempo lineare e l’interrogazione critica che esso fa pesare sul presente in atto, si può però neutralizzarlo. Questo è il senso della musealizzazione del passato o del suo addomesticamento accademico che si conclude nell’indifferentismo del gioco ermeneutico. L’abolizione del futuro come irritante sollecitazione del piano presente è invece praticata attraverso la compiaciuta estetizzazione degli scenari “a venire”, in cui si mescolano cyber e zombies, regni totalizzanti e nuovi paradisi, neoumanesimo e robotica. Un immaginario reso totalmente inoffensivo dall’impacchettamento spettacolare che li riduce a gadget dell’industria culturale globale.

Il capitalismo rinserra il reale e il possibile nell’immanenza di un “presente esteso”. In questa atrofia, il tempo è mera durata che non ha bisogno di memoria, priva di relazione con il passato poiché il mercato è centrato sulla effettività del profitto. Tutte le categorie dell’economia politica (quella messa sotto osservazione critica da Marx) sono categoria della presenza a partire dal concetto di “equilibrio”, centrale fin dalla fondazione smithiana. Nel 1968 Kojeve diagnosticava la cristallizzazione dell’Occidente sotto la disciplina capitalistica in un eterno presente. “L’avanguardia dell’umanità ha virtualmente raggiunto il termine e lo scopo, cioè la fine dell’evoluzione storica dell’Uomo (…) sono stato indotto a concludere che l’America way of life era il genere di vita proprio del periodo post-storico, dal momento che l’attuale presenza degli Stati Uniti nel Mondo prefigura il futuro «eterno presente» dell’umanità tutt’intera”(Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, pp. 542n, 543n). E pochi anni dopo Toni Negri descriveva con precisione l’ossessivo avvitamento del presente su di sé nella (finta) dinamica della valorizzazione. Il tempo della produzione e della circolazione, quello del capitale complessivo è solo il presente. “Il tempo è dato nella forma della misura e della contabilità del comando e della funzione. Le aporie, le crisi e i conflitti sono a contenuto e determinazione indifferente. Comunque possono e debbono essere risolti nella circolarità del flusso sociale” (Antonio Negri, Macchina tempo, p. 273). Questo tempo della sussunzione reale, è quello dell’“estasi borghese” (p. 274) che come ogni “fermo immagine” estatico sostanzia l’eterno presente come sospensione del tempo. Se la circolarità pagana era fondata sulla naturalizzazione dell’essere, il capitalismo, naturalizzando l’economia dello scambio monetario, torna alla circolarità destinale, dicendoci che questo presente è l’unico possibile. La circolarità temporale avviene come circolazione autoriprodotta (all’infinito) di merci. Un tempo, non a caso, religiosizzato, come ci ha mostrato Benjamin, in una sorta di riproduzione caricaturale dell’eterno ritorno pagano. Ancora Negri: “Vi è solo l’estasi. Il percorso lineare del tempo deve farsi circolare perché la totalità è il presupposto. Anziché paradosso della concezione lineare del tempo, la teoria dell’eterno ritorno si presenta come giustificazione dell’insensatezza di qualsiasi freccia di direzione temporale. Il fuoco cosmologico si è estinto, questa è la differenza che corre tra gli antichi e Nietzsche. L’analitica del capitale opera su una totalità senza genesi, senza contraddizioni, senza processo. Analitica delle totalità dove la totalità è il presupposto. Il tempo è tolto” (Antonio Negri, Macchina tempo, p. 278). Cos’è il presentismo se non una mobilitazione permanente del consumo in cui il vettore tempo, potenziale portatore di memoria e strategia di alterità, è spezzettato e avvitato su di sé nel ritmo del lavoro, sia quello dei recessi tayloristici che quello monitorato della consegna-merce.

Nella fine della storia, la figura militante oscilla tra l’amministratore del presente e l’iperattualismo della rivoluzione declinata come “un presente potenziale, nella sua integrale attualità. È un processo senza progresso che si realizza, ogni volta e per sempre, in ogni singolo gesto che apre una via d’uscita a questo presente organizzato dal dominio” (Tarì, Non esiste la rivoluzione infelice, 72). Non guardiamo con sufficienza, con il dito ammonitore alzato, né la riunione di un consiglio comunale né una manifestazione organizzata per il conflitto di strada. Ma rileviamo, in entrambi i casi, lo schiacciamento sul presente, il respiro corto di fronte a una storia che potrebbe ancora lanciare appelli al presente, invitandolo a pensare oltre il suo confine.

Ma, forse, c’è ancora qualche margine da forzare per riacciuffare le suggestioni e i consigli del tempo, se non il suo governo. Assumere memoria, “studiare” il passato con le spalle al futuro perché esso può dire di noi e dei nostri compiti più di quanto insegni un presente egemonizzato dall’avversario (Mario Tronti). Pensare con Nietzsche che “la storia compete al vivente sotto tre aspetti: lo riguarda, quale essere attivo e che ha aspirazioni, quale essere che conserva e venera, quale sofferente e bisognoso di liberazione” (Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia, p. 45). Fare dunque prassi, oggi, di liberazione, dopo aver afferrato il presente nella sua composizione reale. Infine, ragionare di un futuro prossimo tra strategia e organizzazione sapendo che “ciò che possiamo proporci non è affatto abolire il capitale (…) ma spostarne continuamente l'equilibrio, impedirne la stabilizzazione” (Franco “Bifo” Berardi, La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato, p. 47) individuando “luoghi comuni che, per quanto interni alle dinamiche capitalistiche, rendano al contempo materialmente visibile l’irriducibilità e l’incommensurabilità delle nuove espressioni del lavoro vivo alla logica del capitale” (Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero, Introduzione a Gli operaisti, p. 34). Questi luoghi sono quelli di un futuro possibile, prefigurato da un’azione militante sempre ancora da inventare. Dobbiamo agire come se questa possibilità di alterità piena ci sia data. Il militante vive questa tensione tra la consapevolezza di un orizzonte non definitivamente superabile e la volontà di andare verso la sua completa alterità.

È un lavoro minuzioso che ci piace pensare prossimo a quello dell’incisore. È un lavoro di cui non abbiamo gli esiti ma di cui conosciamo la direzione.