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Non esiste la rivolta infelice

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Marco Rizzo recensisce “Non esiste la rivoluzione infelice” di Marcello Tarì

Questo testo vuole essere insieme una recensione e un tentativo di dialogo critico attorno ad alcune questioni che l’ultimo libro di Marcello Tarì (Non esiste la rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione, DeriveApprodi 2017) ha l’importante merito di sollevare e di affrontare in maniera potente e originale. Alcune delle soluzioni proposte per sciogliere determinati nodi che riguardano la crisi della militanza anticapitalista oggi, e la necessità di trasformarne forme organizzative, strategie e orizzonti di senso, risultano politicamente problematiche e invitano a riannodare i problemi, a continuare la discussione. Questo scritto, nel suo piccolo, vorrebbe contribuire a dare visibilità a un libro che meritava ben altro numero di presentazioni e intensità di dibattito rispetto a quello che ha avuto finora.

“Un manifesto dell’entusiasmo rivoluzionario

potrebbe essere riassunto nell’affermazione:

«proprio perché siamo, uno per una, senza speranza,

noi abbiamo smesso di aspettare.»”

Un secolo dopo la Rivoluzione d’Ottobre e a cinquant’anni dal ’68, nel bel mezzo del disastro sociale ed ecologico del mondo capitalistico e fra le macerie della democrazia reale contemporanea, è ancora possibile porsi il problema della rivoluzione e del comunismo come una sfida etica, politica ed esistenziale da assumersi con la massima serietà e passione? Su questo interrogativo inizia l’ultimo libro di Marcello Tarì. E se è vero come scrive che “dei rivoluzionari vengono al mondo nel momento stesso in cui degli individui rivolgono a se stessi quella domanda e cominciano, insieme ad altri, a elaborare delle risposte” (p. 5), allora oggi più che mai un libro come questo risulta prezioso. Perché mette sul tavolo una serie di problemi e di questioni colpevolmente trascurate negli ambiti militanti. Perché a partire dalla disponibilità a confrontarsi con queste domande, e a ricercare delle risposte situate a partire dalle esigenze visibili e nascoste dell’oggi, possono essere tracciate delle nuove amicizie politiche tra singoli e realtà collettive che vogliono provare a misurarsi con la sfida rischiosa di ripensare radicalmente se stessi, il senso del proprio agire e del proprio stare insieme.

In questa sede, ripercorreremo i capitoli del libro riorganizzandone la materia attorno a quattro itinerari: la questione del noi, delle forme di vita e delle forme della militanza anticapitalista; la ridefinizione politica del concetto di territorio; la cura e l’elaborazione di una spiritualità rivoluzionaria; il confronto con le forme e i caratteri della potenza destituente per come essa si è manifestata nelle insorgenze degli ultimi due decenni.

Sulla militanza rivoluzionaria: forme di vita e di non-vita

1917, 1968, 1977… Il Novecento è per noi segnato da alcune date in cui milioni di oppressi sono insorti e hanno tentato di interrompere la Storia dei vincitori. Oggi in Italia, in questa seconda metà degli anni ’10 del XXI secolo, a parte poche eccezioni, il frammentato mondo dei centri sociali e delle organizzazioni anticapitaliste perlopiù attraversa queste ricorrenze senza riuscire a interrompere neanche la propria di crisi.

Questa crisi ha tanti nomi: competizione distruttiva tra le aree e i gruppi, assenza di metodo e di studio del nostro nemico, abbandono della ricerca teorica, radicalismo ideologico senza sforzo di costruzione del conflitto reale, scissione tra militanza e vita. Molti altri se ne potrebbero aggiungere. Ricorrendo a un’immagine suggestiva, Tarì scrive che il rapporto con la tradizione della militanza rivoluzionaria e con l’esaurimento dei suo modelli è “quello di un lutto irrisolto. I K-way neri, divenuti una presenza costante in ogni manifestazione in cui accade qualcosa, pare siano lì giusto per ricordarlo a tutto il resto del corteo.” (p. 8) Occorre allora avere il coraggio di prendere di petto questa crisi, financo accelerarla per chiudere la stagione del “movimento in assenza di movimento”. Il libro di Tarì ci è utile in questo sforzo di intelligenza e immaginazione non più rimandabile. Forse proprio da ciò, dall’aver voluto affrontare quella materia scottante che è il nostro noi (così come siamo realmente e non come vorremmo essere), si spiega la riluttanza a confrontarsi veramente con le questioni questo testo ci pone.

Si dice spesso che l’autoreferenzialità è uno dei vizi più riscontrati nell’ambito dei centri sociali e dei collettivi “di movimento”, vizio che ne determina la marginalità politica. Meno scontato e quasi mai riconosciuto come problema su cui discutere collettivamente, è però un paradosso che Tarì affronta con spietatezza: questa autoreferenzialità delle realtà militanti si accompagna spesso a una sostanziale assenza a se stessi degli individui che ne fanno parte. Non c’è una vera esperienza del noi, né un’esperienza alt(r)a di se stessi all’interno di questi gruppi.

Quanto questo sia un problema centrale, che riguarda la ricostruzione di soggetti collettivi oggi in affanno, lo vediamo bene proprio in fasi come questa. Che cosa accade infatti quando le lotte affrontano una fase di bassa, quando non c’è più alcuna scadenza (spesso più imposta dai nostri nemici che frutto di una nostra iniziativa offensiva) su cui proiettare le proprie forze, quando fuori sembra che non ci sia movimento e la progettualità va in crisi, quando finiamo con l’arrancare e il perdere la bussola? Due sono fondamentalmente gli esiti possibili.

Nel primo caso, si tende a rinchiudersi in se stessi, nelle quattro mura del proprio spazio autogestito, ci si accontenta dell’amministrazione dell’esistente, delle piccole cose fatte per abitudine e per darsi l’impressione di esistere ancora come realtà collettiva. Molto spesso è così che i gruppi esauriscono la loro spinta vitale: nella ripetitività delle pratiche e nell’assenza di discussione sui perché, nell’evitamento del conflitto interno, nella paura di scommettere politicamente su qualcosa che potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza del gruppo così com’è. Talvolta quest’ultimo aspetto si presenta nella forma di una presunta purezza da difendere rispetto a un mondo esterno percepito come indifferentemente ostile, o incapace di intendere la verità posseduta dagli “illuminati”. L’amicizia politica si trasforma in questo caso in un’amicizia e basta, in cui la politica è solo cornice, rievocazione memoriale o allucinazione socializzata.

C’è un esito differente, che però a ben vedere può avvenire anche in successione al precedente. Di fronte a una crisi di prospettiva e di senso del proprio agire, i collettivi si assottigliano via via fino a scomparire: gli spazi e i tempi collettivi vengono disertati fino a sopravvivere unicamente nella forma zombie di una pagina facebook senza più un corpo alle spalle, o di uno spazio che ha cessato di essere un luogo. La scusa del ritorno alla vita privata (che si parli di famiglia, studio, lavoro o altri interessi, fa lo stesso) serve per lo più da maschera per nascondere la palese assenza di legami di intimità politica tra gli individui di quel gruppo. Nella fragilità o nell’assenza di questa dimensione capace di fare da collante, rendendo quel gruppo una realtà e un’esperienza invece che una sigla, i collettivi si dissolvono.

Qui stanno alcuni dei problemi su cui oggi è necessario discutere e ridiscutersi. Scrive Tarì:

“E se fare esperienza […] è possibile solo insieme ad altri, è pur vero che solo una forza composta da individui che sanno cosa vuol dire la solitudine, cioè l’essere solamente ciò che si è, che hanno un rapporto alla vita e alla morte e conoscono sia la felicità che la tristezza può compiere una vera esperienza. Il problema dei «collettivi» è che appena si istituzionalizzano rimuovono le esperienze che hanno fatto, la loro rigida informalità è incapace di trattenerle. […] Nessuna collettivizzazione, in ogni caso, potrà mai imporre artificialmente il comunismo né sostituire o annullare il lavoro del sé su di sé, e sono proprio quelli che cominciano a compiere, uno per uno, questo lavoro a poter dare vita a una comune, la quale, a sua volta, corregge l’egoismo individuale. Questa è una delle differenze, e non tra le meno importanti, tra un collettivo qualsiasi e una forma di vita comunista.” (p. 12)

Se intendiamo qui il comunismo come forma di vita intensificata, come una potenza che permette agli individui di compiere delle esperienze e degli incontri altri e alti con il proprio sé e con il mondo, ci rendiamo conto di quanto l’attenzione e la cura per questa dimensione sia il più delle volte trascurata negli ambienti che ambiscono a porsi come avanguardia e prefigurazione di questa potenza. Essa trova difficilmente spazio in quelle sedi “istituzionali” che sono le assemblee. Qui in genere si fa l’analisi di un passaggio di lotta, della fase attuale, si elabora una progettualità per il futuro; più difficilmente si trova il modo – Tarì direbbe forse i punti di interruzione del continuum di una militanza alienata – per parlare di quello che si è provato durante un momento di rivolta, quello che ha significato vivere e abitare per alcuni mesi in uno spazio liberato, oppure la tristezza e l’affiorare della domanda sul senso di continuare la lotta nei momenti di difficoltà.

Questi bisogni che vengono dall’interiorità dei militanti, e che cercherebbero un esterno capace di restituire un messaggio di risposta, per paura o per conformismo finiscono invece per rimanere in una posizione laterale, come un qualcosa che i singoli debbono elaborare per conto proprio per non intralciare l’efficienza produttiva del collettivo (che si parli di lotte, manifestazioni, feste o concerti, fa di nuovo lo stesso). Succede allora che le conversazioni più belle tra i compagni e le compagne, quelle che fanno veramente conoscere tra loro degli individui con le loro contraddizioni e con la loro complessità di vissuto, di sensibilità e aspirazioni, ovvero quelle conversazioni che generano un momento di intimità politica tra degli individui finalmente esposti, in cui può essere finalmente raccontata la propria personale battaglia da combattere dentro la battaglia di tutti per il comunismo, avvengono quasi sempre fuori dalle assemblee, fuori dai luoghi dalla militanza istituzionalizzata.

Qui sta una delle debolezze strutturali di molte organizzazioni: quando l’amicizia politica è un qualcosa che nasce, si rafforza, oppure deperisce e muore a parte, non dentro e durante i momenti collettivi; quando si sta in un gruppo per necessità, mancanza di meglio, e non per reale senso di appartenenza a un progetto o all’essere presenti qui e ora; quando tra compagni e compagne, ci fidiamo realmente e sperimentiamo un’intimità politica solo con i nostri amici.

Dicendo questo non si vuole proporre di aprire artificiosamente i momenti collettivi al flusso disordinato delle esistenze di ognuno, laddove questi momenti risultino eccessivamente ingessati; si tratta invece di fare in modo che le dimensioni temporali dell’essere presenti qui e ora in quanto individui singolari, e del divenire comune, si mantengano in un rapporto di tensione e attenzione reciproca. Ci ricorda infatti Tarì: “La rivoluzione ha sempre significato la destituzione delle identità assegnateci da questo mondo e continua a esserlo, ma il militante non può più essere la quintessenza della politica dei mezzi per un fine, un corpo e una voce che diventano strumenti attraverso i quali si determina la volontà progressiva della Storia. Un’avanguardia esterna innanzitutto a se stessa, cioè alla propria e altrui vita. (p. 9)

Dal basso del problema, per chi vuole continuare la ricerca, qualche messa in guardia rispetto ad alcune false soluzioni. Una di queste è il ritenere che la via di uscita dall’alienazione del militante rispetto alla vita propria e altrui possa risiedere nel semplice ritorno ai propri bisogni e desideri immediati. Laddove il progetto rivoluzionario ha i piedi d’argilla o è soltanto evocato a parole, senza alcuna intima convinzione e investimento esistenziale, il “che fare?” si riduce al “di che cosa abbiamo voglia adesso?”. Qui, è bene dirlo chiaramente, la militanza trova il suo requiem: nello smarrimento di una prospettiva di trasformazione generale si smarrisce anche la consapevolezza della specificità del ruolo e dei compiti che i militanti hanno rispetto all’organizzazione del conflitto e alla ricomposizione delle soggettività che dovrebbero animarlo.

Su questo punto è opportuno allora problematizzare alcune delle tesi che rinveniamo nel libro. Per esempio, scrivere che “bisogna respingere il compito come misura della forma di vita rivoluzionaria, poiché ogni compito è sempre una finalità esterna, viene da fuori e mai da dentro” (p. 166) significa dare un’indicazione alquanto discutibile. La politica non è forse l’arte del possibile? E le condizioni di possibilità dell’azione militante e anche della rivoluzione non dipendono in larghissima parte da un’oggettività di condizioni materiali da cui non si può prescindere, pena il rischio di un volontarismo senza materialità dei processi?

Con ciò non si vuole certo sottovalutare l’importanza del rinnovare continuamente, nel proprio intimo, la domanda sul perché della pratica e della forma di vita rivoluzionaria, certo non più dettata da un destino da adempiere inscritto nelle logiche della Storia (idea contro cui l’autore, sulla scia di Benjamin, polemizza giustamente a più riprese); si vorrebbe invece suggerire la possibilità di introdurre anche in questo caso una dialettica tra dentro e fuori, tra libertà e necessità, tra l’adesso e il divenire. Alcuni compagni direbbero “massima rigidità strategica, massima flessibilità tattica” ed è a nostro avviso da quelle parti che sta la soluzione.

Tarì scrive poi che “la prassi destituente risolve in se stessa soggetto e oggetto, costruzione e distruzione, resiste alla separazione in causa ed effetto e vive nella sua immediata capacità di trasformazione” (p. 157), mentre “uno dei grandi punti ciechi dei rivoluzionari è sempre stato contenuto nella presunzione che l’organizzazione rivoluzionaria fosse il momento di mediazione tra la teoria e la prassi, considerate cioè come funzioni separate, come ci fosse un vuoto da riempire tra di esse, rendendo dipendenti gli «altri» dalle azioni promosse dall’Organizzazione e l’Organizzazione stessa da dei criteri di efficacia del tutto esteriori alla vita qual è.” (p. 158)

Anche questa tesi risulta problematica: se la vita così com’è va interrotta, ciò non può avvenire senza l’applicazione di una forza che trasforma la realtà comune e quella interiore degli individui. Ad oggi risulta evidente che si rinvengono poche tracce di questa forza dotata di “immediata capacità di trasformazione” della vita con cui entra in contatto; ciò anche per limiti intrinseci delle forme di vita e delle forme di organizzazione dei compagni e delle compagne che è necessario interrogare, anche a partire da spunti come quelli che ci fornisce il testo di Tarì. Ma se questa inadeguatezza – che è sicuramente reale - vogliamo correggerla, e non far restare questo proposito allo stato di semplice auspicio, è necessario porsi il problema del metodo come elemento mediatore tra le dimensioni della prassi e delle teoria, oggi spesso drammaticamente separate negli ambiti collettivi. La sfida da porsi è dunque quella di rendere questo metodo qualcosa con cui i militanti sviluppano una sempre maggiore confidenza, fino a farlo coincidere con qualcosa che viene dal dentro. Come una forma di vita appunto.

La Comune contro la metropoli

Ed è proprio sulla questione delle forme di vita che il saggio di Tarì ci consegna alcune delle pagine più interessanti, in particolare in un capitolo che fa da cerniera fra la prima e la seconda parte del libro, dedicato alle centinaia di comuni che sorsero in Russia negli anni Venti all’indomani della Rivoluzione del 1917 e alla battaglia per il novy bit (“nuova forma di vita”, il vero lascito incompiuto dell’Ottobre) che vide impegnati tra gli altri gli attivisti del L.E.F. (Fronte di sinistra dell’ arte). Così scrivevano questi artisti e intellettuali:

“La borghesia e la nobiltà – gli sfruttatori – sono stati battuti militarmente e politicamente, ma la loro influenza è sempre qui, presente. Più presente della presenza della rivoluzione, perché ogni oggetto, ogni edificio, ogni dipinto, ogni monumento, ogni testimonianza culturale è carica dei valori della borghesia che li ha creati a sua immagine, per il proprio uso e per il proprio piacere. Il quotidiano, l’ambiente nel suo insieme è quello di ieri, e così la morale e l’ideologia.” (cit. p. 134)

Non si tratta di un problema meramente storiografico, ma direttamente politico nella misura in cui chiama in causa una serie di interrogativi dirimenti per l’oggi. Che cosa significa abitare politicamente un territorio? Come creare comunità solidali dentro il deserto metropolitano? Come evitare che anche quelli spazi che si vorrebbero non conformi e antagonisti al funzionamento della metropoli capitalista finiscano per diventarne una riserva alternativa, come è avvenuto per molti centri sociali?

La riflessione di Tarì sulle categorie di territorio, popolazione, metropoli e abitare deve molto al concetto foucaultiano di governamentalità come disciplina delle forme di vita, dei legami e degli affetti che intercorrono tra di loro e tra esse e il potere. Sulla base di questa concezione, l’autore assume come centrale la dimensione di alterità affettiva che deve caratterizzare quei lembi di territorio che vogliono scioperare e rallentare i flussi della merce e del consumo che danno forma alla metropoli. È soprattutto il carattere disperante e inumano dello spazio contemporaneo ciò che deve animare ogni tentativo di porre in stato di arresto l’“infernale vitalità macchinica” del capitalismo, di quell’unico territorio che è il continuum della metropoli globale.

“Viviamo in un non-mondo che funziona ma che è divenuto invivibile, un non-mondo che continua a produrre ma che è inabitabile. La nostra soggettività non è esterna a tutto questo, anch’essa funziona e produce, anch’essa è altrettanto invivibile e inabitabile. Generare delle soggettività apocalittiche significa di fatto produrre dei soggetti che si abituino a vivere nella catastrofe, sorridendogli per di più, e per i quali approntare degli ambienti asettici, digitali di preferenza, che siano il loro domicilio coatto.” (p. 71)

“Non è certo un’esagerazione pensare che per la maggior parte dei metropolitani, cioè degli occidentali, la vita venga vissuta attraverso la mediazione dei mille dispositivi tecnologici con i quali il capitalismo ha ottenuto non solo fantastici guadagni ma anche la possibilità di controllarci fin nell’intimità e di modellare giornalmente la nostra forma di vita. Non viviamo più in un mondo, ma in uno «spazio operativo» che lo doppia, lo ricopre totalmente.” (p. 114)

Ogni discorso sulla rivoluzione come evento politico non può quindi prescindere dalla stessa domanda che si posero i membri del L.E.F.: come cambiare la nostra forma di vita, le forme del nostro stare insieme? La battaglia strategica per Tarì consiste nell’elaborare una prassi destituente dell’abitare che sia capace di strappare territori al dominio del capitale e dello stato (sull’esempio della Val di Susa e della ZAD francese) ma che sia anche capace di far nascere, attraverso processi di lotta – ma l’autore sembra indicare come possibile anche il movimento inverso -, una forma di vita. E quindi anche un “popolo”, dato che “una popolazione diviene tale solo una volta che un popolo o una forma di vita vengono distaccati, espropriati e isolati dai propri luoghi.” (p. 109). Quanto questo tipo di prassi vada a colpire e a far male ai gangli vitali del capitale, attraverso il rallentamento dei suoi flussi e il sabotaggio delle sue infrastrutture, lo vediamo bene dall’investimento in termini repressivi che si riversa contro queste esperienze, proporzionale all’indisponibilità delle forme di vita che vi si generano a rientrare nei ranghi del suo dominio.

Secondo l’autore non basta tuttavia impostare la battaglia contro la metropoli semplicemente sul piano della “riappropriazione”. Questa parola d’ordine (che pure ha goduto di molta fortuna nell’ambito dei movimenti di lotta per la casa e per gli spazi sociali di questi anni), ponendo necessariamente l’accento sul possesso e sul controllo di un territorio, mette però in secondo piano la necessità di abitarlo diversamente, di farne un altro uso e “porlo in un divenire-mondo” (p. 116):

“Non si deve pensare semplicisticamente all’occupazione o distruzione sans phrase di un territorio quando questo si presenta, nella metropoli, come saturo di ostilità – si pensi ad esempio ai territori gentrificati o alle periferie fascisteggianti - ma alla possibilità di disgregarlo dall’interno, allentarlo ed esaminare le possibilità di comporlo diversamente, non astrattamente ma nella vita stessa.” (p. 122)

Un lavoro che richiede attenzione, sensibilità, intelligenza, l’esatto contrario della fuga in qualche interstizio marginale in cui poter stare bene tra i propri simili per poter poi sopportare il mondo che continua a persistere fuori, e che certo non si sente minacciato da queste nicchie ripiegate su di sé e dunque inoffensive. A scanso di equivoci, Tarì usa infatti parole molto nette rispetto all’atteggiamento con cui dovrebbero essere abitate delle autentiche oasi resistenti:

“Non è possibile pensare i territori e gli incontri che cercano di mettere una certa distanza tra loro e la metropoli come dei comodi ripari nel deserto del presente e credere che siano per questo destituenti. […] Quando pensiamo di usare le oasi per fuggire la guerra contro il presente o, più semplicemente, l’insoddisfazione per la vita che facciamo, illudendoci di tener fuori tutta la bruttura del mondo e ripararci alla sua ombra invece di combattere il deserto, queste oasi vengono distrutte, poiché quello che il deserto vuole è esattamente il fatto che tutti si abituino alla sua presenza, che lo abitino passivamente, acconsentendo così alla sua implacabile violenza pacificante.” (pp. 106-107)

Secondo Tarì, riprendendo alcune tesi già elaborate dal Comitato Invisibile, è proprio la capacità di far entrare in contatto tra loro questi mondi, le migliaia di “basi rosse” e comuni sorelle sparse per il globo, ciò che può costituire oggi il nostro partito, inteso non come l’organizzazione “vicaria” di una classe, ma come “il piano di consistenza sul e attraverso il quale circolano e si organizzano le potenze rivoluzionarie” (p. 77). Un partito che vada alla ricerca anche di quelle tante forme di diserzione individuale che popolano la società atomizzata contemporanea senza riuscire a farsi esperienza collettiva: “Scioperare tutti soli si risolve quasi sempre in un assentarsi dal mondo senza più possibilità di creare altre forme di vita. A meno di non incontrare altri scioperanti, prestarsi un giuramento di mutuo appoggio contro l’esercito del presente e, chissà, dare vita a una comune.” (p. 93)

Elogio della spiritualità militante

Uno dei grandi meriti del libro di Tarì, tanto più prezioso in un momento come questo segnato da una crisi generalizzata della militanza anticapitalista sia in termini di elaborazione politica che di motivazione al continuare la lotta, è lo spazio che vi si dedica alla questione della spiritualità rivoluzionaria.

Immaginiamo già le risatine degli aridi materialisti o dei custodi del socialismo “scientifico” rispetto alla possibilità che in un libro sulla rivoluzione possa trovare spazio una costellazione di senso che va dalle lettere paoline a quelle di Kafka, dalla mistica ebraica fino a porre a confronto in un capitolo – addirittura - l’esperienza del comunismo con quella dell’amore. Facciamo volentieri a meno di loro. Abbiamo altro a cui pensare, a partire dall’attenzione e dalla cura che dobbiamo dedicare alla costruzione di una fortezza soggettiva, di una corazza d’acciaio che ci protegga dalle tentazioni dell’abbandono della lotta e dell’accomodamento col presente, una corazza che presenti però anche delle fessure da cui far sgorgare una propria sorgente di energia vitale, o da cui farsi ferire - dallo squallore del mondo del capitale come dalla bellezza degli incontri.

Ciò che caratterizza la spiritualità del militante è infatti il rapporto con il tempo, un rapporto di nemicità con la Storia dei vincitori e di intimità con la storia degli oppressi così come con la propria, con “quel certo punto di interruzione esistenziale che con la sua intensità ha segnato il nostro singolare divenire rivoluzionario” (pp. 16-17). Il militante, ci dice Tarì, è colui che decide di mantenersi fedele “a una verità, la verità di un incontro che ciascuno fa nella propria vita non con degli individui, né con un’idea, ma con una forza. Per i rivoluzionari un vero incontro è quello che non solo, per il tramite di questa forza, fa esistere un’amicizia politica, ma offre a ciascuno la possibilità di entrare in contatto con il proprio sé e da lì prendere una decisione sulla propria vita, insieme ad altri.” (p. 10)

Anche la scrittura politica fa parte di questi incontri e possibilità di interruzione, se non la concepiamo semplicemente come uno strumento da padroneggiare, dimostrando di saper adoperare un certo lessico o apparato concettuale buono per essere riconosciuti in questa o quella parrocchia. Quello di cui abbiamo bisogno è una scrittura che non solo ci permetta di afferrare il reale, ma che sia anche capace di portare guerra, crepe e ferite dentro l’interiorità delle persone che ci circondano. Certo la scrittura di Tarì, per coloro che ne hanno familiarità, adempie perfettamente a questo scopo, seduce ma non è ingannevole. Anche solo per questo, al di là della densità concettuale racchiusa nel testo di cui parliamo e della ricchezza di spunti di discussione che pone, merita di essere letta e fatta conoscere.

Sulla scia della lezione di Benjamin – vero e proprio nume tutelare del libro, la cui forza rivoluzionaria viene paragonata a “uno stendardo in fiamme piantato nel cuore dell’oscurità del presente” (p. 42) – secondo Tarì è necessario innanzitutto ridefinire il rapporto soggettivo da intrattenere nei confronti del futuro. È dalla cessazione di ogni speranza di matrice progressista (o, nella sua ultima variante, accelerazionista) rispetto all’avvenire che muove il bisogno di far emergere qui e ora il nostro “partito storico”, e di scagliarne la potenza distruttiva contro la Storia di quel nemico che non ha smesso di vincere. “Comincia così una nuova educazione sentimentale” (p. 88):

"Ogni discorso contemporaneo sulla «crisi» che voglia essere credibile non può che evidenziare che il termine futuro non ha più una valenza liberatrice […]. Oggi, in assenza di una dimensione autonoma del futuro, possiamo pensare dunque che i partigiani di questo contro-presente operino non certo attraverso uno spirito ottimistico-progressivo ma, verosimilmente, tramite un «disfattismo costruttivo», questo bel concetto polemico evocato da Heiner Muller, oppure, per dirla ancora una volta con Walter Benjamin, organizzando il pessimismo." (pp. 67-69)

"Aiutare a pensare cosa distruggere di questo inferno del presente è l'unica funzione positiva dell'utopia politica, annotò un giorno Walter Benjamin. Il mondo «come vorremmo che fosse», l'utopia, non è allora un'immagine di cui servirsi per proiettarsi nel futuro, bensì, attraverso l'attenta disamina degli elementi del presente che non compaiono più nel mondo utopico, a individuare ciò che adesso va affrontato poiché merita di essere distrutto, che letteralmente non abbia più luogo. L'utopia è una fiction volta a illuminare il male nell'oggi più che il bene nell'avvenire, essa ci parla non tanto della beatitudine del futuro ma della distopia del presente, non di quello da aggiungere ma di quello da sottrarre all'oggi. Un pensiero rivoluzionario che volesse fare uso dell'utopia è quindi un pensiero che si definisce come un'operazione di sottrazione e di attacco dentro e contro il presente, per portarlo fuori di sé, e non come una maggiorazione esponenziale dell'oggi nel futuro. L'utopia è un altro di quei mezzi, in questo particolare significato, che costituiscono quel fuori attraverso il quale dare l'assalto alla fortezza del presente." (pp. 74-75)

L’altro grande fuori da cui trarre linfa per continuare la battaglia contro il presente dominante è il passato dei vinti, la tradizione degli oppressi. Al pensiero di Benjamin si affianca qui quello dell’ultimo Tronti: “La tradizione non è il passato, ma è quello che del passato resta nella nostre mani come irriducibile al presente.” (Dello spirito libero). Perciò, secondo Tarì, della tradizione rivoluzionaria sono per lo più le sconfitte, gli assalti al cielo incompiuti o repressi ciò che può andare a comporre quel campo di irriducibilità a cui attingere ispirazione per l’oggi. Ed è proprio questa disponibilità a rammemorare e a rinnovare nel presente quelle interruzioni, il punto in cui la spiritualità rivoluzionaria si intreccia con il desiderio di felicità. Di nuovo da Benjamin:

“L'immagine di felicità che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l'invidia c'è solo nell'aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi. In altre parole, nell'idea di felicità risuona ineliminabile l'idea di redenzione. Ed è lo stesso per l'idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell'aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un'eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è cosi, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo." (Sul concetto di storia)

Se è senza dubbio condivisibile il rigettare qualunque tentativo di restaurare il fortunatamente decaduto ottimismo progressista, che altro non è che l’essenza ideologica di una sinistra ormai divenuta perfettamente omogenea allo sviluppo capitalista, risulta invece rischiosa la scelta di rifiutare in toto la dimensione del futuro come campo di battaglia, sia sul piano dell’immaginario che della pratica politica. Quello che ci manca, tra il cattivo presente e il cattivo futuro del capitale con il loro corredato di passioni da destituire, è una temporalità autonoma: quella della progettualità rivoluzionaria come processo di erosione e distruzione del campo nemico e di allenamento costante della capacità di riconoscere – come annota lo stesso Tarì - “cosa aumenta la nostra potenza e cosa la diminuisce, che è una delle formule con cui possiamo intendere oggi che cos’è un’inchiesta comunista.” (p. 101)

Fare buon uso delle rovine, curare l’interiorità dei militanti e gli affetti imparando a concepirli non come ambiti privati, sottratti o di intralcio alla lotta collettiva – conosciamo fin troppo bene i tristissimi tentativi con cui nella tradizione marxista si è cercato di derubricare queste questioni a una supposta persistenza dell’ideologia borghese – ma come dei territori di politicizzazione. Queste sono alcune delle indicazioni che, una volta sgombrato il campo da ogni forma di indulgenza nei confronti della tentazione di autosufficienza della comunità felicemente separata dalla realtà, è importante raccogliere e portare nel dibattito degli ambiti collettivi. “Abbiamo a disposizione tutto il passato dei vinti, tutta la storia degli oppressi e tutta l’attualità, la difficile attualità delle nostre esistenze, per costruire un’etica più forte dell’economia morale dei dominatori.” (p. 237)

Destituire il presente

La riflessione di Tarì sulle condizioni di possibilità di rotture rivoluzionarie nel presente muove da “un assunto che, per quanto possa risultare scomodo, è difficilmente contestabile: tutte le rivolte e le insurrezioni occorse negli ultimi anni sono state rivolte e insurrezioni destituenti.” (p. 18). Dalla rivolta argentina del 2001 fino al movimento contro la Loi Travail in Francia della primavera 2016, il testo si pone l’obiettivo di rinvenire quella che viene definita “l’ombra segreta” dei processi rivoluzionari del passato e di interpretare lo spirito che accompagna il suo riaffacciarsi nel nostro tempo, tracciando delle linee fra i vari punti dove una “verità incontra una realtà”, ovvero dove ha luogo l’oltrepassamento di quella soglia “al di qua della quale c’è la narcosi e al di là della quale non si è più disposti a tollerare l’intollerabile.” (p. 36)

Il timore dei governi per questa materia incandescente è secondo solo a quello dei teorici del potere costituente che popolano l’intellighenzia e le dirigenze della sinistra radicale europea e italiana, di cui l’autore ci fornisce una sconsolata e pungente rassegna. La potenza destituente mette infatti in discussione alla radice il paradigma delle rivoluzioni della modernità (quelle borghesi, ma anche quelle comuniste) secondo cui a un’insurrezione segue l’instaurazione di un nuovo governo in cui il soggetto rivoluzionario dovrebbe costituirsi come potere. Rispetto a questo modello che innerva la modernità occidentale, la potenza destituente si pone in un rapporto di opposizione non dialettico: si tratta di “far sì che non vi sia più quel double bind che ha strozzato le rivoluzioni del passato e che il gesto destituente contenga in sé tanto il momento distruttivo che quello costruttivo, i quali divengono così indistinguibili, non più separabili.” (p. 24)

Il compito primario dei rivoluzionari è dunque per l’autore non tanto quello di elaborare un altro programma di governo o progettare le forme di un altro organigramma sociale, ma innanzitutto spezzare la catena della continuità del potere, interrompere la Storia dei vincitori, bandire con fermezza dal proprio orizzonte politico qualunque ritorno a quella “democrazia reale” contemporanea che si fonda, per le masse, sulla incessante espropriazione della loro facoltà di divenire “un soggetto unificato capace di agire; esse sono come separate dalle potenze che permetterebbero di costituirsi in «popolo»” (D. Lapoujade). È in mezzo alla rivolta, invece,

“in quelle strade dall’odore acre, in quel cielo che porta con sé il fumo nero che si alza sui tetti dei palazzi di cristallo rendendo indistinta ogni identità e allo stesso tempo politicizzando la vita di tutti, in quei territori che entrano in secessione dallo Stato, in quei gesti anonimi di condivisione attraverso cui si esprime la presenza del comunismo - che è possibile intravedere quel demos che è clamorosamente assente dal desertico palcoscenico delle democrazie reali. […] Il problema rivoluzionario, allora, è come far sì che quella potenza non si chiuda mai, ossia che non venga mai catturata nella forma del Governo. (p. 30)

È il Walter Benjamin di Per la critica della violenza il punto di partenza di una teoria politica della destituzione, il Benjamin che riflette sull’antitesi tra diritto e giustizia e che rinviene nella violenza della polizia (vero e proprio ultimo baluardo degli Stati contemporanei) “l’espressione massima, istituzionale, del confondersi di potere costituente, nella sua creativa arbitrarietà, e potere costituito, nella sua ovvia tendenza conservatrice” (p. 43), vale a dire del carattere fondamentalmente an-archico del potere su cui sarebbe poi ritornato Agamben. A fronte della dismissione dei sistemi di welfare da parte degli Stati contemporanei, del ritorno violento dei confini e della normalizzazione dello Stato di emergenza, è difficilmente contestabile l’affermazione di Tarì secondo cui “per l’Occidente il politico e la polizia sono da tempo dei concetti del tutto coestensivi” (p. 49).

Ed è proprio sulla scia del saggio di Benjamin che l’autore dedica una serie di capitoli ai diversi piani su cui e contro cui dovrebbe oggi declinarsi uno sciopero destituente, il cui vero significato, a differenza di uno sciopero che punta semplicemente ad ottenere rivendicazioni specifiche, “si compie nella realizzazione della distruzione del potere statale, nel far coincidere la sospensione della legge con la fine della violenza dello sfruttamento” (p. 57), in modo tale da non permettere più il ripristino del dominio preesistente.

Il suo essere caratterizzato da “una molteplicità di fuochi e non da una centrale a partire dalla quale si irradierebbe lo sciopero” (p. 60) lo avvicina per molti aspetti alle insorgenze contemporanee, a partire da quella argentina del 2001 (lungamente analizzata dal Colectivo Situaciones), la quale - senza che per questo debba essere assunta a modello da seguire e riprodurre ovunque, come ricorda lo stesso Tarì - ha il valore di “un paradigma – un exemplum – delle lotte che si sono aperte all’indomani della dichiarazione dello «stato di crisi mondiale» del 2008.” (p. 189).

Ciò che accomuna queste lotte e queste insorgenze è infatti un’opacità delle forme organizzative, la mancanza di egemonia di una qualsivoglia organizzazione politica preesistente sul movimento (così come di un soggetto sociale trainante facilmente riconoscibile), l’indisponibilità a farsi potere e, da ultimo, lo scivolare in secondo piano di specifiche rivendicazioni a vantaggio dell’esposizione di una presenza e di una potenza collettiva situata, che si traduce nell’occupazione delle piazze e degli spazi metropolitani. Se tutti questi elementi sono stati a più riprese e da più parti giudicati come dei limiti e dei fattori che hanno determinato la mancata verticalizzazione e quindi il riflusso di questi movimenti, l’autore compie un’operazione ardita, rivendicandoli invece come punti di forza e di intelligenza invece che di debolezza.

“L’intelligenza dell’insurrezione [argentina] consistette nel non accettare uno scontro frontale col potere statale, bensì di esplorare la possibilità di «svuotarlo» puntando a neutralizzare e disperdere la polizia proprio grazie alla non-centralizzazione del movimento, e dall’altro lato nel non proiettare nessuna rivendicazione, ma semplicemente esponendo una forma di vita destituente; in sostanza ricercando e trovando una maniera di combattere asimmetrica tanto al livello della tattica – nella guerra di strada, cioè – quanto su quello della strategia – la costruzione della Comune. Si tratta di un’altra maniera di affrontare tatticamente la battaglia, con forme di violenza insurrezionale «assolutamente “sregolate”, che non prevedono alcuna mediazione e non espongono regole esplicite di ingaggio ma si regolano autonomamente attraverso dei codici incomprensibili ad agenti esterni», scrive Situaciones. Quella potenza che sa essere porosa per i suoi amici e del tutto impermeabile allo sguardo esterno ha già guadagnato una forza enorme.” (pp. 224-225)

A scompaginare gli schemi di lettura tradizionali delle dinamiche riguardanti i movimenti sociali e la conflittualità di piazza, oltre all’asimmetria delle tattiche di combattimento si aggiunge la mancanza di un soggetto sociale egemonico che funga da perno di questi “popoli”. Ma proprio in questa mancanza, nell’assenza di una classe immediatamente riconoscibile che possa farsi carico di un processo costituente, secondo l’autore risiede un elemento di forza potenziale da valorizzare. Ripercorrendo le tracce del lavoro di Foucault, Tarì scrive:

“Il soggetto della modernità era sì qualcosa capace di resistere e persino di iniziare delle rivoluzioni, ma era anche rappreso nella sua densa identità sociale, ciò che dava al potere una molteplicità di punti di presa – le tecniche disciplinari che si applicavano sul e attraverso il corpo tramite il lavoro, la famiglia, il sesso, la scuola, la religione, la guerra e ancora altri innumerevoli punti di presa - facevano sì che il soggetto fosse quasi del tutto avvolto e messo in forma in una rete di dominio. […]La contemporanea soggettività occidentale-metropolitana invece è del tutto evanescente, liquida si è detto, estranea a se stessa innanzitutto. Questo è il suo peccato originale ma anche la sua potenzialità, proprio per il fatto di non prestare al potere alcun appiglio sostanziale, alcun punto sul quale poter fare presa se non lo si produce just in time, a partire dall’arredamento dei suoi spogli intérieurs. […] Questa è una potenzialità, perché ciò che finalmente si percepisce come estraneo si può distruggere senza rimorso alcuno.” (pp. 80-81)

Quindi, continua Tarì prendendo le mosse da alcune delle ricerche filosofiche di Agamben, “a un non-soggetto, corrisponde logicamente un non-potere. Il compito della teoria rivoluzionaria, se ne ha uno, è oggi quello di indagare le forme della potenza di questo non-potere, così come le forme di vita di questo non-soggetto.” (p. 85) Da ciò deriva una critica netta rispetto alle griglie di lettura che tendono a ricondurre la politicità delle piazze insorgenti alla composizione sociale ed economica delle soggettività presenti: “come scrivevano quelli di Situaciones, non si tratta di dire che le classi non esistono ma che è il classismo come paradigma di lettura a essere sbagliato, perché «impoverisce e riduce la molteplicità emergente alle condizioni economiche da cui proviene.»” (p. 228)

Rispetto a questa critica che chiama in causa il nostro sguardo, uno spunto di discussione. Se è vero che in ogni processo rivoluzionario, i “soggetti” protagonisti cercano di negare se stessi in quanto soggetti plasmati dal mondo del capitale, collocati nella sua ingegneria sociale, è sicuramente opportuno porsi l’interrogativo circa l’utilità del continuare a chiamare questi soggetti operai, studenti, disoccupati, proletariato, ceto medio ecc. – giacché ogni descrizione corre sempre il rischio di diventare una definizione, quindi un ostacolo all’ulteriore sviluppo del movimento – quando questi vorrebbero o potrebbero, anche grazie al nostro apporto, divenire altro da sé.

Se questa è un’indicazione utile da tenere a mente in situazione, non si elimina con ciò la necessità di rendere comprensibile come una serie di processi convergono e si condensano in un evento, e i soggetti sociali che vi sono coinvolti; di tradurlo se vogliamo, cioè tradirlo in parte pur di consegnarlo ai compagni e agli amici che per motivi di lontananza geografica guardano a quanto succede in un dato contesto senza potervi prendere parte direttamente, e che quindi solo in questo modo possono farne conoscenza.

Del resto, se merita di essere presa sul serio la diagnosi di Tarì secondo cui “tutti i movimenti contro l’austerità degli ultimi anni si sono velocemente spenti, o sono stati altrettanto velocemente sconfitti, esattamente a causa del loro restare aggrappati a quello scoglio rivendicativo” (p. 140), questo non cancella il fatto che queste insorgenze, da quella argentina fino alla primavera francese del 2016, hanno avuto il più delle volte come fattori scatenanti dei provvedimenti governativi di ordine economico-finanziario da cui determinati settori sociali si sono sentiti particolarmente colpiti.

Ciò è sufficiente a spiegare il perché una pluralità di soggetti si sono ricomposti e fatti popolo in quelle occasioni? Certamente no, ma pensiamo che il materialismo e un piano d’analisi di classe, se intesi non in senso economicistico o sociologico bensì politico, continuino ad essere una bussola analitica imprescindibile. L’importante è non farne un dogma, una camicia di forza che deve esaurire in sé una potenza dispiegata. È l’analisi che deve servire a rafforzare il movimento reale, non il movimento reale che deve obbedire alle categorie dei teorici “di movimento”.

Sempre in tema di categorie interpretative su cui l’autore non risparmia critiche, quella di populismo è una di quelle maggiormente attaccate. Tarì scrive infatti - ed è un’affermazione sicuramente scomoda per certe orecchie - che “il populismo esiste solamente quando il popolo è assente. Infatti il populismo organizzato – che oggi ha tante sigle in Europa, di destra come di sinistra - è emerso solo quando quel popolo che aveva cominciato a crearsi durante le rivolte è stato nuovamente annichilito, una volta che le insorgenze sono state represse o si sono spente per i loro stessi limiti.” (p. 159) E quindi: “Il popolo manca. E mancherà finché sarà in vigore questo presente. Per l’intanto, la breccia che vi apre la rivolta è una di quelle poche maniere in cui quella mancanza può comparire nel mondo anche se solamente per la durata un baleno” (p. 13)

Tarì ci ricorda inoltre, citando Agamben, che “il compito originale di una rivoluzione non è perciò mai semplicemente di «cambiare il mondo», ma anche e soprattutto di «cambiare il tempo»” (cit. p. 54). Quanto questo insegnamento risulti oggi trascurato nei nostri ambiti, si vede bene da quanto sia stata interiorizzata una concezione amministrativista della piazza. C’è in qualche modo un copione prestabilito che le organizzazioni promotrici di una manifestazione intendono seguire mantenendone l’esclusiva regia: eventuali eccedenze o pratiche intelligentemente offensive che possono emergere in situazione, o vengono guardate con sospetto e all’occorrenza controllate oppure, e forse è pure peggio, si rinuncia proprio a immaginarne la possibile comparsa. Il film va come deve andare, o magari no a causa dell’azione della controparte, e tutti tornano a casa, le organizzazioni più o meno soddisfatte di aver gestito bene la piazza, i manifestanti al tempo ordinario della produzione e della vita alienata.

L’affermazione che abbiamo sentito infinite volte (e non sempre da parte di indifferenti cronici o poltronari incalliti) secondo cui “le manifestazioni non funzionano, mi sembra inutile continuare ad andarci”, meriterebbe forse una considerazione maggiore e una disponibilità all’autocritica rispetto alla nostra incapacità di trasformazione uno sciopero o una manifestazione ordinari in qualcosa di più: qualcosa per cui entrano perfino in secondo piano le rivendicazioni di partenza rispetto al prendere parte, materialmente e spiritualmente, a quella potenza in movimento. Osserva Tarì: “Da sempre la mancanza di fantasia per i rivoluzionari indica la certezza della loro disfatta; il poco spazio che si dedica a questo esercizio o la mancanza di fiducia nella propria fantasia li precipita regolarmente nella trappola della ragione calcolante.” (p. 196)

Come non ricordare invece (senza scomodare ancora una volta la nota pagina di Benjamin sullo sparare agli orologi) che soltanto due anni fa, la potenza espressa dal movimento francese contro la Loi Travail e il suo mondo durante il mese di marzo fu tale che i manifestanti, per scongiurare la possibilità che quella potenza si chiudesse, cominciarono a contare i giorni sfondando il calendario ufficiale: quindi 32, 33, 38, 45 marzo… Solo chi è ormai abituato alla gestione del proprio misero presente non è in grado di cogliere il valore, la potenza affettiva di un evento che permette a centinaia di migliaia di esseri di sintonizzarsi attorno a un tempo altro, di farsi popolo praticando la sospensione della catastrofe presente, “uno sciopero della Storia.” (p. 178)

Secondo Tarì, la forza intrinseca del paradigma destituente usato per dare conto delle insorgenze globali di questo inizio di XXI secolo, sta esattamente nell’apertura di questa temporalità altra, che permette di rimettere totalmente in discussione la vita così come è: “è un tempo, quello della destituzione, nel quale diviene possibile deporre la vita asservita che è in vigore mentre viene alla presenza la profana possibilità di una forma di vita orientata alla felicità che si situa al di fuori delle leggi – non contro, né per, bensì al di fuori” (p. 53).

Per evitare che questo fuori venga riassorbito dentro la dinamica del potere (sempre costituente per definizione) secondo Tarì occorre che i rivoluzionari stessi imparino a esercitare costantemente la destituzione di se stessi, dopo ogni vittoria così come dopo ogni sconfitta:

“Quello che insieme ai nostri amici bisogna ogni volta riscoprire è piuttosto come accompagnare il divenire reale di quello che già è qui, ora, con noi, in mezzo a noi. Esserne gli assistenti. Organizzarsi per scomparire a nostra volta in quel divenire. Quelli che si organizzano nel divenire della storia come sua frazione rivoluzionaria hanno sempre saputo che la vera vittoria avrebbe coinciso con la loro lenta e felice dissoluzione. Per loro non è mai esistito un motto che proclamasse «tutto il potere a noi!» o «alla nostra organizzazione!», ma al popolo, ai soviet, alle comuni. D’altronde questa è una delle frecce acuminate che Lenin scoccò nel 1917 con le sue Tesi d’aprile. (pp. 14-15)

Un’epica del cessare che nella nostra contemporaneità trova il suo perfetto esempio nella destituzione di sé compiuta dal Subcomandante Marcos, figura simbolo dell’insurrezione zapatista in Chiapas.

Il testo di Tarì si conclude quindi con l’invito a “disporre la rivoluzione nell’ambito della tattica e la rivolta in quello della strategia” (p. 238). Un invito rispetto a cui risulta difficile non provare un forte senso di vertigine, e che tuttavia, forse inconsciamente, smentisce in qualche modo la prima metà del titolo del libro. È il caso di dire, al più – e certo come abbiamo visto non mancano preziose suggestioni in questo senso – che non esiste la rivolta infelice. La rivoluzione è una faccenda su cui sarà ancora necessario ricercare, discutere, tentare. “«Fallire ancora, fallire meglio». Fallire fino alla vittoria” magari, come suggerisce Tarì ampliando la massima di Beckett.

Molte sono le critiche che possono essere mosse all’autore: dallo spazio decisamente marginale riservato a quella che è ad oggi l’esperienza rivoluzionaria più interessante a livello globale, ovvero quella del Rojava, a un’eccessiva fiducia nella forza palingenetica dell’evento e del gesto – messi in opposizione non dialettica alla classe e all’azione –, la quale corre il rischio di suscitare qualche convinzione illusoria circa il carattere superfluo del lavoro e dei compiti dei militanti quando le lotte e le rivolte non ci sono (e non per limiti o errori a noi riconducibili), fino alla scelta di ridimensionare il ruolo del materialismo e della lotta di classe come motori della trasformazione anticapitalista.

Ma se il libro di Tarì non ci offre soluzioni già confezionate, esso da un lato pone correttamente molti dei problemi politici dirimenti per l’oggi - uno su tutti, la necessità di elaborare “una forma di vita che è allo stesso tempo e modo forma di organizzazione.” (p. 182) -; dall’altro, la grazia energica della sua scrittura è un’esperienza intima che fortifica la soggettività di chi la incontra, una fonte di spiritualità combattente di cui davvero, nel deserto che ci troviamo ad attraversare, avevamo bisogno. Come uno stendardo in fiamme piantato nel cuore dell’oscurità del presente.